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L’arbitrio dei Colonna dopo le annuali decrescenze del lago di Fucino (1562)

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Veduta del Lago di Celano (Gennaro Aloja-1812)
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In questo scenario assai convulso non smetteremo d’introdurre nuove problematiche di grande importanza locale. Del resto, molti avvenimenti pur rimanendo irrisolti nel tempo, si evolveranno in futuro in maniera diversa per diventare, infine, funesta eredità del passato feudale. Un particolare interesse riveste la vicenda riguardante l’annoso e incessante altalenarsi delle escrescenze e decrescenze del lago di Fucino che investirono direttamente i comuni, i coloni e i nobili. Diversi elementi si concatenarono alle vicende in atto.

Da una prima analitica ricognizione dei dati, si rileva che: «frequentemente i baroni cercavano di far passare come possessi feudali i beni posseduti in burgensatico, per non pagare su di essi la bonatenenza» (1). D’Altronde, una pessima amministrazione finanziaria e la mancanza dei diritti spettanti ai cittadini tolti dall’arbitrio dei baroni prepotenti, fece si che i feudatari credessero di essere «signori del territorio infeudato e di quelli che per loro disgrazia vi abitavano». Bisogna anche tener conto che moltissime estorsioni e angherie furono lasciate impunite dal governo vicereale e spesso, le imposte comunali, divennero ingiuste e tiranne per vizio di cattiva amministrazione, facendo aumentare le tasse che le Università dovevano al fisco della «Regia Corte». Del resto, tutto ciò è ampiamente confermato dalle proposte interpretative avanzate dallo storico Nicola Santamaria: «Come lottare col barone, il cui solo nome faceva rabbrividire e che non scendeva per abito e per regola alla bassezza di concorrere al pagamento del tributo nella poca parte per la quale era tassato? Come vincere il privilegio ecclesiastico che cercava di estendersi, le relazioni di famiglia, di amicizia e parentela? ». I signori della Marsica, quindi, non soggiacevano «né a colletta né a bonatenenza», abusando del privilegio reale. A partire da queste osservazioni, siamo in grado di conoscere, attraverso antichi documenti d’archivio, uno dei tanti episodi che dimostrano l’arroganza baronale. 

Nel 1562, ritraendosi le acque del Fucino, affiorò una «larga zona di terreno» che subito fu occupata e coltivata dagli affamati coloni avezzanesi. Ad invasione avvenuta, il «Gran Contestabile Colonna» impose al comune di stilare con lui una transazione sul suolo emerso, pretendendo dall’intera comunità la cospicua somma di ducati seimila. Dopo ripetuti «pubblici bandi» il municipio dichiarò di «non volere in comune pigliare detti beni, e pagar li denari predetti», proponendo al barone persone facoltose disposte all’acquisto delle terre emerse. Il feudatario romano accettò l’offerta con «ampia concessione», aggiungendo tre le clausole del contratto che, se anche le acque si fossero ritirate o di nuovo allagato i terreni coltivati, i vecchi proprietari sarebbero rientrati «ipso facto» nel possesso. L’accomodamento fu stipulato e redatto a Roma «alla Via dei Santi Apostoli» con atto pubblico del 17 novembre 1562 e firmato dai rappresentanti del comune di Avezzano insieme ai cittadini interessati all’acquisto delle terre emerse (2). 

Il nesso principale del contendere, per dirimere una complessa ma imponente vertenza sorta sui limiti di un’estesa proprietà territoriale, trova riscontro nelle osservazioni poste dallo studioso Antonio Rinaldi: come poteva il contestabile Colonna richiedere l’esoso prezzo su quelle terre emerse non potendo dimostrare che erano di sua competenza? Il barone, semmai, aveva la facoltà soltanto sulla «concessione delle acque, intendendosi per questa unicamente la giurisdizione feudale». In antitesi, il comune di Avezzano avrebbe potuto affermare che il lago era stato da secoli una «proprietà collettiva», di conseguenza, le terre emerse non potevano essere di possidenza feudale. Tra l’altro, sottolineò lo studioso: «Questo contegno serbato dal Colonna e dall’Università rivela la coscienza pubblica, che trattavasi di terre demaniali comunali. Se l’Università fosse stata in grado di spendere i ducati 6000, avrebbe subito la legge, e i cittadini vi avrebbero esercitato gli usi civici; ma poiché non poteva, la concessione fu fatta direttamente alle private persone, con l’adesione del comune». Quindi, in realtà, se i terreni emersi fossero stati di esclusiva spettanza del feudatario lo stesso non avrebbe rivolto la sua istanza al comune di Avezzano. Indubbiamente: «Quelle terre furono forse inondate un’altra volta, e non si sa cosa successe degli effetti di quella Convenzione. Certo egli è, che il lago con le sue alterne vicende, ora dava, ora toglieva; ma il diritto del Comune veniva sempre riconosciuto in una doppia forma, cioè l’uso civico delle pesca sulle acque, e con la quotizzazione a favore dei cittadini sulle terre abbandonate». D’Altronde, riprendendo le affermazioni di Santamaria (proteso su una linea d’indagine ben distinta, più versata sul lato dell’allodialità che non su quello della demanialità), anche il Rinaldi affermò l’impotenza dei coloni avezzanesi contrapposti a un nobile di quella forza e prestigio. Le sue affermazioni ribadiscono, senza ombra di dubbio, i primi gravosi esperimenti delle popolazioni marsicane per conseguire il diritto di uso civico sulle terre feudali. Vi si distinguono, con il passare delle varie dominazioni (viceregno spagnolo e austriaco), segni più metodici, consistenti e indicativi dei tornaconti comunitari che cercavano di contrastare, con sempre più stridore, l’egoismo e lo strapotere dei signorotti romani. La vicenda giuridica, come vedremo, non si concluse con facilità e, tra i vari reclami, non deve meravigliare se secoli dopo si pervenne ad un nuovo contenzioso tra i comuni ripuari e l’amministrazione Torlonia  (3).

NOTE

  1. La Società Napolitana dei tempi viceregnali, studiata e descritta per Niccola Santamaria, Tip. Dicesinia, Napoli 1861, pp.182-206; F.Caracciolo, Sud, debiti e gabelle. Gravami, potere e società nel Mezzogiorno in Età Moderna, Napoli 1983. I beni burgensatici erano tassati (si veda l’esempio dei catasti onciari); mentre i beni feudali erano soggetti a tasse «una tantum come i Relevi». Per contro, il feudatario poteva disporre a proprio piacimento dei beni «burgensatici» anche alienandoli; invece, non poteva vendere i possedimenti di natura feudale. I termini «bene burgensatico e bene allodiale» sono sinonimi e indicano un possedimento privato.
  2. A.Rinaldi, Della demanialità comunale del Lago Fucino, Roma 1893, p.35 sgg.
  3. Michele Ragusa asserì a suo tempo che, tra le carte conservate nell’Archivio municipale di Avezzano, esisteva la pergamena dell’atto stipulatorio oggi sparita (M.Ragusa, Brevi cenni storici sulla Marsica. Notizie di alcuni contratti antichi che si conservano nell’Archivio Notarile Distrettuale di Avezzano, Remo Sandron editore Bologna 1924, p. 12 sgg.).
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Fulvio D'Amore ricercatore e saggista

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