Le «gabelle» (che erano molteplici forme di contribuzione, non legate da alcun rapporto d’identità, come un’imposta diretta o indiretta oppure anche una tassa), gravarono in modo particolare sui prodotti che costituivano la base fondamentale del commercio marsicano e napoletano: farina, olio e sale. All’intensificazione della pressione fiscale corrispose una netta tendenza regressiva dell’attività economica, provocando, così, un drammatico inasprimento dei pesi esercitati dai commissari spagnoli sulle comunità.
Ognuno dei punti accennati o citati in questa relazione trova puntuale riscontro nella documentazione concernente il periodo trattato. Il fiscalismo eccessivo e la cattiva ripartizione dei tributi «i brutali e rovinosi sistemi di esazione e il prepotente anarchismo dei ceti privilegiati, l’infelice scelta degli arrendatori e l’incapacità quanto si è progettato di incassare […]» sono ben riportati in una esposizione delle finanze e dell’amministrazione del regno da duca d’Alba, inviata a Don Francisco Antonio de Alarcon, visitatore generale del regno dal 1628 al 1631 (1). Oltretutto, in parecchi manoscritti zonali i mali delle università sono ben sintetizzati, laddove si affermò che i pesi pagati da quest’ultime andavano «in mal uso» e i poveri braccianti e i pescatori erano costretti a pagare tra i dodici e venti ducati annui. I benestanti, quasi tutti amministratori dei Colonna o dei conti di Celano, non pagavano per niente (oppure pochissimo), come pure gli ecclesiastici; mentre i sindaci erano gravati dal mantenimento dei commissari provinciali e dalle spese di alloggio dei prepotenti soldati spagnoli di passaggio sul territorio marsicano (2).
Anche lo storico Villari insiste su un lungo periodo di male amministrazione che: «favori obiettivamente un vero e proprio processo di rifeudalizzazione, che si diffuse per tutte le fibre del tessuto sociale e che colpì in modo particolare» comuni e intere popolazioni (3). Tuttavia, esaminando alcune importanti fonti notarili della Marsica, si avverte la disperata resistenza delle popolazioni alle violenze dei commissari. Il notaio pescinese, Claudio Migliori, registrava già dal 1607 una «Provvisione, allegata nell’atto, a favore della Città di Pescina, in data 11 dicembre 1606, per acquistare tremila tomoli di grano occorrenti ai poveri cittadini che muoiono di fame a causa del cattivo raccolto» (4). Invece, dal protocollo del notaio Francesco Gatti di Antrosano, si rileva che: «Occorrendo all’Università di Tagliacozzo pigliar denari a censo per la Compagnia Spagnola destinata nella terra di Tagliacozzo per ordine dell’Eccellenza del Sig. Vice Re di Napoli per un mese circa et non havendo la detta Università beni da poter fondare il Censo a preghiera delli Massari predetti, essi Dott. Lorenzo N. Federico, Jo: Battista Stefanicchio, Nestore et Jo.Battista d’Hercole, pigliorno a Censo da Notar Fabrizio Rainaldico di Magliano ducati mille et cinquecento, di moneta del regno». Infatti, sindaci e amministratori del comune furono costretti a stipulare un mutuo per sostenere la compagnia di soldati spagnoli. L’anno dopo, Francesco Nasico, massaro di Ortucchio, incaricò sette persone di Collarmele per: «portare e condurre bestie seu bagaglie quattordici parte muligne, et parte cavalline con selle e imbasti per servizio et beni seu robbe delli Spagnoli che si ritrovarono in detta terra di Hortucchio et proprie vicino Fucino, verso Santo Quirico», sborsando «carlini dieci per ciaschedun bagaglio et per cischedun giorno tanto nell’andare, come anco nel tornare» (5).
Oltretutto, in questo periodo di capovolgimenti, l’oppressione dei baroni locali e il fiscalismo governativo raggiunsero un’asprezza senza precedenti. Tanto è vero che il 24 gennaio 1616 gli amministratori di Pescina: «per non aver pagato al Principe di Celano la tassa del Foco potevano essere carcerati e che invece soddisfecero subito detta tassa con protesta di servirsene innanzi ai Ministri e alla Corte» (6).
Anche la città di Avezzano seguì la stessa sorte di altri paesi della Marsica, subendo le angherie degli irregolari spagnoli, pronti a rubare ogni cosa ai poveri cittadini. Tutto ciò avvenne quando il viceré marchese di Vigliena, temendo una probabile invasione degli Abruzzi da parte dell’esercito austriaco, aveva inviato truppe spagnole al comando del duca d’Atri per tentare una disperata resistenza. Ad Avezzano ci fu lo stanziamento e l’acquartieramento di circa duemila soldati della milizia spagnola. Nel palazzo di Alessandro Aloisi giunsero: «due Capitani di Corazze Spagnole, Don Errico de Velardo l’uno, e Don Luca de Castello l’altro, cavalieri manierosissimi, e compitissimi, condotti con gli altri in Avezzano, per presidio a favore di Filippo V, da Don Girolamo Acquaviva Duca d’Atri, Generale di battaglia, il quale vi condusse tutto il reggimento, e suoi ufficiali, con altri soldati dragoni, fanteria, e Tracolla fatti venire dalla Calabria, Terra di Lavoro, e Penne, et da altre parti del Regno, che passavano il numero di duemila, i quali subito arrivati in Avezzano, occuparono senza riparo, tutte le case, e le stalle, e riempirono tutto il paese, con grandissime spese, et incomodi dei cittadini, e con timori continui d’insulti, et in ultimo di sacco, più volte minacciato, e niente mancò, che non si effettuasse» (7).
NOTE
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