Per essere un buon critico d’arte contemporanea, oggi, si dovrebbe, a mio avviso, ampliare la sfera di analisi, essere, cioè, più interdisciplinari. Spesso, mi pare di rasentare l’asfissia, quando mi rendo conto di essere legato, per pigrizia e tradizione, ad alcuni, e forse imprescindibili, canoni estetici del passato.
La ricerca pittorico-figurale di Italo Mascitti, inevitabilmente, mi costringe a sentirmi quasi disarmato, come se gli strumenti a mia disposizione non fossero più sufficienti a capire totalmente certi suoi risultati di ricerca.
Da quasi un secolo, infatti, la lettura, in chiave di struttura, di una composizione pittorica avviene su due direttrici che spesso si intersecano, a volte camminano su binari paralleli, altre pare evitino di incontrarsi, per un reciproco rigetto. Si tratta, come sempre, dei due fenomeni principi, da cui pare impossibile prescindere, quelli basilari di forma e contenuto.
Ebbene — e perché negarlo? — affrontando la ricerca e i risultati originali di Italo Mascitti, queste formule analitiche di lettura non riescono più ad accontentarmi. Moralmente e filologicamente, mi sembra di limitare (con pericoli di retorica) il lavoro di Mascitti, fatto e completato, certo, da segni e colori e da, tutt’altro che trascurabili risultati scenografici, se io lo racchiudo entro i due “dogmi” di forma e contenuto. Così, per “scandagliare” in profondo questi lavori, che possono anche inquietare i nostri animi, ci si deve appellare allo studio sui sogni di S. Freud, si deve tornare a meditare sull’inconscio collettivo di C.G. Jung, ripensare all’antropologia strutturale di Lévy-Strauss, alla percezione visiva di Merleau-Ponty e a certi studi di Kriss sull’angoscia dell’artista.
Più saremo interdisciplinari come metodi di ricerca nei confronti di questa spettacolarità di Mascitti, più riusciremo a captare i suoi messaggi tra i segni e le maglie del colore.
Pittore abruzzese, egli non è un figural-naturalista. Trovo sbagliato e un po’ forzoso accostare, come spesso hanno fatto coloro che mi hanno preceduto, Mascitti al suo conterraneo Michetti. Paiono, a mio avviso, pittori di campi opposti. Michetti è artista di terra, di luci e ombre, di paesaggi, alberi e figure d’impronta decisamente moderna. Mascitti, invece, attinge sempre in “terra d’Abruzzo”, per dirla con D’Annunzio, ma con un’espressività dal taglio, anzi, dal sapore antico. È questa semplificazione di immagini del pittore di Celano, questo suo sapere andare all’essenziale di figure e di cose, che fanno di lui un pittore “primitivo”, nel senso trecentesco del termine.
Non come linguaggio, né come tecnica, ma come eticità, Mascitti ci rammenta il Carlo Carrà degli anni Venti. Anche il nostro pittore abruzzese pare “levare canti” verso una ritrovata spiritualità, dopo decenni di ricerche espressive legate all’avanguardia. Carlo Carrà, dopo la buriana futurista, infatti tornò al primitivismo toscano, Italo Mascitti, dopo il terremoto concettuale, all’arte gotica, all’affresco dal taglio spirituale.
Le figure che egli ci presenta, dolenti come in una sacra rappresentazione, hanno la solenne semplicità della gente d’Abruzzo, i grappoli d’uva che pendono, come immobili campane da invisibili rami, hanno la santità della natura; in un cesto di verdura la gioia della terra, il colo e del sole ormai tramontante.
Italo Mascitti non vuole essere pittore del vero e del reale. Egli è messaggero di suggestioni dal visibile. Sovente mi capita di voler distinguere (e senza volontarie forzature dialettiche) tra pittori pagani e artisti del sogno. Nel primo caso si tratta pur sempre di poeti i quali tendono, per innata ambizione, a raffigurare il vero nel modo più attendibile, innalzando il bello come parte totalizzante del reale; nel secondo caso, invece, ci troviamo di fronte ad artisti il cui fine non è di riprodurre e adorare (o far adorare) il “sublime”, ma di riprodurre la misteriosa continuità del proprio sogno.
È questo il caso, secondo il mio parere, di Italo Mascitti. Non si può prescindere dal suo fenomeno sogno, infatti nel momento in cui noi affrontiamo la totale irrealtà dei suoi quadri-scena, chiusi e conclusi entro un fatto strettamente emotivo. Ci sono più enigmi da rivelare che avvolgono questo pittore, intimista, in apparenza. Noi ci addentreremo, comunque, solo in un mistero e tenteremo di decodificarlo. Gli altri, invece, per non profanare il suo bell’animus lirico, li lasceremo in ombra.
L’enigma portante di Mascitti, che si fa pittura, e si rivela in ogni sua composizione, è quello dell’artista Fanciullo, nel senso più bello del termine, sinonimo di nascita della coscienza. Ogni lavoro, infatti, dell’artista abruzzese reca in sé un atto iniziatico, di autorivelazione del mondo. Mascitti scopre, come per magico incanto, la sinfonia della terra, del cielo. Pennelli e spatola, colori e tela per lui sono gli strumenti più idonei per narrare, sinfonicamente, le suggestioni che provengono da “ogni primo impatto con la natura”. Ogni volta che Italo Mascitti “vede”, la suggestione lo porta a sognare, a trasfigurare, proprio come accade al Fanciullo che esce dal caos primigenio. Il Fanciullo s’intende di Kemény.
Pittore nato, egli porta inproprio inconscio collettivo l’esperienza primitiva dei graffiti, quella colta degli affreschi tardo medioevali. In passato e assai bene, di Mascitti, Ciro Ruiu ha voluto sottolineare la sua ricomposizione del reale: “Si guardi l’opera paesaggistica, archeologica, dove i ruderi, ottenuti attraverso un intenso gioco di colori, sembrano emergere veramente da un tempo memorabile”. Mascitti, grazie alla virtuosa abilità con cui sa fare uso della spatola, rende evanescenti le immagini umane e paesaggistiche. Portato (ed è evidente in ogni suo lavoro) all’emozione, pare che egli dipinga non per trattenere a sé l’immagine, ma per allontanarla. Si tratta di un gesto inconscio, istintuale. Anche di coraggio. C’è, a mio avviso, da parte sua, il rischio di non poter comunicare, all’osservatore, il proprio messaggio appieno, quasi che egli immettesse una sottile barriera tra sé e il pubblico. Di barriera, infatti, si tratta, ed è quella degli “enigmi” di cui prima si scriveva. Un vero artista, a differenza di un cartellonista (spesso i figurativi cadono, in effetti, in un eccessivo descrittivismo), per radici culturali proprie, preferisce porgere immagini, situazioni sospese. Mascitti è pittore di interrogativi senza risposte. Questa sua sottile scrittura pittorica non permette profanazioni e noi per rispetto rimarremo in superficie, “godendo” del suo canto solo là dove egli ci consente di giungere, con il cuore e la mente. La porta, in parte, ci viene aperta dalla gratificazione della costruzione cromatica, rivelata assai bene da Franco Mancini in uno dei suoi scritti: “I colori, molto intensi e mossi, ora s’intrecciano, ora si intersecano, ora si perdono su fondi dorati, in un gioco mirabile di variazioni, quasi a voler esprimere l’ansia e la trepidazione di chi ricerca le supreme luci e verità, e le ritrova in una vera tonalità che è ricca di interiorità e di intima certezza”. Questo pittore abruzzese di Celano, come ricerca e risultati espressivi, viene da molto lontano.
Ho sotto gli occhi immagini figurali di due decenni fa. Anche in questo caso la spatola gioca un proprio ruolo maestro, fatto di spessori, accostamenti, contrappunti cromaticamente forti. Ancora una volta i soggetti sono di tematica profana e sacra. In questo ultimo caso Mascitti ha la potenza figurale, dolente di Rouault. Le immagini di donna, solo sagome dai visi senza tratti, solo luce in fronte, hanno la tenerezza di Maria con il Figlio. Viene quindi in luce un Italo Mascitti molto più allusivo.
La materia, se raccolta o, ancora meglio, limitata nell’ambito ambiguo della solo parziale campitura, assume il sapore magico della ricerca informale. Uguale sensazione, viene incontro al visitatore, per i lavori di questo periodo, al primo impatto di fronte alle case, ai palazzi disegnati e dipinti a stratificazione cubista (sintetica, si intende). La biografia di Mascitti gioca e ruota all’interno del suo studio, all’interno della sua ricerca. Scopriamo nel suo passato tendenze informali, che anziché risolversi verso un totale disfacimento della forma, si aprono verso inaspettati, magici lidi. La sua selva di case sotto cieli plumbei, le facciate stese a spatola e intrise di blu, di rossi, di grigi, spesso sono state lette come una denuncia incubotica della città alienante da parte di un Mascitti socialmente impegnato. Mi si permetta di dissentire da una simile lettura di questi lavori. A mio avviso, case, paesaggi, figure del pittore abruzzese hanno sempre un comune denominatore. Ed è quello di una religiosità antica, radicata non solo nei musei dove la pittura trecentesca è assai ben rappresentata, ma nel suo in-conscio personale. Se si accostasse, di Mascitti, un dipinto accanto a un altro, verrebbe in luce una sacra rappresentazione. Per essere coerenti rispetto a ciò che prima scrivevamo, dovremmo parlare di “sacro sogno rappresentato”.
Immagini di Gesù, di Madonna, di folla inquieta, sono il repertorio, per l’appunto, del Grande Sogno ritrovato di questo pittore solitario. Le sue immagini paiono protette da una “lacrima costante”. Forse è questa la barriera sottile messa tra noi che osserviamo e il paesaggio umano rappresentato. Le stesse case riprese prospetticamente come nuclei impietosi a strapiombo ricordano molto da vicino Gerusalemme. Viene, infatti, da queste strutture metafisiche il silenzio religioso, magico di un mondo che vorremmo chiamare Celeste. Ma, Italo Mascitti, non ce lo con-sente. Egli usa, infatti, colori più forti, più violenti. La sua Gerusalemme, quindi, prende il colore del fuoco, della conoscenza. Il messaggio pare rivelarsi, per un attimo, e noi stupiti. Rimaniamo in ascolto come fanciulli al primo atto dell’apprendimento. Ed è stupore.