Avezzano – Quand’è che una persona si può definire equilibrata? E l’equilibrio, è il tratto distintivo di personalità rassicuranti, o piuttosto, il travestimento di profili psicologici complessi pronti ad esplodere all’improvviso? E la vertigine? Cos’è questa sorta di perdita di controllo di sé, quando ci si sporge sul bordo della vita, attratti dal vuoto di un’esistenza irrisolta?
Provare a mettere in relazione equilibrio e vertigine, immaginando di perseguire la stabilità emotiva attraverso un percorso evolutivo di consapevolezza che dà forma ed equilibrio al proprio essere, partendo proprio dal caos e dal disordine, ovvero dal quel senso di vertigine che ciò comporta. Questo l’interessante tema che pare voler esplorare la Di Pascasio attraverso il suo romanzo.
L’equilibrio è un’antica vertigine di Roberta Di Pascasio, edito da Augh! Edizioni per la collana Frecce, è un libro dal titolo evocativo che lascia spazio a diverse interpretazioni. L’autrice stessa, ha offerto, nel corso delle numerose presentazioni del romanzo, elementi utili a decifrarne il significato, illustrandone il senso, almeno quello che lei ha inteso dare alle parole che racchiudono esattamente il tema della storia narrata.
Una storia che inizia con un evento traumatico, una tragedia che coinvolge due fratelli, Orlando e Filippo, che a bordo di un’auto guidata da Filippo, piombano su una nonna e la sua nipotina, le cui vite vengono stroncate a seguito del violentissimo inevitabile impatto.
Accade così che due famiglie, fino a quel momento ignare l’una dell’esistenza dell’altra, vengano risucchiate nel gorgo infernale di una dimensione inaspettata, dove il destino si fa beffe delle persone giocando fra la vita e la morte come fosse una partita a dadi col caso.
È in quel momento che prende corpo il racconto, e si delinea la fisionomia di una storia che è un percorso nelle profondità dell’anima dei protagonisti, una ricerca quasi ossessiva da parte dell’autrice, negli anfratti più reconditi di personalità irrisolte e solo apparentemente complesse.
Ma la complessità, altro non è che il riflesso della parte più oscura di un personaggio come Orlando che col suo vissuto ne esprime i contorni e l’immanente presenza. La sua consapevole deriva emotiva si manifesta in un lento e ripetitivo lasciarsi vivere dove i suoi giorni si sciolgono in una sofferenza lieve ma inesorabile, corrosiva come un acido che consuma le pareti della mente.
Una consapevolezza che è totalmente assente in Filippo, il quale non a caso, viene relegato dall’autrice, dietro le sbarre di un carcere che non è soltanto il luogo fisico della punizione e della privazione della dignità sociale, ma nel contesto della narrazione, finisce per rappresentare l’archetipo sociologico dello straniamento di un uomo prigioniero delle proprie certezze e dell’ideologia edonistica del consumo.
Filippo è la raffigurazione iconografica della persona smarrita che si rifugia nell’omologazione e nel conformismo di massa per trovare sollievo ai suoi dubbi esistenziali inespressi. È l’uomo della presunta trasgressione che diventa modello subculturale del pensiero unico senza idee. Una prigione senza sbarre che rassicura, con le sue illusioni a buon mercato, quelli come lui, dalle personalità mai sbocciate, che si travestono di frasi fatte per confondersi nel disimpegno collettivo degli happy hours, senza mai arrivare all’happy end.
La colonna portante di tutta la storia è invece Orlando, col suo tormento e il suo travaglio interiore che è un vero e proprio paesaggio onirico dove lui si incammina, in una sorta di viaggio, a tratti psichedelico, alla ricerca di se stesso. Un viaggio irto di difficoltà ma anche di momenti divertenti. Un percorso nell’anima durante il quale incontrerà un’eccentrica signora che entrerà prepotentemente nella storia offrendo ulteriore spessore alla trama.
Sofie, questo uno dei tanti nomi con cui si fa chiamare la signora, è l’icona di una consapevolezza cristallina, dell’equilibrio raggiunto, è l’approdo sicuro dove Orlando acquisisce le nozioni e i rudimenti della navigazione per affrontare i marosi della vita e le sue tempeste.
Il finale, affatto scontato, è triste, ma di quella tristezza che ti fa compagnia come un vecchio amico silenzioso. Un finale quindi positivo, un inno alla vita, una ventata di ottimismo dell’autrice, che pare voler stabilire un solido, imprescindibile, necessario nesso esistente, fra la conquista della consapevolezza e il patimento interiore di chi, dopo essersi affacciato sull’abisso della follia, diventa finalmente artefice del proprio destino.