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Santi e diavoli ai piedi di Pizzo Cefalone del Gran Sasso d’Italia

I racconti della nonna
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di Giuseppe Lalli 

I racconti dei nonni, negli anni in cui non c’era ancora la televisione, erano destinati a rimanere impressi nella nostra mente, e con essi ci pareva di attraversare il gran mare della vita muniti di una riserva di dolcezza e di saggezza a cui attingere nei momenti di tristezza, quando tutto sembrava congiurare contro di noi. Questo era vero ancora alla metà del secolo scorso nei nostri villaggi, quando la vita quotidiana non conosceva le convulsioni della società attuale e i ritmi psicologici, in qualche misura, obbedivano ancora a quelli della natura. Io che scrivo ho fatto in tempo a beneficiare di questa condizione e ho assaporato i sapori, gli odori, le suggestioni di un microcosmo, il villaggio con le sue tradizioni e i suoi racconti, che nell’immaginario dei nostri nonni era “il mondo”, la piccola patria, la comunità naturale da cui si riceveva nutrimento spirituale: piccoli tesori del passato che rassicuravano nel presente e alimentavano la fiducia nell’avvenire. In questo piccolo mondo, la religione cristiana, con le sue verità e con i suoi simboli, giocava un ruolo fondamentale. 

Lo scenario dei racconti di mia nonna era Assergi e, soprattutto, la sua affascinante campagna ai piedi di Pizzo Cefalone. Due racconti in particolare hanno accompagnato la mia infanzia.

Poco dopo la morte di San Franco, l’eremita del Gran Sasso che trascorse gli ultimi anni della sua vita nelle montagne vicino al villaggio e che fu venerato come santo  dagli abitanti del borgo già prima di morire, accadde uno tra i più toccanti miracoli che mai si siano verificati.

Un uomo di Assergi di nome Tommaso di Giacobbe uscì di casa in pieno giorno per condurre le vacche e le pecore al pascolo poco sopra il bosco di Macchia Grande. Il figlioletto, di nascosto dalla madre, prese la stessa strada dove aveva visto incamminarsi il papà, ma ad un certo punto, perso l’orientamento, si inoltrò nel fitto della vegetazione del bosco. Vagò per tutto il giorno, e alla sera, stanco e in lacrime, vinto dal sonno, si addormentò. 

A sera Tommaso, rincasando, chiese alla moglie dove stesse il bambino, e si sentì rispondere che essa era convinta che stesse con lui. Poiché non riuscivano a trovarlo, chiamarono i parenti e i vicini e, torce alla mano, andarono a cercarlo, ma inutilmente. I genitori cominciarono a temere che, avventurandosi nel bosco, il bimbo fosse stato divorato da bestie feroci. 

In preda alla disperazione, si recarono in chiesa a supplicare il santo eremita davanti al suo sepolcro chiedendogli la protezione del figlioletto. Di buon mattino, ripresero le ricerche nel bosco e… quale non fu la loro gioia quando videro il bimbo sano e salvo. Dopo averlo riabbracciato, gli chiesero come avesse trascorso la notte. Il bambino, con un tono di voce rassicurato, rispose: «Un monaco, quando era già notte e mi ero addormentato, mi ha svegliato, mi ha dato pane e formaggio ed è rimasto vicino a me per tutta la notte. Poi, quando ha fatto giorno, mi ha portato qui e mi ha detto di non avere paura perché i miei genitori stavano venendo a prendermi. Dopodiché il monaco è scomparso». 

Il racconto, che più avanti con gli anni avrei ritrovato pari pari scritto in latino medievale negli Atti di San Franco, mostrava l’irrompere del divino nella vita ordinaria. Dal racconto della nonna ricevevo una straordinaria lezione: che il soprannaturale non è lontano da noi, anche se non lo vediamo, come non vediamo l’aria che respiriamo, il grano che cresce e il sangue che scorre nelle vene; e m’immaginavo che il Cielo stesse vicino, poco sopra il bosco di Macchia Grande.

Un’altra storia, più drammatica, udivo dalle labbra della nonna, che diceva di averla a sua volta sentita raccontare da sua nonna. 

Un uomo del paese si era recato nottetempo ad irrigare un suo prato lungo la valle del fiume Raiale, il ruscello che scorre poco distante dall’abitato di Assergi, in una località detta, dal nome di una piccola chiesa rupestre che sorgeva nelle vicinanze, Santa Maria

L’uomo, una volta giunto al suo podere, aveva scoperto che le grosse pietre utilizzate per drenare e convogliare sul prato l’acqua del fiume che scendeva lungo un canale parallelo al fiume stesso, erano state rimosse e disseminate nel campo. L’incresciosa circostanza, attribuita dall’uomo alla maligna volontà di qualche proprietario confinante col suo terreno, lo aveva a tal punto irritato che prese a bestemmiare ad alta voce Dio e la Madonna, e non si acquietò fino a quando in cuor suo non si convinse di aver fatto scendere tutti i santi del paradiso. 

Finalmente, dopo aver sudato le sette camicie per rimettere ogni cosa al suo posto e dopo aver irrigato il suo prato, si mise sulla strada del ritorno. Ma ecco che, dopo qualche passo, vide da lontano venirgli incontro un uomo. Appena gli fu vicino, riconobbe un signore di mezza età vestito assai elegantemente che lo salutò con molto garbo. Si presentò dicendo che stava percorrendo poco sopra con la sua carrozza la strada che conduceva ad Aquila e improvvisamente un cavallo gli si era azzoppato. Gli chiedeva pertanto  il favore di accompagnarlo al paese e indicargli un posto in cui trascorre quel che restava della notte. Colpito dalla sua gentilezza e signorilità, l’uomo di Assergi si offrì di aiutarlo. «Avete un aspetto un po’ adirato» prese a dirgli lo sconosciuto camminando al suo fianco. «Sì» rispose il paesano, e gli raccontò la situazione che aveva dovuto fronteggiare e come avesse inveito contro Dio e tutti i santi del paradiso, della qual cosa si mostrava pentito. «Ma non c’è nulla di cui pentirsi» – riprese con bonomia il distinto signore – ne avevate ben ragione». 

Nel frattempo, giunti vicino alla chiesetta di Santa Maria, al contadino parve di non veder più al suo fianco il singolare viandante. Lo rivide poco dopo, e alla sua domanda dove fosse andato, il signore rispose che si era trattenuto dietro un cespuglio per fare un bisognino. La stessa cosa avvenne più avanti, in località Le pernagnole, all’altezza di una piccola edicola dedicata alla Vergine.  

Per il resto, il signore si mostrava molto interessato alla vita privata del paesano, e sembrava che volesse diventargli amico. L’assergese, invaghito da tanta squisita cordialità, lo invitò, una volta arrivati al paese, a bere in casa sua un buon bicchiere di  vino caldo e restarvi fino a che facesse giorno. Il signore sembrò che accettasse l’invito molto volentieri. All’approssimarsi del centro abitato, però, accampando non so quale altra scusa, pretese di non passare in prossimità della chiesa della Madonna del Mulino, ma di fare un giro un po’ più lungo, cosa che cominciò ad insospettire il paesano, il quale, giunti che furono sulla porta di casa, fece per aprire uno dei battenti, che rese visibile una grossa croce di legno scolpita all’ingresso della cucina, ed invitò il suo compagno di strada ad entrare; ma questi, fermatosi sulla soglia, afferrò per una mano il padrone di casa e  cercò violentemente di tirarlo a sé. Le grida che ne seguirono fecero svegliare la moglie del contadino, che, vedendo il marito lottare contro uno sconosciuto, gridò atterrita: «Ma che cosa sta succedendo?», e aggiunse: «Madonna mia, aiutaci tu!»…e, sull’istante, lo strano signore disparve, inghiottito da una grossa fiammata. 

«Era il demonio!», commentava la nonna. «Caro Peppino» – concludeva   –  si trova tutto, c’è il bene e c’è il male, abbiamo a fianco sempre un angelo e un diavolo». Era questa l’espressione di una essenziale teologia morale in cui tanta parte avevano avuto due zii preti usciti dalla sua famiglia. 

A pensarci bene, la vera protagonista del secondo racconto era stata la Madonna, che con le sue immagini disseminate lungo il percorso,  come voleva a quel tempo la pietà popolare, aveva vegliato, da mamma buona, sull’ignaro contadino. 

Questi racconti colpivano vivamente la mia fantasia di bambino e per molto tempo mi sentii rassicurato nel passare vicino a Macchia Grande, la bellissima e fitta boscaglia che sta poco sopra l’abitato di Assergi, giacché pensavo che se mi fossi smarrito avrei incontrato un santo monaco che mi avrebbe fatto ritrovare la strada di casa,  ma…guai ad avventurarmi sull’imbrunire lungo il fiume, dalle  dalle parti di Santa Maria: avrei potuto imbattermi nel diavolo nelle vesti di un elegante signore. 

Nei racconti della nonna, e in altri simili che mi capitava di ascoltare dalla bocca di donne anziane, si ricava che nelle passate generazioni la religione si saldava mirabilmente con il fantastico: quasi viveva passando attraverso il crogiuolo della fantasia. Eppure – e questo a me sembra oggi il dato più positivamente sconcertante – la fede cristiana, pur fondendosi con l’immaginario, non rinunciava alle sue verità.  

Era come se l’anima popolare amasse accoccolarsi sulle ginocchia di Dio per sentirsi  raccontare da Lui la storia della salvezza con il linguaggio della fiaba.

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