Nella sessione di aprile 1925, il «Gran Consiglio Nazionale del Fascismo», prima di iniziare i suoi lavori salutò romanamente e chiamò «a gran voce i Militi caduti, ricordando agli italiani che il fascismo è ancora e sempre una milizia che si espone ai sacrifici supremi e si consacra nel sangue. Addita a tutti i fascisti il mirabile stoicismo di quelle Camice Nere che sono morte gridando Viva il Fascismo! Ordina al Partito di arruolare incessantemente i suoi migliori gregari pronti a reprimere con la necessaria severità ogni conato di contro rivoluzione». Subito dopo, Mussolini espose al Consiglio una dettagliata relazione sulla situazione politica generale, investendo tutti i problemi nazionali, da quelli strettamente politici a quelli d’ordine economico-finanziario, con riferimento ai lavori pubblici e, particolarmente, al perdurare delle difficoltà nel Mezzogiorno (1). In questo difficile periodo, il segretario generale (Roberto Farinacci, capo degli intransigenti), aveva assunto la guida del partito fascista, epurando gli elementi più scomodi delle associazioni combattenti, per poi scendere in aperta polemica anche contro le organizzazioni cattoliche. In realtà, l’Osservatore Romano, aveva rilevato più volte le continue violenze commesse dagli squadristi di ogni paese, inimicandosi i vertici del regime (2).
Al tempo stesso i temi principali esposti dall’organo supremo della Rivoluzione Fascista, tenevano conto anche della critica situazione marsicana, che peggiorava con nuovi contrasti tra gli agricoltori e l’amministrazione Torlonia, protesa a ristabilire la sua supremazia nel Fucino. Tuttavia, queste forme di dissenso sociale furono affrontate sulla rivista fascista Gerachia, laddove l’onorevole Arrigo Serpieri (studioso e uomo d’azione) sostenne: «Osserviamo inoltre che, per chi si pone dal punto di vista dell’ideale nazionale, un’azione di governo intesa a porre in primo piano gli interessi rurali, ha una particolarissima importanza […] La saldezza della nazione, come unità, implica una certa omogeneità d’interessi, un certo equilibrio fra le sue varie parti ed attività. Non si comprende come ciò possa avvenire, finché, in un paese quale è l’Italia, i ceti rurali restino, se non assenti, affatto subordinati nel complesso delle forze della nazione, per lasciare prevalere il capitalismo industriale» (3).
Il persistere delle discussioni permise all’avvocato celanese Augusto d’Andrea di scrivere al direttore del giornale Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise (10 aprile 1925), una lunga lettera dal titolo espressivo: «Un nuovo Zuccherificio nel Fucino?», riprendendo i tenaci dissensi sostenuti dagli agricoltori fucensi nel 1923. Non a caso, i bieticoltori avevano venduto circa seimila quintali di bietole alla Società Viterbese «con il sovrapprezzo di lire una al quintale», sfidando l’inerzia della Società Romana e così contenere le pretese dei Torlonia (4).
Le polemiche aumentarono a dismisura quando: «l’Ecc.ma Amministrazione Torlonia mandò in giro un bando con cui s’invitavano tutti i bieticoltori del Fucino a stipulare, fin da subito, i contratti per la coltivazione delle bietole per l’anno 1927, direttamente con l’Amministrazione stessa, poiché tuttora il Principe Torlonia vuole impiantare nella conca fucense un nuovo Zuccherificio» (5). Non senza conseguenze sul piano personale, l’amministrazione Torlonia inviò: «per ogni dove i suoi dipendenti, con mandato preciso di diffidare i bieticoltori di non far contratti con altri che non sia l’Amministrazione stessa». Tra l’altro, il relatore dell’articolo ricordò agli interessati che, tra il 1923 e il 1924, era giunta a Celano la «Società Zuccherificio Viterbese», con l’intenzione di impiantare un nuovo stabilimento. Adottando una sleale concorrenza, la società partecipò con successo a due campagne stagionali: pagò generosamente le bietole agli agricoltori marsicani, che videro avvalorato il proprio prodotto e il lavoro stesso. Nell’anno in corso, però, l’amministrazione Torlonia, tirando fuori una vecchia e contraddittoria clausola inserita nei contratti d’affitto delle terre del Fucino: «dichiarò guerra ai bieticoltori che avessero coltivato il prodotto per la Società Viterbese», minacciandoli di sfratto immediato. Diffide e citazioni, consegnate per mezzo di ufficiali giudiziari, raggiunsero presto l’indirizzo di molti affittuari, colpevoli di aver preferito la società rivale. Avvisi di espulsione, rifiuto di rinnovo dei contratti e richiesta immediata di aumento dell’estaglio, furono le premesse per non rispettare i nuovi patti. La ragione di tutto venne ricapitolata da D’Andrea con queste parole:«secondo l’Eccellentissima Amministrazione Torlonia, lo Zuccherificio Viterbese veniva a turbare la fiorente industria locale, promossa ed alimentata dalla Società Romana Zuccheri e veniva a stabilirsi in una zona dove due Zuccherifici sarebbero stati di troppo, poiché non vi sarebbero potuti alimentare». Poi aggiunse che, ambedue, sarebbero stati costretti a chiudere per reciproco esaurimento, con danno irreparabile per i trecento operai impiegati, gli avventizi e altri duemila agricoltori.
A dispetto di queste opposizioni, le minacce dei potenti Torlonia raggiunsero l’apice quando attaccarono anche la Società Romana Zuccheri. Il dissidio fu chiarito in questi termini: «Pare che l’Ecc.ma Amministrazione Torlonia sia venuta in dissidio con la Società Romana Zuccheri, per alcune ferrovie, costruite da questa nel Fucino per il trasporto di bietole, ferrovie che dopo dati anni dovevano tornare in proprietà di Torlonia». In realtà, il principe Carlo Torlonia, per la concessione delle ferrovie alla Romana Zuccheri, pretese tre milioni l’anno, una cifra esorbitante che, sicuramente, sarebbe andata a pesare solo sui introiti degli agricoltori. D’altronde, affermò D’Andrea: «Gli industriali sono industriali e nessuno giuoca per perdere». Gli affittuari del Fucino ben conoscevano il detto comune: «dal fosso esce la calce!». E allora, nel bel mezzo di tutte queste contrarietà, quale futuro poteva avere la prossima campagna del 1927 se, per le ragioni su esposte, la fondazione di un nuovo zuccherificio rimaneva una pura astrazione mentale? Così, il centro d’interesse dei problemi in atto, rimase aperto a ogni contesa. Comunque, nel febbraio del 1925, in un’importante riunione degli zuccherifici italiani tenutasi dalle autorità fasciste a Genova, venne stabilito che non bisognava attuarsi una concorrenza sleale nella zona di ciascun comune: «non invadere la zona altrui per incetta di bietole, né riceverle da qualunque altra zona che non sia la propria, a qualunque titolo di concessione».
E allora, si domandò il relatore dell’articolo, che ne sarà delle bietole promesse a Torlonia e il suo modulo di contratto firmato dai bieticoltori,? In questa drammatica situazione, rimarranno dunque senza un compratore? E perché gli agricoltori dovevano esporsi a questo rischio pericoloso? Quando verrà il momento, quale necessità li costringerà a non vendere essi stessi direttamente il loro prodotto senza interposte persone e senza rischi e pericolo alcuno? Del resto, come potevano regolarsi gli agricoltori del Fucino in questi pericolosi frangenti tra la Romana Zuccheri, Torlonia e la Società Viterbese che difendevano solo i propri interessi sul territorio? Questi, dunque, gli interrogativi esternati da D’Andrea nel lungo servizio giornalistico. La complessità dei contrasti presentava, ancora una volta, caratteri sconfortanti e aumentò le tensioni, mentre Torlonia minacciava di creare un nuovo zuccherificio, tenendo sotto scacco la Società Romana Zuccheri, i bieticoltori e la Società Viterbese. Poi il principe romano rivelò le sue ferme intenzioni, affermando che, senza la rete ferroviaria di sua proprietà, l’intera produzione del Fucino sarebbe morta: «per anemia più o meno prolungata».
Più verosimilmente, D’Andrea espose i rischi cui sarebbero andati incontro i bieticoltori in quel momento: «Ma nel caso che la Società Romana Zuccheri dovesse pagare compensi altissimi a Torlonia, chi è che veramente ne risentirebbe? Solo l’agricoltore!». D’altronde, il cronista celanese, traendo le somme, non ebbe motivo di dubitare su chi avrebbe avuto la peggio, infatti: «la Società Romana Zuccheri solo apparentemente pagherebbe a Torlonia i tre milioni per l’uso delle ferrovie; in quanto le bietole, invece di pagarle, supponiamo, Lire dieci al quintale, le verrebbe a pagare di meno; i concimi ed i semi, invece di fornirli semigratuiti, li farebbe pagare per intero. Tante altre agevolazioni verrebbero ad essere tolte; ed infine chi è che veramente pagherebbe? L’agricoltore umile e paziente. Dunque, gli agricoltori, in nome e per conto dei loro interessi, non credano a promesse evanescenti. Se l’Ecc.ma Amm.ne Torlonia avesse serie intenzioni di portare benessere economico nella regione marsicana, come sarebbe suo dovere, avrebbe nuove industrie da creare e proteggere, non distruggere le esistenti, di cui, finora, ha menato tanto vanto. Non si lascino prendere dalle mirabolanti ed irreali promesse gli agricoltori del Fucino. Se nel 1927 saranno ancora vivi, com’è loro augurato, quando l’Amministrazione Torlonia avrà realizzato il nuovo Zuccherificio, vedranno i loro sudati prodotti; ma non ora».
Con l’aiuto di questi importanti rilievi di carattere cronachistico, si possono rilevare ancora una volta le dinamiche economiche nel Fucino durante il ventennio fascista, caratterizzato da un forte impatto sociale che aumentò, inevitabilmente, l’aspra lotta contro il dominio dei Torlonia.
NOTE
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