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La difficile convivenza tra istituzioni zonali, strutture feudali ed ecclesiastiche (1504-1656)

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NECROLOGI MARSICA

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castello baronale
castello baronale

A partire dal 1494 e fino al 1507, con la partenza di Ferdinando il Cattolico da Napoli, che segnò in pratica l’instaurazione del regime vicereale nel paese, si aprì un periodo di estrema conflittualità anche nella Marsica sul piano istituzionale e socio-economico. 

La situazione corrispondeva all’incalzante sequenza «degli eventi su quello politico e sociale», soprattutto dopo che, nel 1503, si era compiuta la conquista del regno di Napoli, strappato ai francesi (1).

Attraverso l’analisi di gruppi sociali, che risulteranno coinvolti in una lunga serie di diatribe zonali, vengono alla luce avvenimenti sull’aristocrazia provinciale e il patriziato romano, coinvolti in tensioni o convergenze ma, altresì, le continue pressioni provenienti all’interno delle varie fazioni, con rispettivi schieramenti nei confronti della Corona che ricompongono un quadro territoriale di marcata feudalizzazione e con il corrispondente assetto politico tra monarchia feudale e stato moderno (2).

Stemma dei Colonna
Stemma dei Colonna

Ancora una volta, quindi, la trama complicata dei rapporti sociali tra feudatari confinanti, diritti delle abazie (vedi S.Maria della Vittoria di Scurcola), rivendiche comunali e privilegi ecclesiastici, con contrasti di fondo non secondari, riflette una spiccata litigiosità diffusa nella storia marsicana e nei gruppi sociali del territorio. In questo intreccio di convergenze, tra i baroni romani in primo luogo e quanti li rappresentavano in loco, esistevano margini reali di iniziative e soprusi, se non altro di difesa dei rispettivi interessi, spesso puniti dal viceré spagnolo Alcalà che comandava un’attenta vigilanza all’Udienza aquilana, talvolta prendendo drastiche decisioni per la concessione di donativi.

I Colonna, dal 1504 in poi, diverranno definitivamente signori di quasi tutto il territorio per tre lunghi secoli. Perciò, il panorama della contea dei Marsi, coll’avvento del Borbone, si presenterà diviso in due tronconi: ad Ovest lo Stato di Tagliacozzo e Albe che resterà pressoché intatto fino all’abolizione della feudalità; ad Est la contea di Celano con la baronia di Pescina. Tutta la zona, come andiamo spiegando, sarà teatro di forti tensioni tra baroni ed ecclesiastici per questioni di interesse: privilegi, benefici, capitoli, supremazie, usurpazioni e contese di ogni genere erano all’ordine del giorno, scatenando dure diatribe senza esclusione di colpi tra vescovo e feudatario, nel bel mezzo di lotte finalizzate quasi sempre a togliere ai comuni gli «jura civitatis», cioè i diritti che competevano a tutti i cittadini in quanto tali (3).

Nonostante ciò, le corti baronali, con i loro consueti atteggiamenti dispotici, seguitavano a gestire  per mezzo dell’erario locale (benestanti che curavano la riscossione delle rendite magari a loro vantaggio) lo «jus prohibendi» sui mulini, fornaci, corderie, valcherie, concerie, cartiere e stanghe del pesce in tutta la Marsica occidentale e orientale.

Molte di queste voci, più infinite altre, gravavano su buona parte della vita economica e sociale del territorio. I baroni (Orsini, Colonna, Sforza Cesarini ed altri) cercarono sempre di accrescere i propri introiti riesumando prestazioni, fide e canoni ormai desueti o imponendone di nuovi con pretesa di aumenti delle risposte in cereali per usi di semina, spesso usurpando terreni del demanio universale e avvalendosi dell’indebitamento delle Università (comuni) per acquistarli legalmente o prenderli in affitto (4).

Le strutture demaniali costituivano, dunque, in larga misura il fondamento su cui erano stati edificati in passato gli ordinamenti giuridico-amministsrativi del feudo e si erano articolate le principali fonti di entrata baronali ancora in piena attività fino all’abolizione della feudalità. Anche se, talvolta, l’entità delle risposte sulle terre ecclesiastiche e feudali sottoposte a usi di semina, di pascolo, di legnatico, ecc., era comunque fissata da antiche tradizioni sancite dalle consuetudini o dagli statuti locali (abbiamo già nominato quelli di Avezzano). Queste tradizioni si erano formate in un quadro economico arcaico, nel quale il basso livello della produzione e del reddito aveva reso convenienti ai feudatari e al clero, desiderosi di ricavare il massimo vantaggio dalla terra, canoni anche lievi ma sicuri e numerosi (5).

Uno dei maggiori storici medievisti e moderno Giuseppe Galasso, dopo accurate indagini, affermò in proposito: «Nella fissazione del Comune come modulo ed ente amministrativo locale l’esperienza del Mezzogiorno ebbe un suo valore che andava ben oltre i confini del paese, e non si può neppure negare che la legislazione statutaria dei comuni meridionali abbia rappresentato un importante contributo alla formazione del grande patrimonio amministrativo italiano e della sua esperienza istituzionale e normativa» (6).

Tuttavia, a noi nell’insieme interessa soffermarci sulla estesa documentazione delle vessazioni feudali e clericali, nella quale si rilevano molte beghe giuridiche caratterizzate dalle fortune delle famiglie patrizie che spesso crollavano coprendosi di debiti mentre si potenziavano «con significativo parallelismo, il prestigio politico e l’agiatezza economica del ceto forense, divenuto arbitro della sopravvivenza o meno di una salda impalcatura feudale». Presidi, uditori, mastrodatti, giudici, notai, seguiti da un’infinita caterva di commissari e percettori, «costituiscono viceversa l’autentico insanabile fondo corrotto della situazione, la perpetua piaga meridionale di sopraffazione locale», presente in tutta la Marsica. Bisogna allora tener conto di un importante studio dello storico Colapietra, che ci rivela, tra l’altro, una: «supplica di Giovanni Antonio Simboli, capitano della Grascia d’Abruzzo e nativo di Pescina, il quale riferisce come il suo scrivano Persia sia stato arrestato a Tagliacozzo dal maggiordomo del duca di quella terra, e Contestabile del Regno, don Lorenzo Onofrio Colonna e costretto a ritrattare il suo informo sul contrabbando esercitato dal medesimo Colonna, dichiarandolo scritto ad istigazione dello stesso Simboli». In seguito: «Restituito il Persia alla giurisdizione governativa e trasferito nelle carceri della Vicaria di Napoli, aveva trovato colà il procuratore del duca, Velli, che con denaro e promesse di libertà lo aveva indotto a confermare la ritrattazione: talché l’indagine era rimasta arenata» (7).

NOTE

  1. G.D’Agostino, Parlamento e società nel Regno di Napoli, secoli XV-XVII, Guida Editori, Napoli 1979, p.148. 
  2. G.D’Agostino, Il sistema politico rappresentativo interno del Regno di Napoli tra monarchia aragonese e viceregno spagnolo (1443-1516), in ASPN, Terza Serie, XVI (1977), pp.21-58.).
  3. B.Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1965, p.2. Cfr. Commentario alle Pandette di Cristiano Federico Gluck, tradotto ed arricchito di copiose note e confronti col codice civile del regno d’Italia, Libro Primo, Leonardo Vallardi editore, Milano 1888, De Iustitia et iure p.14. Si tratta delle Pandette di Giustiniano: «secundum nostrae civitatis iura», un concetto dell’obbligazione nel senso del diritto civile romano.
  4. G.Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna. Rapporti di produzione e contratti agrari dal secolo XVI a oggi, G.Einaudi, Torino, 1974, p.202.
  5. G.Giorgetti, cit., p.92. Sull’eccesso di produzione sul consumo, di offerta o di domanda, di crediti sui debiti (surplus), si veda: A.Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia. La lunga durata e la crisi (1500-1656), vol I, Liguori editore, Napoli, 1986. Per tutti gli altri aspetti generali: R.Villari, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Editore Laterza, Bari, 1961; R.Quaranta, Monografia agraria della provincia di Aquila, in «Inchiesta agraria» vol.XII, fasc.III; G.Galasso, Dal Comune medievale all’Unità, Linee di storia meridionale, Editori Laterza, Bari, 1969.
  6. G.Galasso, Il regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), in Galasso G. (cur.) Storia d’Italia, vol XV/1, Torino: s.n., 1992, p.439.
  7. R.Colapietra, Lo spirito pubblico nel Mezzogiorno nella seconda metà del Seicento (1656-1734), in «Politica e Storia. Raccolta di studi e testi a c. di Gabriele De Rosa» 6, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1961, p.30.
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Fulvio D'Amore ricercatore e saggista

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