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Garibaldini Marsicani a Monterotondo e Mentana (2-3 novembre 1867)

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NECROLOGI MARSICA

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L’esposizione delle drammatiche battaglie garibaldine di Monterotondo e Mentana, ci hanno messo di fronte ad una «storia aperta» con interrogativi talvolta rimasti insoluti, pur essendosi conclusa nella sua realtà l’intera vicenda. Le nostre rigorose pratiche investigative, dirette a scoprire nuove fonti, specialmente sui giovani volontari marsicani che nel 1867 vestirono «la camicia rossa», rendono evidenti: sacrifici, privazioni, violenze gratuite, atti di eroismo, viltà e miserie allo stesso tempo, che esulano dalla solita e logora «iconografia post-risorgimentale» liberale, repubblicana, trionfalistica, partigiana.

Ancora una volta in questa ricerca emergono tutte quelle contraddizioni tipiche di una «Unità» raggiunta con difficoltà e con enormi discordanze, distinte in quadro generale nel quale molti episodi saranno rappresentativi, proprio per il carattere di quella lotta, combattuta da bande improvvisate di garibaldini, dal governo italiano rimasto scaltramente nell’ombra e dai fedeli zuavi del Papa-Re, disposti a farsi uccidere fino all’ultimo uomo per salvaguardare i confini della Santa Sede. Le fonti narrative inedite, specialmente il carteggio di Francesco Crispi, la «Relazione» del comandante dei corpi volontari abruzzesi Federico Salomone, il «Diario-protocollo dello Stato Maggiore Pontificio sulle operazioni dell’autunno 1867» (conservato nel fondo Kanzler dell’Archivio Segreto Vaticano), opportunamente messe a confronto, suffragate da estesa bibliografia, completano lo scenario degli avvenimenti descritti.

Anche il prezioso manoscritto del repubblicano Pietro Marrelli, conservato nella Biblioteca Provinciale dell’Aquila, fornisce dati espressivi sull’organizzazione e la spedizione dei volontari abruzzesi oltre il confine dello Stato pontificio.

Per comprendere appieno i motivi di tale «disfatta» e perché essi divengano realmente chiari, occorre rilevare ancora i numerosi indugi, le proroghe, le improvvisazioni e il disordinato reclutamento dei volontari scelti senza un’accurata selezione. In questa fase non andrà trascurato, invece, il valore dimostrato dagli zuavi pontifici che, ben organizzati militarmente per resistere senza termine, combatterono con slancio, freddezza e disciplina, giungendo infine alla vittoria di Mentana.

Ormai la stessa bibliografia prodotta dopo circa centoquarantanove anni dall’evento, smentisce categoricamente anche la «leggenda» che i vincitori veri della battaglia finale furono i francesi (generale De Failly), grazie alla potenza dei loro fucili Chassepots, armi a retrocarica allora moderne, risultate, però, inadatte su un terreno come quello frastagliato di Mentana, pieno di boschi, muretti e vigneti, rivelando una cadenza di fuoco meno importante nella precisione di tiro.

Già dal 22 maggio 1866 i patrioti Pietro Marrelli e Angelo Pellegrini erano stati nominati membri del «Consiglio di Arruolamento di Volontari» per la provincia dell’Aquila, affiancati, egregiamente, dal capitano Orazio Mattei di Avezzano, da Serafino De Giorgio di Scurcola e dal canonico don Luigi Paoletti di Celano.

Il 13 agosto 1867, il prefetto Gaetano Coffaro, informato dell’arrivo nel territorio Aquilano di Menotti Garibaldi, Achille Fazzari, Federico Salomone e del generale garibaldino ungherese Ernesto Haug, fece risapere «ai nuovi convenuti che, date le serie disposizioni del Governo, egli doveva impedire qualunque tentativo verso la frontiera e li consigliava di astenersene». Il «Telegrafo dello Stato» si era già attivato da Terni qualche giorno prima, quando il prefetto Argenti comunicò al suo collega dell’Aquila: «Menotti-qui questa mattina-seguito da Fazzari da individuo che-generale polizia Haug-ora per Rieti». Per non esser da meno, anche il sottoprefetto di Cittaducale, Cappelletti, con telegramma cifrato, preoccupò i colleghi: «Menotti arrivato oggi Terni accompagnato due individui e ripartito. Vigili ed avvisi». Rispose ai messaggi il sottoprefetto di Rieti (Mosca) che, in sintonia con gli altri, comunicò repentinamente: «Arrivarono qui questa sera Menotti, Fazzari, Generale Haug ed altri Capi partito azione = tre di essi partono domani mattina per Aquila. Procurerò saperne nome ed informerò ulteriormente». Il giorno dopo, ancora Cappelletti da Cittaducale, telegrafò in codice al sottoprefetto di Avezzano: «Giungerà oggi qui Menotti Garibaldi con altri del partito d’azione dicesi per muovere volontari recarsi confine pontificio. Sorvegli tutta attenzione e proceda secondo gli ordini Governo».

Intanto, i deputati Fazzari, Salomone, il capitano garibaldino Cusano e il capitano milanese Blenio, raggiunsero la comitiva di Menotti appena giunta all’Aquila; come pure accorse nel capoluogo l’avezzanese Orazio Mattei, arrivato opportunamente per conferire con il figlio di Garibaldi. Divenne perciò quasi impossibile al sottoprefetto Tarchi di Avezzano, impedire la riunione di tanti pericolosi personaggi. Non sapendo quale iniziativa dovesse prendere, scrisse al capo della provincia: «Dispaccio di costà firmato Orazio Mattei avvisa che Menotti Garibaldi in breve sarà qui sua casa. Prevengo per norma e per quelli ulteriori provvedimenti che avesse da darmi». Il prefetto Coffaro con risposta al telegramma, affermò: «Governo fermamente deciso impedire movimenti verso frontiera ha ordinato che se Menotti o chiunque altro tentasse passare confine con armi o volontari sia arrestato. Disponga».

Durante questa convulsa fase investigativa, lo zelante funzionario governativo di Avezzano riuscì a intercettare il testo di almeno due telegrammi indirizzati ad Angelina e Paris Mattei, inviati il 14 agosto 1867 da Orazio dalla «Locanda del Sole» dell’Aquila. Nel primo messaggio lo stesso Mattei comunicava alla moglie: «Angelina Mattei-Avezzano-Ricevo telegramma momento partenza. Giungeremo stasera pranzo. Scioltezza e semplicità. Prego caldamente. Impossibile disdire. Mi raccomando.Orazio»; nel secondo annunzio rivolto al fratello, si leggeva: «Paris Mattei-Avezzano- Giungeremo pranzo stasera-Trovare due carrozze Convento Celano. Saprete ora più tardi-Partirà Napoli dopo domani. Orazio».

Sotto quest’aspetto, nella riunione «segreta» tenutasi ad Avezzano tra Menotti Garibaldi e Orazio Mattei si erano gettate le basi per la costituzione di un Comitato d’Azione, simile a quello fondato molti mesi prima all’Aquila. Addirittura si pensò a un’eventuale invasione dell’Alto Aniene, che avrebbe attirato fuori dagli abituali presidi i soldati pontifici, mettendo così in atto un’abile mossa strategica per sviare forze preponderanti dal vero obiettivo. I nomi dei delegati che entrarono a far parte del comitato avezzanese furono resi noti in un opuscolo illustrativo pubblicato nel 1903 dal garibaldino Serafino De Giorgio di Scurcola Marsicana che, tra l’altro, specificò: «Esso comitato fu composto degli individui seguenti, tutti domiciliati nella Marsica. 1° – Presidente il Cav. Orazio Mattei, domiciliato e residente in Avezzano. 2° – Cav. Canonico D. Luigi Paoletti di Celano. 3° – Sig. Francesco Ferrazzilli di Civitella Roveto. 4° – Sig. Giovanni Mastroddi di Tagliacozzo. I suddetti individui, tutti proprietari, schiettamente liberali e di sperimentata probità».

Anche se la polizia italiana rendeva difficili le riunioni segrete dei volontari in tutto il territorio Aquilano per evitare incidenti politici con la Francia, Salomone e Blenio stavano cercando di convogliare i circa duemila garibaldini abruzzesi verso la frontiera con ogni mezzo, pronti ad aspettare il segnale di Garibaldi, che intanto aveva ordinato di passare il comando nelle mani di suo figlio Menotti. Secondo le ultime direttive, il corpo centrale dei garibaldini, attraversando il territorio della Sabina, avrebbe attaccato Monterotondo e Tivoli. Contemporaneamente, Nicotera e Antinori (ala sinistra) dovevano occupare la zona di Velletri; mentre, il generale Acerbi (ala destra), già marciava per invadere la provincia di Viterbo.

Sulla base di questi presupposti, rimane un compito alquanto arduo presentare un racconto «obiettivo» sulla spedizione garibaldina partita dalla Marsica, soprattutto perché la documentazione di parte sminuisce non poco l’obiettività del primo combattimento avvenuto l’11 ottobre 1867 nella piazza di Subiaco tra pontifici e volontari in camicia rossa.

Tuttavia, vale la pena leggere la versione dello scontro riportata sulle pagine de «La Civiltà Cattolica», che in seguito raccolse altre testimonianze: «Del Blenio un colpo fece cilecca, l’altro fallì; il belga Desclée colse, ma leggermente. Onde venuti al cozzo, cominciò tra loro una lotta corpo a corpo, giocando di rivoltella lo zuavo, e di pugnale il garibaldino. Un altro ufficiale pur di casacca rossa giaceva stramazzato a terra fingendosi morto, e dicono che fosse il tenente Serafino De Giorgio. In costui inciampò il Desclée, e cadde seco traendo l’avversario già ferito. Allora il finto morto, balzando sopra di lui a mezza vita, a gran colpi di pugnale tentò di inchiodarlo a terra, e lo ferì alla fronte, al petto, al braccio; ma il Desclée grondante di sangue, pur tuttavia si divincolava fieramente, e infine si riscosse dalle prese ostinate dei due nemici. Il De Giorgio fuggì, ed egli aggiustò una palla in petto al Blenio, che ruzzolò un momento, e torcendosi come una serpe, fu udito fremere-Diavolo aiutami! Poco dopo spirava».

Dopo la disfatta di Subiaco, Francesco Mattei (fratello di Orazio), che fortunosamente era scampato al macello, fece recapitare ai suoi familiari una drammatica lettera, scritta dal primo paese raggiunto oltre il confine, con affermazioni che misero in trepidazione tutti: «Carissimo fratello. Fra i molti prigionieri, feriti e morti, io sono uno di quelli cui è riuscito salvarsi con la fuga, strapazzi, astuzia e più di tutto sveltezza di gambe. Tra gli altri abbiamo a deplorare la morte del nostro bravo capitano Blenio: 18 prigionieri fra i quali De Angelis e De Giorgio. Di 29, solo in sette abbiamo avuto certa la vita e la libertà. Traditi, caro Orazio, abbiamo mostrato coraggio spartano. Io son salvo mercé il porgitore celeberrimo contrabbandiere e mercé i miei modi astuti. Sono a Rocca di Botte affievolito di forze; domani sarò costà. Salutami Mamma e tutti. Addio, Ciccio». Il disastro della spedizione di Blenio non fece desistere i garibaldini marsicani che raggiunsero il quartier generale di Menotti Garibaldi posto a Scandriglia, per poi dirigersi verso Passo Corese come da ordini dell’Eroe dei Due Mondi.

Dopo varie vicissitudini, nella notte fra il 24 e il 25 ottobre 1867, Garibaldi, nonostante fosse ormai vecchio e malandato, riuscì a spingere le colonne di Caldesi e Valzania sulla via Salaria in direzione di Monterotondo, deciso ad attaccare i pontifici con estrema determinazione. La superiorità numerica dei garibaldini ebbe la meglio sul piccolo presidio difeso da circa trecento zuavi.

L’avezzanese Orazio Mattei, comandante la colonna marsicana, rapportò in seguito di aver visto la morte in faccia, mentre nel bel mezzo dei combattimenti portava gli ordini di Menotti da un punto all’altro delle linee. Poi denunciò i pessimi comportamenti di alcuni sconsiderati giovani garibaldini. In una sua corrispondenza da Monterotondo, indirizzata al Comitato Aquilano (28 ottobre 1867), scrisse che assieme a Giuseppe Vulpiani era riuscito a far avanzare con immensi sacrifici i volontari marsicani e del Cicolano verso la Marcigliana, sette miglia da Roma: «certo delle perdite vi sono state, ma eran queste inevitabili, trattandosi che Monterotondo era in fortissima posizione e circondato di mura. Dopo 28 ore di fuoco quasi senza interruzione, la città cadde per resa in nostro potere e furon fatti 300 prigionieri con 50 cavalli e due pezzi d’artiglieria che sono stati veramente il formaggio sui maccheroni, mentre noi ne difettavano assolutamente. Salvo notabilissime eccezioni, la maggior parte che non sono il fiore dei galantuomini, hanno dato prova del loro vandalismo commettendo furti, stupri, violenze per modo che il paese ne è esterrefatto. Povero Garibaldi e poveri noi!»

Alcuni giorni dopo, l’avanguardia, composta dai bersaglieri milanesi di Stallo, dai genovesi comandati dal maggiore Burlando e dal tenente colonnello Missori, insieme alla prima compagnia dei carabinieri livornesi di Meyer, stava marciando tranquillamente da Monterotondo verso Tivoli. Circa due chilometri indietro, procedevano Garibaldi e il suo Stato maggiore; quindi seguivano le guide a cavallo comandate da Ricciotti Garibaldi (la 2ª e 6ª colonna), l’artiglieria del capitano Luigi Fontana con gli abruzzesi di scorta (la 3ª colonna), i battaglioni sciolti e la 1ª colonna, il genio. In retroguardia la 4ª colonna del maggiore Cantoni.

Negli avamposti di Mentana rimasero due compagnie volanti del maggiore Andreuzzi, più altre sei colonne. La prima era comandata dal colonnello Salomone, 900 uomini così divisi: 1° battaglione, guidato dal maggiore Vecchi; 2° battaglione, condotto dal maggiore Ciotti; 3° comandato da Garelli, 14° da Marini. La seconda colonna era capitanata dal colonnello Frigyesi, la terza dal maggiore Valzania, la quarta dal maggiore Cantoni, la quinta dal tenente colonnello Paggi, la sesta dal colonnello Elia. Nella marcia di avvicinamento erano presenti in formazione circa 4.700 uomini con due pezzi d’artiglieria.

Sembra ormai accertato che, alle prime luci dell’alba del 3 novembre 1867, marciavano non meno di 5.000 garibaldini, forse 6.000 sulla strada: «a seguire che si stacca dalla Nomentana poco meno di un chilometro e mezzo a sud-est di Mentana, presso l’altura dell’Immaginella, e piega poi a sinistra verso le Vignole e l’Osteria delle Molette, passa a sud-ovest dell’attuale stazione di Montecelio, traversa il fosso dei Prati sul ponte Vigne; era in parte campestre, in parte carrareccia, certo migliore di parecchi anni orsono. E però marcia di fianco rispetto a chi viene da Roma lungo la Nomentana e la Tiburtina: troppo scoperta la destra all’atto della conversione».

In questa fase Garibaldi, sperando che un moto rivoluzionario scoppiato all’interno di Roma potesse facilitare l’assalto alla città Leonina, si era spinto in avanti. Le avanguardie garibaldine raggiunsero «Ponte Mammolo» e si disposero in linee successive fino a «Villa Spada» e la «Marcigliana». Nel frattempo, i battaglioni dei bersaglieri di Stallo e Burlando, cominciavano a scambiarsi fucilate con i trecento legionari romani comandati da De Séré e di Enrico De Thouzon, posti a guardia sulla torre in «Casal dei Pazzi». Nella zona di «Monte Sacro», soldati e zuavi condotti dal tenente Gustavo Lavergne De Cerval e dal capitano del genio Benedetto Fabri, cercavano di circondare i milleduecento garibaldini della colonna Valzania che, per salvarsi dall’accerchiamento, per ben sei ore sostennero un vivo fuoco.

A questo punto, dopo varie trattative diplomatiche tra Italia e Francia, ci fu lo sbarco di 22.000 uomini con 42 pezzi d’artiglieria al porto di Civitavecchia, rappresentati dalla prima brigata De Polhés e dalla divisione Dumont, coordinate dal generale in capo De Failly. L’azione destò subito scoraggiamento nei vertici militari garibaldini che speravano un risolutivo intervento dell’esercito italiano.

Nel pomeriggio del 3 novembre 1867, schierati dalla parte di Monterotondo che guarda verso Tivoli, a mezzo chilometro da Mentana, la prima a essere attaccata sul fianco destro fu la colonna dei garibaldini abruzzesi condotta dal colonnello Salomone (marsicani, bolognesi e genovesi).Poi, quando il resto delle truppe garibaldine fu costretto a ripiegare, solo il 1° battaglione rimase a protezione della ritirata verso Monterotondo.

In questa fase, particolare rilevanza assunse la ritirata su Monterotondo, che poi fu il preludio del disastro di Mentana, dovuto al deplorevole disordine e alle innumerevoli defezioni avvenute tra i volontari garibaldini, poco propensi a eseguire ordini e manovre dettate dai vertici militari. A detta di Nicola Fabrizi, capo dello Stato maggiore del corpo insurrezionale, il ripiegamento su Tivoli fu un vero tracollo. Alla luce di queste considerazioni, lo storico De Cesare ben puntualizza la situazione: «L’esercito garibaldino venne sorpreso la mattina del 3 novembre 1867, mentre in lunghissima colonna, la cui testa era a Mentana e la coda a Monterotondo, aveva iniziato la marcia sopra Tivoli; fu sorpreso nell’avvallamento in cui giace Mentana. I pontifici non apparivano, per le accidentalità del terreno coperto da vigne e canneti. Ne fu ingannato lo stesso Garibaldi, il quale credette che si trattasse di poche forze in avanscoperta, mentre era invece tutta l’avanguardia nemica, seguita dall’intero corpo diviso in tre colonne, con ai lati la riserva francese. Addirittura, tra le molteplici sfasature tra il centro della colonna e le ali destra e sinistra condotte da Nicotera e dell’Acerbi, bisogna considerare che nemmeno un garibaldino riuscì a raggiungere il campo di Mentana».

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In chiave più ampiamente politica, non può venire sottaciuto che le conseguenze della sconfitta di Mentana dettero luogo a una profonda crisi internazionale, complicando ulteriormente la discussione sulla questione romana, laddove il governo del Papa-Re, almeno fino al 1870, ne trasse vantaggi di carattere politico e militare. Il generale Lamarmora cercò di attenuare il peso della disfatta nei difficili rapporti diretti con la Francia; Rattazzi, invece, scese definitivamente nell’ombra, mentre Menabrea «liquidando tragici disegni non fece che ripetere vecchi e vuoti pensieri di tutela e di libertà alla religione».

 

Una lunga serie di contraddizioni, ambiguità e voltafaccia, che il governo italiano aveva assunto per tutto il periodo della «Campagna del 1867», confermata dall’arresto di Garibaldi alla stazione di Figline Valdarno, colsero sulla via del tramonto la missione del vecchio combattente.

Dopo l’arresto di Garibaldi, seguì quello di molti altri protagonisti e organizzatori dei comitati insurrezionali abruzzesi: i primi furono Pietro Marrelli dell’Aquila, Orazio Mattei di Avezzano e Antonio Orsini di Sulmona (1).

Note

1)    F.D’Amore, GARIBALDINI SENZA DIO. L’invasione dell’Agro romano per la conquista di Roma nel 1867 (libro inedito).

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Fulvio D'Amore ricercatore e saggista

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