L’11 agosto 1938, Mussolini dichiarò di essere giunto nella Marsica per sua iniziativa al fine di controllare: «quello che si è fatto e quello che resta da fare ed afferma che il popolo di Avezzano può credergli quando egli dice che ciò che resta da fare sarà fatto». In effetti, a ventitré anni dal terremoto la città doveva ancora essere ricostruita per intero. Tuttavia, il duce, rendendosi conto dei notevoli disagi quotidiani, promise che avrebbe velocizzato e snellito le procedure per la ricostruzione dell’intero abitato (1). Alla luce di queste affermazioni, lo storico Colapietra coglie a ben ragione, la solita prosopopea propagandistica lanciata da Mussolini e la sua «liturgia pedagogica fascista», eseguita alla presenza delle maggiori autorità zonali e del vescovo dei Marsi (2).
Di là dei singoli episodi locali, proprio in questo periodo di crisi nazionale, l’intensificazione della politica del regime dette il via a un nutrito calendario di manifestazioni: la partenza di milleottocento famiglie rurali per la Libia; l’adunata di novantamila combattenti a Roma in ricorrenza del XX annuale della vittoria; nuove linee ferroviarie elettrificate appena realizzate; organizzazione della settimana navale, una mostra delle bonifiche effettuate e la terza assemblea quinquennale del regime con l’inaugurazione della «camera dei Fasci e delle Corporazioni» (3).
Non mancarono altri elementi inquietanti nei discorsi del duce, che dimostrò le continue avversioni per il razzismo di «stampo biologico» con relative appendici della superiorità della razza italiana: «La nostra razza era grande quando gli altri non erano ancora nati e che per tre volte aveva dato la sua civiltà al mondo, attonito e imbarbarito» (4).
Di conseguenza, il Consiglio dei Ministri, riunito al Viminale sotto la sua presidenza, stabilì alcuni punti essenziali sugli ebrei stranieri, che dovevano lasciare il territorio italiano entro sei mesi. L’articolo terzo, recitava: «Le concessioni di cittadinanza italiana comunque fatte a stranieri ebrei posteriormente al 1° gennaio 1919 s’intendono ad ogni effetto revocate». Su proposta di Mussolini si approvò un decreto legge con il quale venne istituito «il Governo dello Scioa, esteso alla Libia e all’Africa orientale italiana. Né insegnanti né scolari di razza giudaica nelle scuole pubbliche e private di qualsiasi grado».
Oltretutto, fu deciso che il celibato avrebbe ostacolato la carriera nella pubblica amministrazione mentre, una limitazione sull’impiego delle donne negli uffici venne approvata (5). Altri severi provvedimenti sarebbero entrati in vigore dal 16 ottobre 1938, escludendo gli ebrei anche dalle accademie, dagli istituti e associazioni di scienze, lettere e arti (seconda riunione al Viminale).
Conseguentemente, l’eco europeo di simili decisioni, provocò subito le proteste del governo inglese che stava per immettere nei ruoli dell’associazione medica britannica altri cinquecento medici ebrei, senza tener conto dei numerosi studenti di medicina.
La Germania, invece, approvò le decisioni italiane affermando che: «L’Italia getta le basi fondamentali per salvaguardare la purezza della razza».
Il giornale francese, Petit Parisien, così commentò il provvedimento: «Il razzismo italiano sarà più totale di quello tedesco?»; e, mentre si proponeva la Corsica come rifugio per gli ebrei: «Un certo ebreo Steneir, propone che la Corsica diventi uno Stato rifugio per gli ebrei». Quest’ultimo articolo riportato dallo stesso giornale parigino, riempì d’indignazione milioni di francesi (6).
Nella ricorrenza del ventesimo anno della vittoria e della rivoluzione: «l’Italia saluta nel Duce Fondatore dell’Impero il genio eroico della razza protesa verso il compimento dei suoi trionfali destini», queste furono gli auguri rivolti a Mussolini, che non mancò di celebrare anche il sedicesimo annuale della marcia su Roma a Piazza Venezia, gremita da una folla straripante (7).
Di fronte ad atteggiamenti sempre più duri ed estremisti, nell’autunno dello stesso anno il professor Amiconi e il giovanissimo studente universitario Giulio Spallone di Lecce nei Marsi, ben inseriti negli ambienti romani del comunista Amendola, cercarono di far espatriare l’antifascista avezzanese Ernesto Zanni, che era stato dal 1924 al 1926 tra i dirigenti della «Federazione Giovanile Comunista Italiana», svolgendo un’efficace attività di educatore tra i giovani antifascisti. Ciò gli causò l’arresto e l’incarcerazione a «Regina Coeli» e poi una condanna a dieci anni di reclusione inflitta dal Tribunale Speciale. Ne scontò sette nei penitenziari di Oneglia e di Firenze fino a quando, nella ricorrenza nel “decennale dell’era fascista”, usufruì di una parziale amnistia. Tornato ad Avezzano, riprese i contatti con l’ambiente antifascista e la sua opera clandestina di educazione e di formazione dei giovani continuò. Nel 1939, purtroppo, fu di nuovo arrestato e inviato sull’isola di Ventotene, dove rimase come confinato politico fino alla caduta del regime fascista.
Dopo l’otto settembre, finalmente liberato, lo ritroveremo come capo e organizzatore della resistenza marsicana (8).
In questi momenti di particolare recessione, non mancò l’attenzione del duce rivolta all’opinione pubblica, dopo l’adunanza del «Comitato Permanente del Grano». Infatti, un’importante riunione si era svolta alla presenza del ministro dell’agricoltura Rossoni, del ministro segretario del partito Starace e del ministro delle corporazioni fasciste Lantini, per annunciare alla stampa che il raccolto del grano era stato di ben 80.818, 270 quintali «Nonostante l’avversa stagione la produzione ha superato di centottanta mila quintali quella dell’anno precedente» e, quindi, il regime di panificazione non avrebbe subito variazioni «perché è prudente farsi delle scorte per qualsiasi evenienza».
Ben diversa la funzione propagandistica tedesca in questo momento, annunciata da Göering al congresso di Norimberga nel mese di settembre 1938, quando con un fiero e minaccioso discorso affermò: «Nessuna minaccia potrà spaventarci. L’Asse Roma-Berlino incrollabile baluardo contro il bolscevismo. La Germania è forte per la pace e per la guerra» (9).
NOTE
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