Reportage del gennaio 1915 dalla Marsica devastata dal terremoto

Marsica – Il titolo del reportage storico ha qualcosa di poetico e, forse, persino di un po’ retorico: “Tra le rovine delle case e dell’arte nella Marsia convulsa“. Si tratta di un reportage risalente al gennaio del 1915, quindi stilato a poca distanza dalla terribile scossa del 13 gennaio, e firmato da Anton Giulio Bragaglia che fu un regista, critico ma anche saggista italiano. Il lungo articolo, corredato da diverse fotografie in bianco e nero che descrivono ciò che col terremoto era andato perso, è stato pubblicato nella rivista “Patria e Colonie” n. 1 del gennaio 1915, una rivista denominata “patriottica” col seguente sottotitolo: “Letture mensili sotto gli auspici della Società Nazionale Dante Alighieri“.

Alla pagina 125 ritroviamo, per l’appunto, il reportage di Bragaglia che, con toni affranti e con un pathos d’altri tempi, descrive “l’improvvida furia della sciagura“. Oltre a sottolineare la perdita di persone, l’autore si sofferma sulla tragedia di chi è sopravvissuto: “Gli occhi dei colpiti, vitrei, diacci, nelle occhiaie livide, sulle guance cave, fissano vuotamente il mistero del loro fato, lungo le scarpate di fango, fiancheggianti le vie delle campagne vestite di neve, e sulle macerie paurose delle città distrutte“. Descrive quindi le processioni di uomini e donne piangenti che seguono i cortei funebri celebrati in continuazione per giorni e giorni.

Persino le casette di campagna dal solo pian-terremo sono crollate. La rabbia sfrenata della terra in delirio, non ha risparmiato nessuna delle umili casette dei poveri. Le vie che conducono, su per le montagne, alla valle del Fucino, sono crepate, smozzate, avvallate, e i ponti si mostrano lesionati proprio da uno squassamento furioso, paralizzante” racconta Bragaglia che si sposta lungo i territori marsicani travolti dalla scossa. Spiega che alcune abitazioni di Avezzano sembrano essere sprofondate e inghiottite dal suolo. Descrive tutto come “uno sbaraglio senza sangue” poiché le macerie nascondono il loro “carnaio invisibile.

Neanche gli edifici storici più portentosi hanno retto: “Il castello di Avezzano è spianato. Quello di Balsorano, grandioso, poderoso, turrito ai quattro angoli, è forato, sbocconcellato e fenduto, in modo terrificante“. E la neve che non ha alcuna pietà si schiaccia compatta e gelata a terra come a rendere il tutto ancora più incomprensibile. “I pochi salvi nei primi quindici giorni dormivano all’aperto, sotto la neve, aspettando gli aiuti: i disperanti aiuti che non venivano“. La Valle Roveto ha ricevuto i primi soccorsi molto più tardi rispetto all’area fucense. Una scena straziante è quella che Bragaglia vive a San Vincenzo Valle Roveto: “Al settimo giorno dal disastro, ho incontrato sotto il paese di San Vincenzo Valle due preti, laceri, contusi, sbalorditi, che non mangiavano da molti giorni e che non sapevano come medicare i molti feriti del loro paese, e non riuscivano a piangere“.

Successivamente l’autore si sposta ad Avezzano e si accorge che la città è una distesa bianca di neve e macerie. Ad Avezzano “c’è la disperazione di un sol pianto di calcinacci monotoni, con a pena qualche infisso o qualche trave, segnante il bianchiccio uniforme […] Solo i cadaveri s’incontrano e i poveri, infaticabili soldati che li scavano, li coprono un poco, li depongono in terra, sopportando il fetore spaventoso, opprimente, ossessionante, che sorge da tutta la città cimitero e si spande nelle campagne, come l’orribile fiato della morte“. Queste le parole di chi ha visto e ha sentito, di chi ha attraversato le strade di un’Avezzano distrutta, morente. Tutti i giorni i carrettieri attraversano ciò che resta delle strade e raccolgono i corpi di chi è rimasto schiacciato dalle macerie. “C’è chi va in giro senza sapere che fare e porta in giro la disperazione, e sembra non totalmente vivo“.

Oltre alle perdite umane, la Marsica o Marsia, come la chiama Anton Giulio Bragaglia, si sofferma anche sulla perdita di edifici importanti e di innumerevoli opere d’arte che il terremoto ha distrutto, lesionato, danneggiato e fatto perdere per sempre. Paesi interi sono stati distrutti, “è doloroso dover osservare che la distruzione loro non costituisce solo la perdita del castello o della chiesa o delle torre, ma di tutto un caratteristico, delizioso accavallamento di case, che non sono le solite casette moderne, ma sono antichissime, nate quasi sempre insieme al castello o alla chiesa“. Sono diversi i piccoli centri di cui Bragaglia descrive gli edifici storici e le opere polverizzate dalla scossa: Luco, Trasacco, Ortucchio, Pescina, San Benedetto dei Marsi, Celano, Paterno, Magliano de’ Marsi, Rosciolo. Una memoria umana, storica e artistica che ci permette di tornare indietro nel tempo e di percepire il senso di spaesamento, di sofferenza e di devastazione che i nostri compaesani hanno vissuto e patito in quel lontano, ma poi nemmeno tanto, gennaio 1915.

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