I confini della Marsica arrivano fino al Monte Marsicano
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Soldati spagnoli e commissario
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Magliano de' Marsi si prepara a celebrare il bicentenario della nascita di Padre Panfilo Pietrobattista, insigne teologo e missionario
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Gennaio, è tempo di provviste per l’inverno con il tradizionale sacrificio del maiale

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NECROLOGI MARSICA

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Foto Luca Magri

Con l’arrivo dei primi freddi invernali è tempo di pensare alla tradizionale uccisione del maiale, il sovrano incontrastato nel periodo compreso tra le festività natalizie e il 17 gennaio, giorno della festività di S. Antonio Abate, il protettore degli animali.

Nella fase di luna calante di un giorno di gennaio si rinnovava, un tempo lontano, l’antico rito dell’uccisione del maiale tra paganesimo e tradizione contadina.

Un antico folklore, un vero e proprio rituale collettivo, un momento conviviale e di festa a cui un tempo partecipavano parenti ed amici dando vita a una manifestazione corale fatta di canti e balli.

Nella cultura e nell’economia contadina il maiale è da sempre stato simbolo dell’abbondanza perché garantiva un’importante riserva per tutto l’anno: salami, salsicce, prosciutto, pancetta, e così via.

E ancora oggi, in particolare nel Sud Italia, persiste il rito che affonda le sue radici in una storia molto lontana quando le proteine animali rappresentavano un lusso e l’uccisione del maiale era, a tutti gli effetti, un giorno di festa.

La mattazione ora si fa nel mattatoio comunale ma un tempo la macellazione avveniva in casa o nelle stalle alla presenza di grandi e piccoli e all’inizio del nuovo anno quando il clima freddo e rigido consentiva la migliore conservazione della carne.

Per strada, nei pressi della stalla, si predisponeva un cataletto per deporvi la bestia da scannare. La padrona del maiale invitava la bestia ad uscire dalla stalla (ze cicco’, ze cicco’) e a seguirla verso il cataletto agitando, avanti al muso dell’animale, un piccolo recipiente pieno di granturco.

La bestia, ingorda, la seguiva.

Giunto il maiale al posto prescelto, il macellaio (i scannapercelle, scannapurcelle) lo agganciava infilandogli alla gola, sotto ai guanciali (la varevijja, varevazze, pappagorgia), l’uncino (g’ancine) infisso all’apice di un lungo bastone e poi, tirando a sé il bastone, costringeva la bestia a seguirlo. In quel momento degli uomini robusti, aiutanti del macellaio, afferravano il maiale per le zampe e lo coricavano sulla tavola. Il macellaio con un lungo coltello (i scannature, scannatore) tagliava alla bestia la carotide e proseguiva a squarciare fino a raggiungere il cuore, e ciò mentre la padrona teneva sotto la gola del maiale il caldaio e mescolava con un grosso cucchiaio di legno il sangue sgorgato dalla ampia lesione, perché non si aggrumasse.

Sopraggiunta la morte, l’animale veniva bagnato con acqua bollente per ammorbidirne la pelle e facilitare l’operazione di rimozione della peluria dal corpo.

Una scena apocalittica.

La bestia, già fin da quando era presa all’uncino, grugniva e gridava con tutto il fiato che aveva, sempre meno fino a quando spirava.

In certi giorni di freddo più intenso andando in giro per il paese si vedeva in ogni quartiere ripetersi la scena descritta e si udiva l’urlo dei maiali provenire da una strada o dall’altra.

La bestia veniva portata al magazzino dove, infissa ai tendini delle zampe posteriori divaricate la traversina di legno (i cammale, gambale) il maiale veniva issato a testa in giù ad un gancio appeso alla volta.

Era arrivato il tempo di ”battezzare” il maiale.

Ognuno dei presenti stimava ad occhio il peso della bestia, una sorta di sfida. Veniva poi pesato con il bilancione e si brindava con un buon bicchiere di vino congratulandosi con chi si era avvicinato di più al peso effettivo.

L’operazione era conclusa quando i scannaperceIle aveva aperto verticalmente l’animale dalla coda alla gola, e ne aveva estratto le interiora (/a corata) da consumare per prima, come il sangue che, raccolto nel caldaio e bollito assieme a bucce d’arancio, pinoli e uva passa, e poi lasciato freddare e aggrumare, costituiva un pasto poco ambito durante i giorni successivi (i sanguinacce). Il macellaio tornava nel magazzino dopo due o tre giorni. Disegnati sulla cotenna con un carboncino o con un gesso le varie pezzature, egli provvedeva a ritagliare prosciutti, lardi, spalle, ventresca, guanciali, ecc., che venivano pigiati in uno o più mastelli, cosparsi di sale in abbondanza.

Da quel momento la famiglia aveva un gran da fare per confezionare salsicce e salami, per squagliare in tegami sul fuoco lo strutto e inserirlo liquido nella vescica del maiale (la bbotta). Tutte le pezzature, le salsicce, i salami e la botta venivano appesi in cucina, dove il fumo del camino conferiva loro quel gusto particolare e quell’odore specialissimo che oggi, purtroppo, non si trova più nei prodotti che si acquistano nei supermercati.

Il maiale, fin dai tempi della preistoria, ha avuto sempre un significato simbolico molto particolare. Rappresentava la fertilità, la forza e la ricchezza e l’antico rito della sua uccisione era un momento di festa e di condivisione tra familiari ed amici celebrato attraverso la gioia del cibo. La vista di tanta abbondanza rallegrava lo spirito di tutti.

Nel corso dei secoli è divenuto soggetto frequente nelle arti, nella satira e nella letteratura ma anche negli oggetti della vita quotidiana come ad esempio il “maialino del risparmio” che, finanziato attraverso modesti e piccoli importi, al momento di “essere macellato” può dare un risultato considerevole rappresentando così anche oggi lo stesso significato di un tempo, la ricchezza.

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Laura Gemini

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