Sabato 31 agosto, alle ore 21,15 al Gran teatro Puccini di Torre del Lago, evento speciale del cartellone del LXX Festival dedicato al compositore per i centoventi anni dalla prima dell’opera. Cast prestigioso con Valeria Sepe e al suo fianco Vincenzo Costanzo. Spettacolo firmato dal Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli e dalla regista di Vivien Hewitt, con le scene di Kan Yasuda
Madama Butterfly è un’ opera che apre in nero: la violenza degli archi in avvio è il simbolo di un meccanicismo di un’aggressione che già presagisce il finale, come in tante opere di Giacomo Puccini, basti pensare a Bohème e su tutte Tosca ove Scarpia è presente in partitura dalla prima all’ ultima nota. E’ lo scontro tra due mondi, governati da diversi pensieri su tutto, e dove ne esce, con onore, vincitore quello giapponese. E’ questa l’opera che chiuderà il LXX Festival Puccini di Torre del Lago, un evento speciale che sarà una doppia celebrazione, quella del centenario della scomparsa del compositore, per il quale la direzione, Luigi Ficacci, Paolo Spadaccini, Franco Moretti e Pier Luigi Pizzi, ha portato il genio pucciniano nel mondo, attraverso i suoi ambasciatori che si sono alternati nei concerti internazionali e nei diversi titoli rappresentati nei luoghi del cuore di Puccini, e in contemporanea i 120 anni dalla prima di Madama Butterfly, che andrà in scena il 31 agosto e il 7 settembre. Per questo evento, che rivivrà nella produzione firmata dallo scultore Kan Yasuda, per la regia di Vivien Hewitt con i costumi di Regina Schrecker, datata 2000, anno del centenario della partitura, la direzione artistica ha messo in campo un cast stellare, a cominciare dal Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli, bacchetta consacrata proprio a Giacomo Puccini, che rimase stregato da quest’opera vedendola, appena quindicenne, proprio in questo allestimento, il quale sarà alla testa dell’ orchestra e del coro preparato da Roberto Ardigò, quindi, due le Cio-Cio-San, Valeria Sepe, per la prima serata e Marina Medici per la replica, con Anna Maria Chiuri che darà voce e corpo a Suzuki, mentre nei panni di Pinkerton torna il tenore Vincenzo Costanzo, dopo esser stato l’acclamato Roberto de’ Le Willis inaugurali e Sergio Bologna invece vestirà i panni del console Sharpless. A completamento del cast, ci saranno il Goro di Manuel Pierattelli, il Principe Yamadori di Italo Proferisce, lo Zio Bonzo di Gaetano Triscari, il Commissario Imperiale di Enzo Ying, l’Ufficiale del Registro di Alessandro Ceccarini, mentre a dar voce a Kate Pinkerton sarà Claudia Belluomini e alla Madre, invece, Maria Salvini, e ancora, la Zia sarà interpretata da Greta Buonamici, la Cugina da Irene Celle, Yakusidè da Rocco Sharkey, mentre Dolore avrà il volto del piccolo Nicholas Ori. Il Maestro Jacopo Sipari ha inteso guardare la “sua” opera, concentrandosi sul termine “sacro”, a lui molto caro. Ebbene, è giusto questa la produzione, che ha in scena le opere di Yasuda, animate da quello “spirito” interno, che secondo l’artista attiva la speranza, per andare a leggere una Madama Butterfly e porsi alla ricerca del sacro, non della religiosità, tra le note. Di sacro in scena ci sono le pietre vive di Yasuda e la spada del padre di Butterfly. Yasuda ha fatto sue le parole del suo Maestro dell’accademia romana, Pericle Fazzini “Facendo in modo che lo spirito segua i materiali, posso esprimermi con sincerità. Voglio che le sculture assorbano il mio spirito, le mie convinzioni e le mie emozioni. Smettete di ostinarvi in voi stessi, curate i materiali, e ascoltate loro voce. Riflettete su voi stessi e cercate la forma che volete, poi potete dare vita al materiale”. Questo il messaggio indirizzato anche al pubblico che potrà così attivare, attraverso la propria inventiva, visone e cultura la scena, individuando la casa, il giardino, la casa, lo shosi, quel Giappone che scrive attraverso ideogrammi dipinti. Il segno musicale è iridescente, forse, inafferrabile come goccia di mercurio, varia di continuo e Jacopo Sipari si troverà, quanto la platea, a vivere quello scarto, tra segno, idea e messaggio, seguendo la traccia, l’abisso (di cui parlano Sinopoli e Furtwangler) che Puccini e tutti i suoi interpetri, hanno lasciato, in oltre un secolo, per sempre, in lui. Fa riferimento alla felicità il Maestro Jacopo Sipari, nel video di lancio dell’evento, un discorso che viene da lontano, dai suoi amati classici, impossibile da discernere in qualche parola. Si esce felici ascoltando Puccini, guardando il salto di Tosca, il gioco di morte del Trittico, lo spegnersi di Mimì, quello di Manon o di Liù, o se si assiste alla tragedia di Suor Angelica o della stessa Butterfly? Verrebbe da controbattere d’istinto “no”. Possiamo trasformare quel superficiale “no” in un “si”, solo se discettiamo di vita, felicità e piacere, amore e passioni, conoscenza e cambiamento, politica e giustizia, amicizia, attraverso l’arte, il teatro, la musica. Temi che rimandano all’ universale mutevolezza delle cose umane, alla ricerca del senso della vita e a un sapere capace di offrire spunti per il “buon vivere”, se felicità ci pare una parola troppo grossa o almeno in “consolazione”, per dirla con Boezio. Se si osserva Madama Butterfly, da un punto di vista strettamente musicale, si ravvisano due elementi che conferiscono all’opera singolarità d’impronta: la minuziosa ricerca del “pittoresco”, reso prezioso dall’omaggio di un’orchestra fra le più attente e sagaci dell’intero nostro operismo e l’accentramento dell’emozione su di un unico personaggio. La riproduzione di un colore locale non era invero gran novità per il compositore del secondo e terzo atto di Bohème e del primo e terzo di Tosca; alquanto nuova era, viceversa, la proiezione sulla single person dei riflessi emotivi, per un autore che si giudicava sin da allora peculiarmente atto a definire una poetica dell’ “Impressione”, anzi del dramma, sul quale si intenderà puntare qui a Torre del Lago. Quest’opera, continua ad essere acclamata dai semplici e osteggiata dai pensierosi qual sovrano limite del “sentimental”, è, intanto, al pari e, forse, più di Tosca, calibratissimo saggio di grafia tale da infirmare molti dei successivi europeismi da balera della novella musica nazionale, ma è anche il calco più illustre di quanto Puccini aveva incominciato ad allestire e che varrà, per ogni altra esperienze del dopo: la sedimentazione del recitativo-colloquio, di qui quel “prosastico”, in base a cui, solo, era dato valicare l’impasse del rapporto aria-declamato della vetusta eredità ottocentesca. Butterfly è, forse, la perfetta soluzione a quell’enigma proposto da Verdi nel suo Falstaff, segno che, a differenza del coetaneo fenomeno verista, invischiato nella melodia sino a scoppiarne, il fiuto pucciniano aveva trovato ancora e sempre d’istinto, la chiave giusta col rifiutare la maniera tardo-ottocentesca dell’opera francese e del lascito –Verdi, e col segnalare semmai soltanto nel carattere raffinato dell’armonia e nell’aspra condotta vocale la presenza dell’Europa, e di un’Europa opportunamente debussiana, unitamente a certa premonizione della vocalità espressionista. Il suo Giappone chiassoso e cordiale, popolato in realtà di parenti miserabili e religiosi invasati, si svelerà in totale desolazione nel catatonico wiegenlied, intonato al figlioletto: triste regressione al suo stadio infantile, ove si riduce in polvere l’intero arredo da parata e si passa al più desolato dei monologhi interiori, in cui il sacro sarà rappresentato dalla spada del padre “morto” e dalle pietre vive di Kan Yasuda, levigate e pure, unici mezzi per riacquistare la dignità e il legame pieno con la cultura giapponese, che Butterfly aveva ripudiato e di cui era divenuta rifiuto. Sono sette i “tu” dell’ultimo saluto al figlio, piccolo Iddio, quel sette che rappresenta l’attività pratica come mezzo per completare l’apprendimento e l’insegnamento ovvero conquistare maturità e consapevolezza, che è il numero del “tempio”, deposito di filosofia, verità e saggezza, che indica un ulteriore bisogno di distaccarsi dai beni materiali, per raggiungere l’unione tra corpo e anima. Sette sono le spade della Madonna, simbolo di un sacrificio che non va e non può essere evitato per chiudere l’opera e l’umano passaggio “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”.