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NECROLOGI MARSICA

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AuloVirgio Marso, comandante del corpo dei pretoriani a guardia dell’imperatore Augusto; Cesidio Spera Mĕštazzĕ, Cesidio Gallotti Rocchiĕ, Cesidio Gallotti Cadorna, Cesidio Valletta Bacchetta, ( a Lecce si ha una particolare devozione al santo protettore di Trasacco; il giorno trentuno di agosto, festa del patrono, Trasacco si ‘riempie’ di Leccesi, come la prima domenica di maggio Pratola Peligna si affolla di Gioiesi che si recano alla Madonna della Libera ); Giuseppe Valletta Dalfinĕ, Cesare Macera Cĕfèrrĕ, Luigi Macera Nanà, Luciano Macera Zĕconĕ, Pietro Macera Darèziĕ, Antonio Terra Quatréllĕ, Cesidio Ciolli Còntĕ, tutti della Marsica Est, al Corno del Fucino.

A giudicare dall’onomastica, si direbbe che le persone nominate siano vissute al tempo dell’antica Roma, poiché al nomen del casato (gens) segue il cognomen, soprannome.

Sono gli anni quaranta del secolo scorso, invece; l’epoca in cui Tarote, casale di Lecce, così definito fino al terremoto del 13 gennaio 1915, conta sedici cognomi, quarantotto famiglie, duecentotrentacinque abitanti, di cui sessantadue tra bambini e adolescenti: trentacinque maschi e ventisette femmine ( per le considerazioni del lettore aggiungo che al momento della stesura di questo articolo due sole case sono abitate; in ognuna trovi una coppia, Filemone e Bauci; tutta la casa sono loro due; loro comandano e loro stanno agli ordini, come nella favola di Ovidio, “ tota domus duo sunt, idem parentque iubentque” ). ( Ov., Met., VIII, 636. )

Quasi tutti i capifamiglia hanno un soprannome; qualcuno ne ha perfino due come, ad esempio, Pĕrrusĕ-Mĕštazzĕ, Bĕrronĕ-Cĕccottĕ; hanno il soprannome anche diverse donne: Almanacca ,‘Ndĕrlizza,Cazzarèlla, Bĕllĕzzélla, Cĕfĕlona…

Non di rado il proprio nome è stato messo nel limbo dallo stesso interessato per cui accade che se, per esempio, chiami “ Giuseppe!”, Cĕcchinĕ o Dalfinĕ non ti risponde.

Cĕcchinĕ, Dalfinĕ, Quatréllĕ…, l’elenco sarebbe lungo, sono ( sopran)nomi che, come sostenuto per altri termini negli articoli dalla stessa firma pubblicati su questa testata, affondano le radici in un remoto passato; nomi che per chi fu il primo a pronunciarli, indicavano la reale dimensione dei fatti e delle figure; come coincidono con l’essere i (sopran)nomi che andremo a prendere in considerazione, ricacciati dal substrato linguistico del mio paese che mura ciclopiche, spettacolo a vedersi (campanilismo per le mie radici), fanno risalire al V-IV secolo a.C.

Fermiamo dunque l’attenzione su alcuni (sopran)nomi, certi che l’argomento susciterà molta curiosità e interesse ( e qualche pettegolezzo…) non solo fra i miei concittadini. Prima però debbo accennare al fatto che Tarotĕ è diviso nei quartieri di lĕ (‘il’) Pĕrtĕnaccĕ, a nord ovest verso il Fucino e di la Vĕcènnĕ, ,versione attuale del nome Vecus Anninus, vico che diede i natali al nostro Aulo, a sud est, in direzione di Gioia Vecchio, poiché più di un soprannome accenna in qualche modo a queste due ‘contrade’.

A lĕ Pĕrtĕnacce, nome che suggerisce un grande malandato portone in una breccia, ma che invece fa riferimento al lago: accadico būrtum “specchio d’acqua, fonte, pozzo” e accadico agû “acqua”, la casa di Cesidio Spera, lĕ Pĕrrusĕ, la prima a lĕ ‘Pĕrtĕnaccĕ’ guardato dal lago, è costruita allo sprofondo di un dirupo, nascosta alla vista, al disotto del livello stradale. Dividere, separare, è il significato di accadico parāsu ; purussu, sostantivo; niente porri quindi, se il termine avesse suggerito le escrescenze, per Pĕrrusĕ o Mĕštazzĕ che porri non ha, ma “separato”, “appartato” e niente mostacci perché, nel tempo in cui vanno ancora di moda i baffi all’umberta, non si possono chiamare mostacci quelle due striscioline che da sotto il naso vanno a fermarsi a mezzo labbro. Atteso che (zi aramaico, lingua semitica), qui con raddoppiamento dell’affricata dentale sorda, corrisponde al pronome dimostrativo anaforico accadico ša ‘quello’, e che in accadico mūšu significa notte, che tutto nasconde, ecco svelato il significato del soprannome Mĕštazzĕ: “quello della notte”.

Il perché è presto detto: non possiede molte terre, Mĕštazzĕ; ha un’asina però, come la maggior parte dei Leccesi, che gli consente di tirare a campare, di andare a vendere le mattarellĕ ( piccoli fasci di frasche secche ) a San Benedetto o a Pescina. Si svegliano molto presto i Leccesi, quando hanno da vendere una soma di caššéllĕ (rami secchi ) o un carretto di legna a cui mette le mani, per riparare qualche rottura, Antonio Bernabale Facocchio, modesto falegname che (iperbole) fa cocchi ; Mĕštazzĕ però li precede tutti. Quando gli altri arrivano alle porte di Pescina o di San Benedetto lui ha già venduto la sua soma ed è sulla via del ritorno; farà un altro viaggio alla selva, a fare un’altra soma di frasche e caššéllĕ; le affastellerà fino a sera; si alzerà dal letto l’indomani, alle tre, quattro di notte a seconda della stagione, chiù préštĕ l’aštatĕ, chiù tardĕ lĕ ‘mmérnĕ, per andare di nuovo a San Benedetto, a Pescina. Mĕštazzĕ, “quello della notte dunque”, come un μύστης”, un “ iniziato”, ai misteri, ai culti religiosi che si svolgevano nell’antichità in gran segreto di notte, le παννυχίδες , come un fervente fedele dei nostri giorni che non si perde una veglia natalizia né la grande veglia del sabato santo che termina(va) all’alba.

Accanto a Mĕštazzĕ, ma a livello della strada, abita Cĕccottĕ-Bĕrronĕ, che ha un fratello maggiore, Bĕgnasĕ. In una piccola comunità contadina come quella di Tarotĕ, in tutto il paese, nell’ attesa di un figlio, ci si augura che nasca un maschio, come nelle case reali. Grande contentezza prova tutto il parentado per il secondo figlio maschio che ‘ riempie la casa’. Il nuovo arrivato è visto come “ nĕ pĕllitrĕ” , un “puledro”, accadico pūru che presto, crescendo, diventerà Bĕrronĕ. Affettuosamente viene chiamato pĕllitrĕ, anche l’ultimo arrivato in una famiglia dove ci siano già altri maschi; eccolo allora Birra, il quarto figlio maschio, il buru, lĕ pĕllitrĕ di casa, latino buricus “cavallino”; spagnolo burro “asinello”. Pĕrrittĕ, anche lui, nĕ piqquĕlĕ “pĕllitrĕ”.

Se condividiamo la lucida intuizione dell’umanista Francisco Sanchez el Brocense, per il quale uno dei motivi sul differenziarsi delle lingue consiste nel fatto che ogni cosa può essere considerata sotto differenti aspetti (Minerva seu de causis linguae latinae), possiamo tener presente che Cĕccottĕ, nato per secondo, è venuto alla luce a confine con il primogenito, nel caso nostro con Bĕgnasĕ, accadico bīnu “figlio” e accadico aşû “ venir fuori”, uscito prima; come eos, l’ aurora. Cĕccottĕ dunque: “ quello a confine”, accanto, nato appena dopo; accadico ša, pronome dimostrativo “quello” ( cĕ<ša), accadico eku “confine, limite”, accadico attu, suffisso che indica pertinenza, appartenenza. Stessa etimologia per Cĕcchinĕ ( Giuseppe Ettorre, che nessuno forse ha mai chiamato col suo nome di battesimo), primo figlio maschio, a confine, con la primogenita (Filomena). A questo punto, parlando di Cĕcchinĕ, il lettore si chiederà il perché si chiamano cecchini, quei tiratori che in una guerriglia si appostano sui tetti e agli angoli delle strade per far fuoco da una distanza ravvicinata. Avvenne durante la prima guerra mondiale che tiratori scelti dell’esercito austro-ungarico, composto da soldati di varie nazionalità, si avvicinassero, a tiro di fucile, alle trincee del nostro esercito; erano i ben noti cecchini.

Imperatore del vasto impero di Austria Ungheria che comprendeva, fra le tante altre regioni, la Boemia e la Moravia, l’odierna Repubblica Ceca, era l’anziano Francesco (Franz) Giuseppe, Cecco Peppe per le nostre truppe, il cui scettro alla sua morte avvenuta il 22 novembre 1916, in piena guerra, passò nelle mani del figlio Carlo I. La Cechia è terra slava, a confine con il mondo germanico; da accadico ša (ša <ce ) pronome dimostrativo quella, e accadico eku confine, limite. E’ molto probabile, sì, che i soldati di Cecco Peppe fossero tiratori di corpi scelti della Moravia e della Boemia, cioè della Cechia; per questo cecchini.

Particolare soddisfazione mi ha procurato lo scoprire il significato di Rocchiĕ. Veniva chiamato anche Rĕcchionĕ, Cesidio Gallotti, infaticabile aratore. Recchione, il cognome del professore di francese al ginnasio; Recchione il cognome di un caro collega. Non starò qui a ripetere che one è accadico enu, inu “signore, uomo”. Ho ben presente l’aspetto di zĕ Rocchiĕ ( uno scappellotto non te l’avrebbe tolto nessuno se rivolgendoti direttamente ad una persona anziana e chiamandola per

nome non l’avessi fatto precedere, per rispetto, da zio, anche se zio non ti fosse stato).

Viso dalla carnagione chiara, ciglia sopracciglia e capelli tendenti all’albino; questo è zĕ Rocchiĕ, Rĕcchionĕ; questa è Rĕcchina, accadico ruqu giallo, pallido; antico indiano rocȃ- ( lucente), miceneo re-u-ko, re-u-ka ( chiaro, lucente) antico accadico ’RQ ( Giovanni Semerano, L’infinito, p.241).

Se dalla strada sulla quale si affaccia la porta di casa di Bĕgnasĕ e di Cĕccottĕ alzi lo sguardo verso la cima della collina, là dove al solstizio d’estate sorge il sole, là a Wawwzĕ abbrĕšatĕ ( egizio iahw, “splendore del sole”, base del nome Jahweh, abu “padre, išati “ del fuoco” ( Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea, p.142 ), l’attenzione è attratta dall’ultima casa e dalla costa macchiata di bossi, ginepri, cespugli di acero, spuntoni di roccia. E’ la casa di Giuseppe Macera, Sabbĕttillĕ: quello della casa in alto; accadico ša (quello), accadico bētu (casa) –ellû (alto).

Cĕfèrre è figlio di Sabbĕttillĕ. Negli anni, di cui stiamo parlando, Lecce conta ancora molte greggi; aggiungi quelle del Foggiano e della Campagna Romana, arrivate su carri bestiame alla stazione di Pescina e affidate all’esperienza dei massari di Lecce, e sai che il destino dei figli maschi nati qui è già segnato: le pecore.

A Cesare non piace il mestiere; nulla può fare da bĕscìne; non può pensare minimamente di ribellarsi se non vuole ricevere qualche bastonata, anche perché il fratello maggiore è massaro energico, che fa filar dritto tutti; da warzĕwacchiĕ [1] però, Cesare incomincia già a šcaštafĕgnà ( a ricalcitrare) e arriva il momento in cui non teme di ribellarsi apertamente, di fumare qualche sigaretta; di reclamare di fare ‘fešta quand’ é fešta’, finché decide di uscire di casa per rendersi indipendente. Ora non deve rendere conto più a nessuno. Quando è in quattrini gli piace fare a carte, a morra, alla passatella: gli unici svaghi che passa il paese. E’ a questo punto della sua gioventù che, ricacciato il termine dal sostrato accadico latente nel dialetto di questo antichissimo paese[2] , incominciano a chiamarlo Cĕfèrrĕ, da accadico kāpu vetta, cima, roccia, κεφaλή, “ testa considerata come la parte che governa il resto del corpo”, chef ( Ernout-Meillet ), e accadico āru giovane, accadico erri capo della città, latino erus signore; incominciano a chiamarlo “giovin signore”, insomma.

Cĕferre e Quatrélle, quello come il fumo, abbronzato per natura, si sfidano spesso a briscola, a scopa, a tressette. Quatrĕllĕ accadico: qutru fumo, allû pronome accadico, latino ille, ebraico ēlle.

Giuseppe Valletta Dalfinĕ è tutto casa e lavoro; è il primo figlio maschio e, fin da piccolo, ha dovuto trottare per aiutare il padre ad allevare gli altri quattro figli. Avrebbe ereditato il regno di Francia se, alla nascita, ad uscire dalla porta, significato originario di δελφύς , accadico daltu, della Lèša, avesse aperto quella della regina; inĕ, accadico enu, inu signore. Per inciso: da Delfino, soprannome del primogenito di Francia, prende denominazione il Delfinato, storica regione della Francia, patrimonio personale dell’erede al trono.

Ora invito il lettore, se non si è annoiato, a cliccare in Google “ Sulla impresa di disseccare il lago Fucino” e dare una guardata alla foto scattata nel 1900 dall’alto delle case di Trivegna, poco prima di Gioia Vecchio. Viene ritratto il Fucino prosciugato appena un ventennio prima, nel 1877. Verso il Corno si dirige un serpentone, è il Leviathan, “l’agile serpente”, Latavana, il “serpente tortuoso” ( Isaia,27,1) Diversi soprannomi lo riguardano: Pĕllangonĕ, Pĕntìnĕ, Arrancatĕ, Štĕfatĕ, Artĕjjérĕ, Jĕravina,Bĕttafochĕ, Cadorna, Cĕnquanta, Canganéllĕ, Pĕllaštrella,

Prenderemo qui in esame solo gli ultimi quattro.

Prima che il terremoto della Marsica la radesse al suolo, Lecce non era là dove, per l’emergenza, furono costruite le barracche, allo sbocco del vallone di Maquĕrana ( nella foto, dove inizia il Corno del Fucino); accadico makāru, inondare, arabo maqrā luogo dove si raccoglie l’acqua , ‘ain fiume; otto dei nove casali sono al sole sulle coste dei rilievi alla sinistra della foto; Tarotĕ alla destra, sul tondeggiante rilievo ai cui piedi scorre Latavana; collocazione che dà il nome al casale: accadico tarû, giro, edû, acqua nel suo aspetto di onda ( e che onda!, quando accoglie piena.) È qui, allo sbocco del vallone a pochi passi alla costa, che Cadorna e Cĕnquanta, fratelli, hanno la casa. Cadorna da accadico qadu vicino, accanto e piegato, avvallato, cavità, latino cadus (recipiente) e nāru fiume; lungo fiume, ad flumina, qadu narē, cfr. von Soden, 892 ( Semerano, Le Origini, p.562). Abbiamo letto poc’anzi che tarû vuol dire giro; tutto ciò che è circolare comporta un restringimento; eccoci allora ad unqu, enqu, anello, curvatura e a Cĕnquanta, che abita alla curva di Tarotĕ in alto; anta identico a sumero anta uomo, letteralmente elevato.

Più in alto di Cadorna e di Cĕnquanta si sono insediati i Buccella, noti come quijĕ dĕ ( quelli di ) Canganéllĕ, e accanto a loro quijĕ dĕlla Pĕllaštrèlla.

Canganéllĕ, in alto alla conca ( l’avvallamento allagato ); accadico kangu, (incisione) , κόγχη conchiglia, cavità , accadico ellû alto.

Confinanti (non so dire se hanno qualche muro in comune, ma credo di sì) sono “quelli della Pĕllaštrèlla”. Certo è che una pollastra non ha nulla a che vedere.

In Macedonia, a ovest della Penisola Calcidica, i fiumi Aliacmo e Ludia, in prossimità dello sbocco al mare, formavano alla confluenza un laghetto sulla cui riva sorse l’antica e celebre città di Pella, da accadico pelšu ( palude, invasione d’acqua). Quelli della Pĕllaštrèlla allora: quelli che abitano in alto al dilagare, all’ erompere dell’acqua; accadico pālašu ( dilagare, straripare dell’acqua ) ellû, (alto).

Riporto qui un termine, che trovo scritto nel catasto del 1753, e che riassume in una sola parola tutto quello che abbiamo appena detto. Ecco il testo: “ Matteo di Paolo Borza pecoraro di anni quarantuno con moglie Diodora di anni trentatre e una figlia di quattro anni, Loreta, (che nomi, nel settecento! Diodora: regalo di Dio:δϖρον ‘dono’) “ possiede un Territorio nel luogo detto Pĕrillĕ, seù (cioè) sotto Taroti di coppa una, giusta li beni di Giovanni di Sebastiano Valletta, di Antonio Borza, stimata la rendita per annui di grana quindici”. Nessun piccolo pero può dare i frutti là dove Latavana è l’iradiddio, sotto Taroti, alla bocca dell’inondazione del fiume, a Pĕrillĕ, accadico imboccatura harru fiume illu inondazione.

Mancano all’appello: Bacchétta, Nanà, Zĕconĕ, Darèzĕ, Còntĕ, ‘Ndĕrlizza, Almanacca.

È tempo di accelerare il passo; abbiamo indugiato come bradipi ma ora veloci e diamo la precedenza alle donne. Almanacca: in Isaia (7,14) “ […] Ecco, l ‘almah concepirà, partorirà un figliolo, e gli porrà il nome Emmanuele”; in Matteo ( 1,23) “ Ecce, virgo in utero habebit et pariet filium: et vocabunt nomen ejus Emmanuel” Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figliuolo, al quale sarà posto nome Emmanuele. ( La Sacra Bibbia, Ediz.1984 Società Biblica di Ginevra – Svizzera ) Almah, tradotta in greco παρθένος, vergine, donzella, giovane donna non maritata, figliola ( Rocci ). virgo intacta”. In una comunità agricola dove, come si è visto sopra, la nascita di un figlio, soprattutto se maschio è una benedizione, viene guardata con pena e disprezzo, dalle altro donne, quella, sposata che non ha figli.

La Parthenos , ‘virgo intacta’ ( la Repubblica, 19/XII/06, p.53 ), pretesa da ogni spusĕ , così come l’ha fatta la mamma, l’almah maritata, ma che non ha figli, è termine spregiativo.

Potrebbe non esserci tale sviamento di significato in un termine così ricco di implicazioni, quando nel paese, specie di notte, si aggirano le štréjjĕ (streghe)? La più nota è ‘Ndĕrlizza. Tutti l’additano quešta donna minuta, sghĕbbata, ( con la gobba), scĕrrata (spettinata), sdentata, che ha perso il marito troppo presto, poveretta. A notte alta prende l’aspetto di vento (?!); entra dal buco della serratura o da qualche fessura nella porta e va a succhiare il sangue ai più piccoli… ‘Ndĕrlizza quella della notte accadico andullu tenebre sumero andul ombra za pronome dimostrativo anaforico. Una notte ’Ndĕrlizza s’infilò in casa di lĕ Còntĕ (nonno materno dell’autore dell’articolo; episodio raccontato da una delle figlie ) per succhiare il sangue ai più piccoli; lui se ne accorse però e l’acciuffò peri capelli, la štréjja, per dargliele di santa ragione, ma quella…puff!, gli sfuggì di mano e così come era venuta, come il vento riuscì da dove era entrata… (chi scrive l’ha vista, ‘Ndĕrlizza, di giorno; ma mia la sorella…allĕ štrejjĕ ci crede ancora!? “ Però- dice – non se ne sente più parlare”).

Le Contĕ non è di origine leccese. Dopo il prosciugamento del lago, verso la fine del secolo, suo nonno Nunzio, per assicurare ai suoi figli più cibo che le fertili nuove terre avrebbero fornito, si trasferì da Pescasseroli, come fecero altri dalla Valle Subequana, da Alfedena, da Pescocostanzo, da Scanno, questi ultimi diventati in seguito bravi sindaci.

Pasquale figlio di Nunzio, immigrato, nullatenente quindi, dissodò qualche pietraia in collina; fra i tre nipoti di Nunzio: Nunzio, Nicola e Cesidio, quest’ultimo, alto e robusto, è riuscito a comprarsi qualche coppa di terra in quel di Ortucchio. Ormai i Ciolli sono alla seconda generazione, ben inseriti a Lecce, sempre ospitale con tutti; e a Cesidio glielo dicono apertamente che è Còntĕ, cioè legittimo, legalizzato: accadico kēnu, *kentu, kettu giustizia, verità. Altrove, il termine è cognome, Cantù.

Zĕcone, quello stabilito, quello fermo il più ‘ricco’ di Vallemora. Sono tempi in cui si conosce la differenza tra il ricco e il povero; sei ricco se possiedi oltre alla casa e alla štalla, animali e terreni ( il barbiere, il sartore, il ‘ferraro’ lo paghi a grano…, dopo la raccòta) da accadico kânu essere saldo, costante, il solito pronome dimostrativo (zĕ<ša).Tanto Zĕconĕ è il più ricco di Vallemora, tanto Pétrĕ Darèziĕ è lĕ chù fortĕ tajjatorĕ. Quando gli altri hanno finito di tagliare una canna di legna ( una canna di legna è una composta lunga quattro metri, alta un metro, fatta di pezzi di legna lunghi un metro) lui smette sempre dopo, sembra che non avverta la gran fatica. Darèziĕ, quello che dura, accad.darû durare, costante, dāru eternità, zĕ, determinativo anaforico, quello.

Bacchétta soffre di flatulenza; a ogni passo gli scappano rumorosi peti al povero zì Cĕsìle, di Vallemora anche lui. I compaesani ci ridono sopra e rifacendosi ai briganti, che meno di cento anni fa imperversavano su queste montagne con i fucili e le pistole ad avancarica, lo esortano: “ Carica, Bacché!”; lui non si fa pregare, e tosto risponde nella sua lingua; contenti tutti. Vedi però, compiacente lettore, con quale finezza di linguaggio i compaesani si rivolgono a zi’ Cĕsilĕ; non lo chiamano mai quĕriarĕ né, parlando di lui, dicono che “è quello che scorreggia”; lo chiamano per quel che è : Bacchétta, che vuol dire quello che si lamenta…: ettu pronome accadico, relativo, appartenente e accadico bakû, fare lamentazioni, piangere. Bakû, lamenti, pianti; quel che sembrano le preghiere di Bacchĕttona, in chiesa, alle processioni, ai santuari, ai funerali.

Nanà. Non ha bisogno di presentazione Leonardo Sciascia; al suo paese Racalmuto, lo chiamano Nanà ( Il Sole domenica, 13 nov. 2011). Rosina Mawusi, collaboratrice domestica presso una famiglia di Schio, è regina di Besoro, cittadina del Ghana, 200 km da Accra, ed è chiamata “ sovrana” Nanà Konadua’ ( la Repubblica del 19 febbraio 2006, Metropoli, p.13), come la dea guerriera dei Sumeri Inana, anche Nana. In sumero an signore. na uomo. Ha carattere Luigi; pastore fra gli altri pastori si atteggia a massaro ( accadico massû ( duce, guida, ‘leader’ Anführer ‘capo’, mensû ); per questo i suoi colleghi pĕquĕrarĕ lo chiamano Nanà signore, forse con una punta di ironia. I pastori, illetterati, ma eredi e custodi di parole che affondano le radici là dove è stata inventata la scrittura, farmaco della memoria e della sapienza, μνήμης τε γαρ ϰαί σοφίας φάρμαϰον ( Platone, Fedro,274e), custodi di nomi che, come abbiamo appena visto, coincidono con l’essere stesso; provenienti da quel Vicino Oriente, culla della civiltà. Qui mise piede, lasciati gli altipiani del Corno d’Africa, quella scimmia classificata come homo sapiens il quale autoclassificatosi in seguito sapiens sapiens, ha dimenticato le sue origini…, e rinnega sé stesso.

1 Google ” Rocca genovese nella Marsica”

2 Google “Perché Lecce nei Marsi e non dei Marsi”.

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Berardo Ettorre

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