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Feudatari, banditi aristocratici e scorridori di campagna (1592-1707)

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NECROLOGI MARSICA

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Prima di esaminare dati importanti, occorre trattare altri episodi legati alla feudalità che costituiranno poi un passaggio fondamentale nel raggiungimento di un equilibrio tra economia agraria e pastorale, con larga recrudescenza di banditismo. D’altronde, la lotta al «banditismo» durante il viceregno spagnolo e poi austriaco, portò con sé molte difficoltà. Una di queste riguardava gli Stati confinanti che, con forze molto limitate, non potevano riuscire a essere presenti in ogni angolo dei propri domini (nel nostro caso la Marsica e l’intero territorio Aquilano), soprattutto nei luoghi più lontani o inaccessibili come potevano essere le aree impervie di montagna. Tra l’altro, i banditi furono sempre avvantaggiati dal fatto che fra gli Stati, non c’era la possibilità della consegna dei criminali (quella che oggi chiamiamo estradizione), per cui un bandito che operava in una zona si rifugiava in quella confinante senza temere di essere catturato dalle forze di polizia del territorio in cui aveva commesso dei misfatti. Individuati, infine, in base al tipo di pena inflitta loro, i banditi costituivano una realtà molto composita per la tipologia dei delitti commessi: erano fuoriusciti, vale a dire cittadini espulsi in seguito a scontri tra fazioni municipali; soldati privi di occupazione, assassini, ladri, grassatori, delinquenti comuni colpiti dal bando in contumacia per crimini compiuti contro il patrimonio o la persona. Alcuni di loro, radunati in bande armate e comandati da un capo, compivano scorrerie per la campagna e svolgevano la loro attività criminosa con la tecnica dell’assalto a palazzi e lungo i percorsi della transumanza, dove transitavano mercanti e carrozze (1). 

Fonti storiche autorevoli, descrivono la forte presenza del fenomeno anche nell’area marsicana posta a ridosso della linea di demarcazione pontificia: «I banditi di una regione tenevano continui rapporti con quelli delle altre regioni contermini, affinché gli uni e gli altri potessero proteggersi vicendevolmente, favorendo sconfinamenti che avvenivano di frequente, per sfuggire alla caccia delle truppe regolari inviate contro di loro. L’Abruzzo, per la particolare natura geografica e politica, era il ricettacolo di tutti i banditi romani, marchigiani, romagnoli, nonché napoletani; i quali tutti trovavano nelle sue montagne boscose, e nelle grandi grotte naturali un rifugio ideale» (2).

Un’indagine svolta a suo tempo dallo storico Nicola Santamaria (tutt’oggi ancora molto valida) ben individua la drammatica situazione diffusa in tutto il territorio marsicano durante il viceregno spagnolo e austriaco: «Gli abusi e le estorsioni che i feudatari non contenti di quello che loro accordava una legge senza viscere pei poveri, contro di questi al di là della medesima si permettevano: una mostruosa potenza veniva mostruosamente esercitata, e nelle campagne sovra tutto, dappoiché tra le selve e sui colli sorgevano le terribili rocche dei signori che in città avrebbero trovato maggior freno nella mano regia la quale vi era più fortemente e direttamente sentita. Aggiungasi a tutto questo un governo impotente a fare il bene, e che dove non si manifestava per via di armi e di forza non era tenuto in alcun rispetto, quindi mancanza di strade, e pericoli delle poche e disastrose che esistevano, cagionati da audaci Scorridori e da baroni che spesso ne facevano alteramente le opere basse ed infami, ed avremo una idea della tristissima condizione degli agricoltori []». Questo, grossomodo, era il quadro generale che gravava sul commercio durante il periodo descritto, impedendo lo sviluppo del territorio per mancanza di strade, con continui agguati dei banditi di estrazione aristocratica (fuoriusciti collegati con Ascanio Colonna e Marco Sciarra). Oltretutto, si aggiunga: «il disonesto brigantaggio esercitato con ferocia, e non con le arti del delitto, ma alla scoperta e con l’ardire della virtù, protetto dai baroni, o dai loro dipendenti, e sicuro dalla giustizia umana perché impotente, tollerato e spesso premiato dal governo viceregnale, il quale per solito terminava le sue campagne contro i grassatori non col perdono, ma coi trattati e puniva i loro delitti incorporandoli nelle milizie, e secondo il grado di bricconeria, il numero degli omicidi, ed il terrore sparso ne faceva colonnelli, capitani e soldati. Dirò di più: fin le vittime proteggevano i briganti: poiché quell’ardire d’insorgere contro una società costituita, quel lottare contro la sbirraglia e la corte, che allora poco differivano per infamie ed oppressioni, quel prendersela francamente e audacemente contro le nobili e titolate sanguisughe che ci venivano di Spagna, senza farsene imporre dalla bassezza della condizione propria e dall’altezza dell’altrui piaceva agli immaginosi meridionali: piaceva il veder la mano lordata di sangue offrir fiori sull’altare di pace, stendersi supplichevole alle immagini di Maria, e qualche volta soccorrere il misero oppresso dal potente, la fanciulla fuggitiva dalle insidie del feudatario. Sarà un’anomalia: ma presso il volgo sono più riputati i nomi dei briganti che infestarono la terra, che quelli dei grandi che la illustrarono […]» (3).

Uno studio molto approfondito dello storico Rosario Villari, fondato su ampia documentazione d’archivio, ripete e precisa alcuni concetti del fenomeno banditismo: «L’intensità e diffusione delle manifestazioni di banditismo e fuoriuscitismo indussero gli apparati di giustizia delle singole realtà territoriali a fare ricorso ad esemplari ed efficaci misure di prevenzione e repressione per arginare un fenomeno che, endemico, permanente e variamente caratterizzato, costituiva, nella prima età moderna, l’unico movimento organizzato, che superasse l’ambito delle lotte municipali e fosse in grado di resistere al potere pubblico e addirittura, in certe zone, disgregarlo, rappresentando, come ha sostenuto Giuseppe Galasso, un ordine tutto a sé,  una forza contro forza, un potere contro potere in contrapposizione e in aperta conflittualità con lo Stato moderno, incapace, nella prima fase della sua formazione, di svolgere una efficace funzione mediatrice tra i vari ceti sociali» (4).

Con gradi diversi e sotto forme svariate Luigi Lacchè, ordinario di storia del diritto medievale e moderno, afferma: «Per combattere un fenomeno così strutturato, che trovava nella feudalità romana un potente alleato e che rappresentava un potere extra-legale assai radicato sul territorio [marsicano], si fece ricorso ad una repressione con procedure speciali, dall’uso di forze militari, dalla istituzione di commissari di campagna, presidi ad guerram, provveditori contra delinquentes o contra fuoriusciti» (5).

Tuttavia: «L’assenza di un qualsiasi piano persecutorio, che fosse in grado di combattere in maniera risolutiva la criminalità organizzata di stampo banditesco, indusse il governo vicereale, soprattutto nei momenti di crisi finanziaria, a responsabilizzare le comunità e gli abitanti, facendo ricadere su di loro la vigilanza e il controllo del territorio, non garantiti dalla repressione e prevenzione affidate a contingenti militari che, reclutati tra le milizie signorili e su base mercenaria, non erano in grado di assolvere al loro compito, sia perché sospettati, nella componente feudale, di collusione e connivenza con le bande, sia perché non animati da alcuna volontà e capacità operativa» (6). 

Vale la pena di apprendere direttamente dalle leggi dell’epoca (Prammatiche) quali erano le direttive del governo centrale che, ricollegandosi alla legislazione romana del basso impero, dettavano disposizioni in materia civile e penale. Il 26 febbraio 1563 l’autorità vicereale obbligò gli amministratori e gli ufficiali delle terre demaniali e feudali marsicane e non solo a «convocare gli uomini delle Città, Terre, e Castelle, facendo sonar la Campana in segno che ogni uno pigli l’armi, e vada a perseguitare, pigliare detti fuorusciti, delinquenti e malfattori» (7). Purtroppo l’Udienza aquilana, per i motivi citati sopra, dimostrò di solito inefficienza, testimoniando il fallimento dell’ordine pubblico, poiché la circostanza che a governarla fossero chiamati nobili di spada, costituì un successivo incentivo «all’inquinamento feudale».

Indubbiamente, nelle bande ci furono spesso tradimenti che aumentavano in vista di un premio allettante: la testa del capo o di un altro bandito importante in cambio della propria salvezza. Nella Roma di Sisto V e Clemente VIII, pontefici impegnati loro malgrado in una spietata repressione contro i banditi (soprattutto quelli di origine rurale), questa prassi s’intensificò, determinando effetti prorompenti nelle stesse bande dove i capi erano indotti, per paura di essere traditi, a diventare crudeli e violenti verso i compagni al fine di evitare spiacevoli sorprese. Alcuni personaggi del tempo (vere e proprie leggende), non furono uccisi durante gli scontri, ma perché qualcuno li tradì. Uno di loro fu Marco Sciarra, trucidato da un suo fidato luogotenente, che consegnerà la testa del capobanda alle autorità ricevendone in cambio un premio.

Anche il perdurare di queste norme repressive con oltraggio dei cadaveri, in particolare l’abitudine di squartare i malcapitati, inviandone i quarti nel paese natale o nei luoghi dove il famoso ladro aveva commesso i suoi crimini (sarà così per il paese di Gioia dei Marsi), era come una rappresentazione scenica della necessità di esibire l’onnipotenza della giustizia, per quanto apparente e transitoria potesse essere. 

Banditi aristocratici, plebei e rurali sembrano dominare la scena di questi secoli: le bande armate spesso erano mantenute e organizzati da nobili (vedi i Colonna di Paliano). 

I più celebri banditi dell’epoca furono: Alfonso Piccolomini, Marco Sciarra, Curzietto del Sambuco, Giulio Pezzola del Borghetto, Giovan Antonio Sisti, Giacomo Di Michelangelo di Aielli; Pino Nunziante, Guerruccio Troiano, Vincenzo Giordano di Tagliacozzo; Sabatino Di Domenico di Cappelle dei Marsi; Antonio Del Zoppo, un milanese residente a Magliano dei Marsi; Giacomo Antonio Nerone, Andrea De Santis, Urbano D’Urbano, Carlo Cardavia, Giovanni Di Vincenzo e Cesare Solazzo di Capistrello (facevano parte della banda di Domenico Carincola del Monte la Piana); Giulio Cesare De Santis, alias Scarpaleggia e il «capitano della Grascia d’Abruzzo» Giovanni Antonio Simboli. Tra i catturati e condannati dentro il «regio arsenale», si riscontrano i nomi di Paolo Attilio, alias Pinto di Rocca di Mezzo; Pangrazio Di Cecco di Magliano dei Marsi; Pietro Ferrante, Carlo Palomba e Pietro Colucci di Cocullo; Antonio Caciale di Barrea e Pietro Cesile di Collelongo. 

Occorre precisare che questo banditismo e in genere quello meridionale, si alimentava solitamente grazie alla povertà e alla connivenza di baroni, religiosi, ufficiali corrotti, amici e parenti, trovando nuova linfa vitale anche negli anni dell’epidemia della peste e all’impossibilità di reprimerlo da parte delle istituzioni centrali. D’Altronde un territorio, impervio come quello dell’Aquilano, era soggetto al controllo di potenti e radicati poteri locali, talvolta tollerato dalle stesse autorità della capitale, sempre alla ricerca di una sorta di compromesso, di mediazione tra interessi contrapposti, nel rispetto di un sottile quanto precario equilibrio. La politica delle taglie fu ancora seguita per tutto il Seicento e, contro singoli fuorilegge, furono diretti bandi ed editti che invitavano alla loro cattura (vivi o morti), garantendo il pagamento di allettanti premi e la «nominatione», cioè la remissione della pena di un bandito (il tribunale Sacra Consulta riporta numerosi processi).

Di fatto, i banditi non vennero annientati e la lotta al banditismo continuò negli anni a seguire, come dimostrano i successivi provvedimenti adottati dal viceré marchese del Carpio, che tra il 1683 e il 1687 cercherà invano di sterminarli. In realtà, qualcosa cambiò sia nella tipologia del fenomeno sia nel rapporto fra autorità centrali e sudditi nel governo della giustizia. Presto, scomparve la clamorosa e massiccia partecipazione diretta di nobili al banditismo ma non quella della violenza nobiliare che usava e si serviva di facinorosi «alla campagna» per commettere misfatti, compiere vendette nei confronti di altri signori nemici e prepotenze di ogni sorta nei confronti degli abitanti. Come sempre, saranno soprattutto le zone più remote e di confine come la zona dell’Aquilano (da Montereale a Balsorano), a preoccupare la giustizia romana e napoletana.

Ai «Presidi provinciali», commissari e ministri, i quali avevano la «commissione» di reprimere il banditismo, venne concessa la facoltà di procedere «con la potestà ad modum belli». Di fatto, si trattò di una conferma di una potestà che i Presidi (futuri intendenti e poi prefetti) avevano sin dal 1584 sulla base della «Prammatica» del marchese viceré del Carpio. Per la cattura dei banditi erano impegnate anche «le squadre di campagna» guidate da un commissario o un fiscale, da un capitano degli sbirri, dallo stesso Preside o da uno degli uditori aquilani (8). 

NOTE

  1. I.Fosi, Il banditismo nello Stato Pontificio nella seconda metà del Cinquecento, in G.Ortalli (a cura di), Bande armate, banditi, banditismo e repressione di giustizia negli stati europei di antico regime, Jouvence, Roma 1986, pp.67-85; I. Fosi, Banditismo, nobiltà e comunità rurali nello Stato Ecclesiastico fra Cinque e Seicento, in F.Manconi (a cura di), Banditismi mediterranei, secoli XVI-XVII, pp.23-34; G.Sabatini, Fiscalità e banditismo nelle provincie d’Abruzzo alla fine del Seicento (Istituto di Studi sulle’Economia del Mezzogiorno nell’Età Moderna), ISEMEM-CNR, p. 7.
  2. G.Morelli, Contributi a una storia del brigantaggio durante il vicereame spagnolo: Marco Sciarra (1584-1593), in «Archivio Storico per le Provincie Napoletane»,1970,Terza serie, voll.7-8 (1968-69), p.296.
  3. La Società Napolitana dei tempi viceregnali, studiata e descritta per Niccola Santamaria, Tip. Dicesinia, Napoli 1861, pp.5-87-88; cfr. F.Caracciolo, Sud, debiti e gabelle. Gravami, potere e società nel Mezzogiorno in Età Moderna, Napoli 1983. p.81-86.
  4. R.Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini, 1585/1647, Laterza, Roma-Bari 1976, p.58; cfr., G.Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno d’Italia, in «ASPN», Terza serie, XXII-CI dell’intera collezione (1983), p. 4. 
  5. L. Lacchè, «Ordo non servatus». Anomalie processuali, giustizia militare e «specialia» in antico regime, «Studi Storici», a.29, n.2 (1988), p.368.
  6. F.Gaudioso, Lotta al banditismo e responsabilità comunitaria nell’Italia moderna, in «Mediterranea. Ricerche Storiche», vol.5,  a.2, n.5, 2005, p.424-425.
  7. Prammatica I, De exulibus, in D.A.Vario, Pragmaticae, edicta decreta, interdicta regiaeque sanctiones Regni Neapolitani, Napoli 1772, vol.I, p.594.
  8. Archivio di Stato Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi del sec. XVI, vol. 116, ins.3; Tribunale criminale del Governatore, Atti vari di cancelleria, b.131, n.95 (1658); Archivio di Stato Napoli, Collaterale Curiae, vol.XXXIII (1588-1599), f.2r (stampigliatura n.21 r). Per un’ampia trattazione si veda: I.Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato Pontificio in età moderna, Cap. II, I tribunali romani in età moderna, Editori Laterza & Figli, 2007.
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Fulvio D'Amore ricercatore e saggista

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