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 La secoroncìcola ‘lucertola’ di Capistrello e Corcumello, parolona sesquipedale

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Un termine certamente singolare, e piuttosto lungo, questo di secoroncìcola ’lucertola’ che ci suggerisce quanto antiche siano le parole indicanti certi animaletti, anche se in fondo antiche sono pure la gran parte delle altre o, almeno, le loro radici. Dinanzi a questi termini l’etimologo tradizionale fa quello che può ricorrendo agli strumenti a sua disposizione che a mio avviso sono, in questi frangenti, inadeguati: di conseguenza, dinanzi alla necessità di trovare l’etimo, favoriscono forzature interpretative e metodologiche.  Non ho la minima intenzione polemica o denigratoria verso nessuno, ma mi preme solo mostrare quello che penso in proposito, non condividendo la soluzione del problema secoroncìcola proposta da Alessandro Valente, in un suo articolo apparso nel portale Corcumello Village[1].  Se qualche mia osservazione suonasse offensiva, me ne scuso sin da ora.

Ammetto che possa essere esistito, come lui sostiene (nei vocabolari non l’ho trovato), un certamente probabile aggettivo neutro greco saur-ik-ón derivato dal nome greco m. saũr-os ’lucertola’ o f. saúr-a ‘lucertola’, e passato nel lat. medievale *sauric-um (con asterisco perché non attestato ma supposto come radice di termini, penso, simili a sarica ‘lucertola’ in dialetti meridionali). In base a ciò il Valente propone una forma diminutiva *sauricum(c)icula(m) che mi pare fortemente irregolare. Si aggiunge in effetti il regolare suffisso –(i)cula(m), ma non alla radice o al tema della parola priva della desinenza –um, che avrebbe dato una normale *sauric-icula(m) o anche *sauricula(m), bensì a tutto il termine completo di desinenza introducendo anche l’infisso ingiustificato della /c/ che suona pertanto come una zeppa per l’etimologia proposta, a mio avviso.  A parte il fatto che un termine neutro (*sauric-um), che ribadisce fortemente il suo genere se mantenuto nel momento in cui dà vita ad un diminutivo femminile, stride con la norma. Basti, per tutti gli esempi che si possono addurre, solo quello del latino neutro  scort-u(m) ‘pelle, sgualdrina’ che ha dato i diminutivi neutri scort-ulu(m) ‘pelle (di leone)’ e scort-illu(m) ‘sgualdrinella’ saldando i suffissi diminutivi direttamente al tema della parola.  Il diminutivo proposto dal Valente sarebbe stato, a mio avviso, regolare, se avesse avuto la forma *sauriconcilla(m) dove sauricon- avrebbe costituito una forma ampliata in –on (come ce ne sono tante) della base sauric– ma senza l’eventuale  desinenza –um. In italiano il suffisso diminutivo –cello , variante di –ello, si aggiunge normalmente a vocaboli terminanti in –one/ona, previa caduta della vocale finale di parola.

La questione poi si complica per l’esistenza di un termine soncilica ‘lucertola’ nel paese di Villa San Sebastiano, non lontano da Corcumello.  Il sottoscritto, che è più che convinto che le parole sono composte di pezzi (radici) tautologici saldati insieme, come tutta la sua ricerca penso abbia definitivamente assodato, ha visto, in prima battuta, la possibilità di scomporre in due parti tautologiche la voce seco-roncìcola, la cui seconda componente bene assuona con questo soncìlica . E’ vero, fa una certa difficoltà la liquida /r/ iniziale che non si concilia con la fricativa /s/ di soncilica  ma tutto il resto depone effettivamente a favore di una forte somiglianza, se si prescinde dalla normale metatesi finale con scambio -lica/-cola. Ma chi pensa che le parole siano uscite così come sono, o quasi, dalla bocca dei primi uomini che le crearono è certamente portato a trovare altre soluzioni come quella del Valente che suppone una sincope piuttosto rara, se non unica, intervenuta a cambiare profondamente i connotati del termine capistrellano-corcumellano s(ecor)oncìcola. Sarebbe insomma caduta tutta la parte bisillabica in grassetto (-ecor-), compresa quindi la –e- della prima sillaba, sede di un accento secondario, ben percepibile specie in una parola di lunghezza non indifferente il cui accento tonico è posto sulla quarta sillaba: e le sincopi colpiscono principalmente le vocali atone o sillabe atone, senza raggiungere però le proporzioni di quella in questione, fatta eccezione dei nomi personali che sono i più tormentati in tal senso. Si pensi a Beatrice > Bice. A mio avviso sarebbe stata molto più credibile una trafila  *sec(o)roncicola > *se(c)roncicola > *se(h)roncicola > *seroncicola, ad esempio, con la caduta dei fonemi messi tra parentesi.  Nel mio dialetto di Aielli nella Marsica orientale, infatti, che tratta le vocali atone molto diversamente (esso tende ad oscurarle nella vocale indistinta, tranne la /a/) da quello dei paesi dei Piani Palentini (dove invece esse rimangono ben solide), la parola sarebbe stata pronunciata sëkërungìcula o anche sëkrungìcula, con la caduta della /ë/ evanescente dal gruppo –kër- come accade nella parola corona pronunciata dialettalmente kuróna, ma arcaicamente  këróna oppure, con sincope della vocale indistinta,  króna.

Data quindi, a mio parere, l’improbabilità della sincope in questo caso, bisogna trovare un’altra soluzione più attendibile.  E così, cercando nel web, ho incontrato le voci salentine (prov. Lecce) sacàr-a ‘serpente cervone’ (a Collepasso), serpente lungo e nero, e sacar-egna ‘geco’ (a Zollino) che sfrutta la stessa radice benchè sia  un piccolo rettile notturno simile ad una lucertola .  Non si può negare che la struttura portante delle due parole corrisponde a quella della prima parte del nostro secor-oncìcola. Ma c’è molto di più. Il serpente sacàr-a è noto anche come scur-sóne o scor-sóne in molte parti d’Italia dalla Sicilia al settentrione, il cui primo membro presenta la sincope di una vocale, probabilmente la /e/, tra le due consonanti iniziali.  Qui la somiglianza con il membro secor-  è totale. Il nome rispunta persino in Catalogna nella forma e-scurçó ‘vipera’, con la /e/ prostetica come avviene per lo spagnolo in tutte le parole che iniziano con la /s/ impura. Il serpente è noto anche come saett-one, evidentemente da un precedente sag-itt-one, parola che dovette incrociarsi in epoche lontane col lat. sag-itt-a(m) ‘dardo, saetta’, il cui primo membro potrebbe corrispondere a parte della radice sac-ar di cui sopra.  Le cose, secondo me, stanno in questo modo. Questi termini, in tutte le loro forme allotropiche, dovettero avere il significato generico di ‘animale, serpente’ nella notte dei tempi; quando qualcuno di essi (di cui magari nel corso dei millenni si era oscurato il significato etimologico nella coscienza del parlante) si ritrova a far parte di questa o quella lingua, se nel frattempo si è incontrato con altro termine formalmente simile ma d’altro significato, tende ad appropriarsene, soprattutto quando esso indica una caratteristica più o meno evidente dell’animale designato, facendo così credere, anche allo studioso più esperto, che quest’ultimo significato sia quello naturale originario[2]. Questo fenomeno contribuisce molto a far sì che il termine, prima generico, si specializzi restando attaccato a quell’animale e non ad un altro. Che inganno veramente sottile sono in grado di escogitare le parole per nascondere il loro valore originario! In effetti il saettone è molto veloce. Il nome saettone indica[3] anche un tipo di rondine, la quale non mi pare però particolarmente veloce, quando volteggia nel cielo alla ricerca di insetti, a differenza dei rondoni che invece sfrecciano sempre veloci. Comunque, non precipitiamoci a smentire quello che ho detto testé: infatti in alcune parlate dell’Alta Italia si usano due termini per me allotropici rispetto a saett-one  che indicano proprio il ‘rondone’.  Si tratta del trentino segón (a Mezzolombardo) e dell’emiliano sgh-èt con la sincope della /e/ (nel ferrarese e modenese)[4]. Questi uccelli sarebbero stati così chiamati per lo stridio che talora emettono simile a quello di una sega! Senza voler offendere minimamente nessuno, io resto basito! E le cose non cambieranno finché si lavorerà rimanendo sulla superficie delle parole.

Ora, tornando alla forma soncilica ‘lucertola’ di Villa San Sebastiano, mostrerò perché essa debba intendersi come autonoma, nonostante la somiglianza rilevata, rispetto a quella di Corcumello e Capistrello.  Nei dialetti sardi abbondano spesso le forme allotropiche, registrate accuratamente da validi ricercatori e linguisti come Rubattu e Pittau.  A proposito di “lucertola” ne ho incontrate molte tra cui ti-ligherta, tzi-ligherta, sin-tzi-righetta, tzi-righetta, tzi-liga, ci-ligherta[5].  L’oscillazione l/r in ligh-erta/righ-erta la ritrovo, ad esempio, fin nel mio dialetto di Aielli tra filë ’filo’ e firë ‘filo’, pilë ’pelo’ e pirë ‘pelo’.  A non parlare della voce abruzzese ruçerta[6] ‘lucertola’. A me pare chiaro che queste parole sono composte da lic-erta, allotropo del lat. lac-erta preceduto da una forma (non credo si tratti di prefisso) monosillabica e tautologica ti-, diventato anche tzi (con affricata sorda) diverso da ci, il quale ha anche una variante ca- in altre parole per “lucertola” che non ho citate.  La forma tzi-liga ci suggerisce che poteva esserci anche un allotropo senza il membro finale –erta come nel son-cilica sopra citato di Villa San Sebastiano.  Tirando le somme io considererei il son-  di son-cilica, variante del sin- del sardo sin-tzirigherta sopra citato, nonché sosia del secondo membro della parola scur-sone ‘serpente cervone’, più sopra analizzato.  La parte restante –cilica, che va suddivisa in ci-lica, si ritrova tale e quale nel sardo  ci-ligh-erta. Nei dialetti di epoche lontanissime, quando pochi erano i rapporti tra regione e regione, zona e zona, paese e paese, molte dovevano essere le diversità tra i dialetti, anche limitrofi, prima che intervenisse una qualche forza politica che sottoponesse lentamente le varie realtà locali ad un processo di livellamento uniformatore, che avrebbe fatto cadere molte delle forme particolari di una parlata.  Non mi si dica che i dialetti sardi siano tutt’altra cosa rispetto a quelli abruzzesi per poterne paragonare le parole.  Allora qualcuno mi spieghi perchè il composto picca-murrë ‘picchio’ (letteralmente  ‘becca-muro’) del mio paese combacia con quello sardo bicca-muru ‘picchio’ (letter. ‘becca-muro’).  Solo che stranamente il secondo membro del termine aiellese presenta una /r/ doppia, quando invece in tutti gli altri casi esso presenta la /r/ scempia, cioè murë ’muro’.  Bisogna allora supporre che questo –murrë inizialmente richiamava non il “muro” ma semmai il sardo murru ‘grifone, avvoltoio’, che ci riporta ad un possibile significato iniziale di ‘animale, uccello’.  Ma tant’è, la parola inizialmente tautologica (il primo elemento doveva essere il lat. pic-am ‘pica, gazza’ o pic-um ‘picchio’), per dare un significato all’intero composto altrimenti incomprensibile, ha dovuto raddoppiare la /c/ del 1° membro e attribuire al 2° il significato di ‘muro’, anche se nella mia vita non ho mai visto un picchio che se la prendesse con un muro, invece che col legno di un albero. Potrebbe talvolta anche accadere, ma non sarebbe stata quella rara volta a produrre il nome ell’uccello.

Ho dimenticato di spiegare la componente –on di secor-on-cicola.  Essa è una falsa desinenza accrescitiva (che si potrebbe allineare, comunque, con i termini latini come leo, le-on-is ‘leone’; mulio, muli-on-is ‘mulattiere’, ecc. non accrescitivi) come indurrebbero a credere i nomi cerv-one, saett-one, scursone riferiti ad un lungo serpente. Almeno all’origine, però, la componente doveva essere tautologica rispetto alle altre.  D’altronde il gr.  ón-os, la cui radice potrebbe essere coinvolta, valeva sia ‘asino’ che ‘millepiedi’ come ón-inn-os ‘millepiedi’: le due parti di quest’ultimo termine mi sembrano varianti, se gr. ίnn-os valeva ‘muletto’. La voce ón-os ‘asino’ quindi potrebbe essere variante della radice an di gr. án-em-os ‘vento’, lat. an-im-a(m) ‘soffio vitale, anima’ da cui lat. an-im-al ‘animale’ e non essere messa in rapporto con la radice as- di lat. as-in-u(m) ’asino’. Il secondo membro di quest’ultimo richiama il precededente gr. ón-inn-os ‘millepiedi’ e gr. ίnn-os ‘muletto.

Invito i gentili e pazienti lettori che conoscessero qualche nome particolare per “lucertola” nel loro dialetto a farmelo sapere nello spazio del commento riservato a questo articolo o direttamente andando sul mio profilo facebook nello spazio dei messaggi.

 

NOTE

[1] Cfr. sito web: http://www.corcumellovillage.it/index.php/2012/05/04/lorigine-del-termine-secoroncicola/

[2] Questo serpente, infatti, è noto in alcune parti d’Italia anche come frust-one, termine che ha fatto sviluppare le credenze più strane come quella secondo cui esso userebbe il corpo come una frusta contro l’uomo. In realtà esso è, a mio parere, ampliamento di lat. fer-u(m) ‘animale (selvatico), cervo, serpente’ variante di lat. fer-a(m) ’fiera’, con sincope della /e/. In calabrese fr-usculu vale ‘vipera, serpente’, oltre ad altri significati (cfr. web: https://www.facebook.com/notes/…italiano/…/1334099189975896). Nel Vocab. abr. del Bielli si incontra fr-ùschëlë ‘piccolo animale selvatico, insetti che infestano i campi’.  Sempre nel Bielli fr-uschë vale ‘frusta’, di conseguenza io considererei anche l’espressione rivolta al gatto fr-usta via! (‘vai via!’), diffusa non solo in Abruzzo e presente addirittura nel Cilento, come contenente un preistorico appellativo (fr-usta) per questo felino. Ugualmente non si spieggherebbe il nostro passa via! rivolto solo  al cane, senza il serbocroato pas ‘cane’. A questo punto vedo ammiccare sorniona anche la parola it. fru-gol-etto ‘bambino vivace e curioso’, incrociatasi sì con frugolare ma senza derivarne direttamente, come affermano invece i linguisti. Un bambino è già un animale, nel senso etimologico di ‘essere animato’, ma la radice di fer-u(m) aggiunge un che di ‘selvatico, indomito’ al termine. L’it. fru-golo, base non alterata di frugol-etto, era a sua volta diminutivo :*feru-culu(m) con sincope della /e/.  A pensarci bene anche l’it. frug-are, frug-ol-are, più che l’idea di “rubare” (cfr lat. fur-em ‘ladro’), mi sembra richiamare proprio  l’idea di “agitazione, rimestamento” molto simile a quella di “eccitazione, irrequietezza” insita nella voce frug-olo sopra citata. Sempre nel Vocab. del Bielli  si incontrano forme allotropiche rispetto alla precedente come frëch-inë ‘marmocchio’ e frich (con troncamento) ‘bambino’. In italiano frug-are vale anche ‘perquisire’ come ingl. fr-isk ‘perquisire’ ma anche ‘saltellare’, ingl. fresh ‘fresco, vivace’, concetti che richiamano la ‘vivacità’, ad esempio, di fr-usch-ëlë ‘piccolo animale selvatico’ incontrato sopra e come l’ingl. obs. frisk-in ‘azione o persona vivace’.  Forse anche l’it. br-usco (da cui deriverebbe il fr. brusque ’brusco, aspro’, ingl. brisk’ vivace, frizzante’) per il quale i linguisti azzardano un etimo piuttosto complicato, non è altro che una variante di queste forme con fricativa sorda iniziale come l’ingl. frisk e fresh di cui sopra. Per me anche l’it. birich-ino, bricc-one, bricc-on-cello richiamano il precedente abruzz. frëchinë ‘marmocchio’. In questi casi la linguistica tradizionale mostra, a mio avviso, tutta la sua inadeguatezza nell’individuazione degli etimi.

[3] Cfr. Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, vol.II, Milano 1982.

[4] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998.

[5] Cfr. sito web: http://archive.li/HcBeR

[6]Cfr. D.Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq 2004.  Il Bielli usa la lettera /ç/ per indicare una pronuncia simile a quella dell’it. sce, sci ma più tenue, come nel termine fantaçìë ‘capriccio, bizzarria’ < it. fantasia

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