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Con l’avanzare dell’età ricordare impegni o apprendere nuovi informazioni può diventare difficile. Entro certi limiti cambiamenti riscontrabili in alcune funzioni cognitive come la memoria, l’attenzione, la concentrazione, il linguaggio sono osservabili sia nelle persone sane, sia in chi sviluppa un declino cognitivo lieve (più spesso definito “Mild Cognitive Impairment- MCI), o in malattie più gravi come la demenza di Alzheimer.

Secondo l’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità nel nostro Paese oltre un milione di persone presenta decadimento intellettivo (di cui circa 600.000 con Alzheimer) e circa 3 milioni sono le persone direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza dei loro cari (definiti caregiver)1.

Le alterazioni della memoria ne costituiscono uno degli aspetti patognomonici: inizialmente si riscontrano difficoltà nell’immagazzinare nuovi informazioni, nel ricordare eventi più recenti e poi quelli più lontani, nella rievocazione di nomi (afasia nominum) e nella denominazione corretta di oggetti o persone. Si fa sempre più ricorso alle cosiddette “parole passepartout”, ovvero parole generiche (“coso”, “oggetto”), pronomi indicativi o complesse perifrasi.

Accanto al deficit di memoria, spesso compare disorientamento nel tempo, nello spazio e personale. Eventi critici (che possono rappresentare un momento scatenante del disorientamento, inducendo reazioni catastrofiche) sono viaggi, allontanamenti momentanei da casa, traslochi, ma anche piccole variazioni dell’ambiente domestico: la persona, confusa ed allarmata, raccoglie approssimativamente le sue cose e cerca di aprire la porta della propria abitazione, chiedendo di poter “tornare a casa”.

Presenti fin dalle prime fasi della malattia sono anche i disturbi dell’attenzione, i deficit del ragionamento astratto e delle funzioni esecutive, accompagnati da disturbi del linguaggio (afasie), dei movimenti volontari (aprassie) e della percezione (agnosie). E’ poi frequente l’affaccendamento inoperoso ed afinalistico, l’intraprendere numerose attività frammentarie e disordinate per effetto dell’aprassia. Il maggior carico assistenziale, tuttavia, è spesso da ricondurre alle alterazioni del carattere, caratterizzate nella maggior parte dei casi da un’accentuazione, a volte esasperata, dei tratti tipici della personalità o dall’emergere di nuovi tratti, opposti a quelli preesistenti.

Così la persona prudente diviene diffidente, la parsimoniosa diventa avara e la possessiva gelosa ed aggressiva. Proprio a causa di queste molteplici alterazioni le competenze sociali tendono a ridursi, con crescente limitazione della vita di relazione e conseguente isolamento. Inoltre, l’umore è quasi sempre compromesso con labilità emotiva ed apatia, depressione e disforia, ansia ed euforia, irritabilità ed iperemotività, con una caratteristica instabilità affettiva.

L’attività sessuale solitamente è assente, ma in alcuni casi può accentuarsi e il soggetto inizia a fare avances incongrue tali da innescare rifiuti. Ciò può scatenare reazioni irose da parte del partner e conseguentemente nel paziente deliri di gelosia. A complicare ulteriormente il quadro si evidenziano i disturbi delle percezioni e del pensiero, secondari ad alterazioni dell’attenzione o dello stato di coscienza, come le illusioni o i falsi riconoscimenti, oppure disturbi francamente allucinatori, sospettosità, idee prevalenti d’influenzamento o vere e proprie idee deliranti.

A volte è l’amnesia ad alimentare i deliri: il paziente non ricorda dove ha messo gli oggetti o il proprio denaro, non riesce a trovarli e si convince di essere stato derubato dai vicini o dai familiari stessi (delirio di latrocinio).

Considerando la complessità delle diverse forme di demenza, si impone la necessità di un approccio globale del fenomeno che richiede l’attuazione di opportune strategie di prevenzione primaria e secondaria. Infatti, poter individuare precocemente pazienti con deterioramento cognitivo in stadio iniziale premetterebbe di agire tempestivamente a livello terapeutico e riabilitativo. Inoltre, qualora si abbia a che fare con forme di demenza irreversibili, instaurare tempestivamente un corretto intervento, permetterebbe di ottenere il massimo dei risultati possibili, soprattutto in termini di qualità di vita, tanto per il paziente quanto per il caregiver.

Quest’ultimo è, infatti, sottoposto a due tipi di carico assistenziale: un carico oggettivo e uno soggettivo. Il primo nasce da problemi pratici legati alle modificazioni del comportamento e delle abitudini di vita dell’individuo affetto da demenza. Il secondo è connesso, invece, alla sfera emotiva e alla sofferenza prodotta in un individuo costretto ad assistere inerte al lento decadimento di una persona cara. Il carico soggettivo è solo in parte correlato alla gravità del deficit cognitivo e funzionale del paziente: molto più importanti sembrano essere la qualità di relazione esistente, il supporto sociale disponibile, il modo di porsi davanti al deterioramento cognitivo di qualcuno che si ama. A fronte di un modesto contributo dei farmaci nel modificare e controllare la storia naturale della malattia, è importante comprendere l’efficacia e l’utilità di interventi di tipo non-farmacologico.

Tra questi ultimi, i programmi di training cognitivo risultano utili come forma di prevenzione primaria per le persone sane, ma anche come intervento preventivo secondario per chi abbia già un problema cognitivo, o per rallentare il decorso cronicizzante della malattia per le persone affette da demenza iniziale. Questi training stimolano le diverse funzioni cognitive con attività individualizzate, ovvero adatte non solo alle capacità della persona, ma anche alle sue preferenze e alle sue disposizioni del momento. Le attività proposte cercano, inoltre, di favorire la conversazione, le relazioni con gli altri, il racconto di sé, al fine di agire contemporaneamente sulle abilità sociali, sull’autostima, sul tono dell’umore e sull’autoefficacia percepita.

Gli obiettivi possono essere sintetizzati di seguito in:

  • Raggiungere e mantenere il miglior livello funzionale possibile

  • Ridurre il rischio di demenza e/o rallentare il decadimento cognitivo

  • Contrastare la tendenza all’isolamento nel contesto familiare e sociale

  • Contenere i disturbi comportamentali

Al fine di programmare un training il più possibile individualizzato, mirato e specifico è prevista una valutazione pre/post trattamento delle abilità cognitive e l’articolazione di un percorso di potenziamento e/o di recupero sintesi degli interventi attualmente più accreditati in ambito scientifico. Gli effetti positivi sono comprovati sia sul paziente, con miglioramento del funzionamento cognitivo, sull’umore e sul comportamento2, sia sul caregiver, riguardo alla qualità di vita e alla sfera relazionale3.

Inoltre, partecipare a questi training cognitivi determina un significativo miglioramento che perdura nel tempo, come dimostrato a livello scientifico da recenti meta-analisi.4 A ciò si aggiungono evidenze circa l’effetto dell’esercizio cognitivo nella riduzione dell’incidenza della demenza5.

Dr.ssa Maria Rosita Cecilia
Psicologa – Psicoterapeuta, Dottore di Ricerca in Epidemiologia, Prevenzione e Riabilitazione delle patologie Cronico – Degenerative
Operatore di Stimolazione Cognitiva della Persona con Demenza

NOTE
1 http://old.iss.it/demenze/?lang=1&tipo=17

2 Mapelli D., Di Rosa E., Nocita, R., Sava, D. (2013). Cognitive stimulation in patients with dementia: randomized controlled trial. Dement Geriatr Cogn Dis, 29;3(1):263-71.

3 Orgeta, V., Leung, P., Yates, L., Kang, S., Hoare, Z., Henderson, C., et Al. (2015). Individual cognitive stimulation therapy for dementia: a clinical effectiveness and cost-effectiveness pragmatic, multicentre, randomised controlled trial. Health Technol Assess, 19(64):1-108.

4 Tardif, S., Simard, M. (2011). Cognitive stimulation programs in healthy elderly: a review. Int J Alzheimers Dis, 378934.

5 Valenzuela, M., & Sachdev, P. (2009). Can cognitive exercise prevent the onset of dementia? Systematic review of randomized clinical trials with longitudinal follow-up. The American Journal of Geriatric Psychiatry17(3), 179-187.

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