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Il rito della Panarda, maschere, cesti, corone, fuochi e cottore per la festa di S. Abate a Villavallelonga

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Villavallelonga – La festa di Sant’Antonio Abate, che si celebra annualmente a Villavallelonga il 16 e 17 gennaio, si articola in un sistema rituale piuttosto complesso e ricco di simbolismi (maschere, Pupazze, cesti, Corone, fuochi, Cottore, carri allegorici) che può essere esaminato da molteplici prospettive e nel quale i vari aspetti si intersecano sia a livello funzionale che di valori ma che trova il suo momento principale nella Panarda, un banchetto notturno al quale ognuno partecipa in un clima di eccezionale solennità, ritenendosi responsabile ed obbligato a mantenere viva una tradizione che appartiene al comune patrimonio culturale.

La festa, nonostante presenti connotazioni religiose specifiche, è ritenuta sostanzialmente laica, in quanto esclusa da qualsiasi condizionamento autoritario sia pure in nome di una corrispondenza ai modelli ecclesiastici.
In generale e storicamente la Panarda, come festa dell’abbondanza o come rito alimentare, può essere inquadrata nell’ambito di quelle ricorrenze di inizio anno che, nelle culture tradizionali, assolvevano a una funzione benaugurante nei confronti di tutti gli elementi importanti della vita sociale: cibo, salute, prosperità e fortuna.
L’augurio si estendeva al mondo della produzione e degli animali: le messi ed i raccolti in genere, gli animali da carne, da soma e da trasporto.
Molti sono i paesini dell’Aquilano nei quali si rinnova annualmente il rito della Panarda, inteso come rituale collettivo di consumo del cibo avente impostazione devozionale e allestito in precise ricorrenze del calendario religioso popolare, ma la Panarda di Villavallelonga presenta alcuni elementi strutturali che, per quanto a prima vista, sembrino comuni a quelli dei paesi vicini, presentano delle caratteristiche singolari e dei passaggi procedurali che rendono unico il rituale tanto da essersi guadagnato l’attenzione di studiosi e antropologici nonché delle Istituzioni locali per la candidatura a patrimonio immateriale dell’umanità da parte dell’UNESCO.
L’aspetto più spettacolare della Panarda di Villavallelonga, almeno attualmente, sta nella quantità delle portate che possono superare anche il numero di cinquanta e nell’etichetta che impone ai commensali di onorare la tavola, consumando tutte le pietanze allestite.
Il consumo rituale del cibo è associato ad una occasione celebrativa e festiva basata su un rapporto di riconciliazione con Sant’Antonio Abate.
L’origine della Panarda di Villavallelonga, secondo la tradizione orale, risale all’assolvimento di un voto per grazia ricevuta da parte della famiglia dei Serafini.
La devozione popolare narra di un proprietario terriero, un certo Mariano Serafini, che, arrivato il periodo della raccolta del grano, non riusciva a trovare mietitori disponibili, perché già tutti impegnati.
Colto da sconforto imprecò dicendo che quel grano lo avrebbe fatto mietere anche al diavolo.
In quel momento comparvero dal nulla degli uomini che si offrirono per la mietitura, raccomandando a Mariano di non mettere il sale nel cibo che avrebbero consumato a metà giornata. Mariano si dimenticò della raccomandazione dei lavoratori e così quando la moglie portò il pranzo i mietitori chiesero se il cibo fosse senza sale.
Questa stranezza sorprese la donna che, facendosi il segno della croce, disse: “Gesù, Giuseppe e Maria che gente è mai questa che mangia senza sale?”
Non aveva ancora terminato l’invocazione che gli uomini fuggirono precipitosamente, scomparendo tra lingue di fuoco. Solo in quel momento Mariano e la moglie si accorsero che le impronte lasciate dai mietitori sul terreno non erano umane, ma somiglianti a quelle di capra, capirono allora che si trattava del diavolo.
La donna invocò Sant’Antonio Abate perché li liberasse e li proteggesse dal demonio e dalle sue tentazioni, promettendo al Santo di distribuire in elemosina, in suo onore, per tutti gli anni a venire e fino alla fine della loro discendenza, il cibo che avrebbero dovuto consumare i mietitori.
Gli aspetti e i riti più interessanti della ricorrenza consistono negli atteggiamenti vigiliari e di preparazione. Il simulacro di Sant’Antonio Abate – statua lignea del ‘600 di recente restauro – è ornato con le cosiddette Corone, costituite da fave, mele, arance, mandarini, fichi secchi e ferratelle tenuti insieme da un filo di corda.
Le Corone vengono realizzate per lo più da anziani come dono benaugurante per i bambini piccoli della famiglia.
Durante la cena, nella quale si radunano amici e parenti  si assiste alla recita del rosario (che in genere fa da apertura alla lunga cena) e alla tipica cantata di Sant’Antonio Abate.
Per quanto riguarda il cibo, la Panarda, si differenzia da un comune banchetto in quanto l’esibizione e il consumo degli alimenti sono cerimonializzati entro il livello simbolico dell’eccesso e dell’ostentazione.
Tra le più svariate portate che possono essere servite durante la lunga cena ve ne sono alcune fisse e irrinunciabili e che assumono una connotazione precisa ed identificante.
Esse sono: brodo con carne di gallina, maccheroni carrati all’uovo con ragù di carne di pecora e detti di Sant’Antonio, pecora alla cottora, fave lessate e condite o crude, frittelle di pasta lievitata, le ferratelle e la frutta con cui sono confezionate le Corone.
Durante la notte le varie Panarde vengono visitate da compagnie di questua e gruppi di suonatori che intonano il canto popolare dedicato al Santo e ai quali viene offerto vino, dolci e denaro.
Nel pomeriggio del 16 gennaio si assiste a sfilate in costume tipico, alla sfilata dei cesti addobbati e alla rappresentazione del miracolo del Santo.
Il 17 gennaio dopo la mattutina solenne benedizione degli animali e del fuoco, la sfilata pomeridiana si anima di maschere brutte e belle, di carri allegorici e dalla caratteristiche Pupazze, dando ufficialmente inizio al Carnevale.
Le maschere brutte (mascar brutt) sono impersonate da uomini infagottati in vecchi abiti, riempiti di paglia, con il volto dipinto di nero, con corna e pelli animali e una cipolla in bocca o nascosto da un sacco che corrono per le strade del Paese trascinando catene, facendo rumore e spaventando i bambini.
Ad essi si contrappongono le maschere belle, solitamente bianche e infiorate.
Di fondamentale importanza per la festa è il rito del fuoco che consiste nell’allestimento di grandi fuochi sparsi lungo le vie del Paese che vengono alimentati per tutta la notte e la sfilata e il ballo delle Pupazze o S’gnora o Bella Donna, grandi strutture in legno, oggi in ferro, rivestite di cartapesta e stoffa che vengono animate e ballate dai giovani dal loro interno.
Nella serata del 17 gennaio vengono bruciate in segno di liberazione, rinnovamento e buon auspicio.
La Favata, costituisce un ulteriore aspetto tipico che contraddistingue la ricorrenza e la tradizione di Villavallelonga e consiste in una distribuzione di fave lessate e condite accompagnate da pane impastato con uova (la Panetta) che alcune famiglie elargiscono all’alba del 17 gennaio e nei giorni precedenti visitando i riceventi casa per casa secondo un preciso criterio di suddivisione delle zone del Paese.
Anche la Favata è ritenuta l’assolvimento di un voto per grazia ricevuta da parte della famiglia dei “Pgnatune” (famiglia dei Bianchi). La devozione popolare racconta di un lupo che rapì dalla culla un bambino e che la madre disperata invocò l’aiuto del Santo, promettendogli di allestire, per grazia ricevuta, e in suo onore, ogni anno e per tutta la vita, la cosiddetta festa a fuoco.
Il voto si sarebbe stato trasmesso in eredità di generazione in generazione e si sarebbe mantenuto fino ad oggi.
Nei giorni che precedono la Festa del 17 gennaio viene ancora preparato un piatto particolare. Si tratta de I frascaréglie (frascarelli): una pasta costituita da farina, uova ed acqua impastate e lavorate in modo da ottenere dei granuli induriti con l’asciugatura e poi cotta lentamente e girata a mò di polenta in acqua salata in grandi cottore, condita sul piatto di portata con abbondante sugo di carne di pecora e formaggio pecorino.
E’ il cibo che nei secoli scorsi, per grazie ricevuta o per l’ottenimento di favori, alcuni nostri avi hanno promesso a Sant’Antonio Abate e che hanno dato in eredità ai loro figli e di seguito, di padre in figlio, è arrivato fino ai nostri giorni.
E’ una tradizione la cui particolarità è quella che il cibo venga distribuito alle famiglie del vicinato o a interi quartieri del Paese

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