In ambito scientifico e tecnologico sempre più ricercatori si interrogano sul ruolo della TV e di altri mezzi di comunicazione (smatphone, tablet e PC in primis) nello sviluppo cognitivo, affettivo, sociale e comportamentale dei bambini. Restano, tuttavia, aperti numerosi interrogativi su come affrontare adeguatamente l’alfabetizzazione mediatica in modo funzionale al benessere dei più piccoli.
La tv, come afferma Dafna Lemish docente del Dipartimento di Comunicazione dell’Università di Tel Aviv, “non è né il messia né il demone dell’infanzia, ma un mezzo importante nella vita di tante persone che ha un grosso potenziale e un’ampia gamma di qualità significative, sia buone sia cattive”.
Negare il suo valore è fuorviante, poiché un’adeguata fruizione è necessaria per la partecipazione critica alla vita civica e culturale, ovvero a una vita informata e creativa. Si è scoperto, ad esempio, che perfino i bambini piccolissimi e quelli che stanno cominciando a parlare possono trarre benefici dalla visione attiva della tv in compagnia dell’adulto che li segue. Il fattore cruciale è proprio questo: la tv non è una compagna di giochi, né uno strumento di intrattenimento, ma soprattutto non è un sostituto di mamma e papà. E’ un mezzo che richiede condivisione per poterne sfruttare appieno le potenzialità ed è responsabilità dei genitori utilizzarlo in modo adeguato.
Ecco allora alcuni consigli pratici su come gestire adeguatamente il rapporto dei bambini con la tv, in modo non solo da salvaguardare la loro integrità psichica, fisica e morale ma soprattutto trasformarlo in modo consapevole e mirato in un momento di regolazione affettiva.
Partiamo, però, da un’importante premessa: è fondamentale saper scegliere programmi adatti alla età. Gran parte dei contenuti televisivi, di ogni genere, possono suscitare ansia nei piccoli spettatori. Non è solo la violenza dei film e delle fiction a turbarli, ma anche episodi di cronaca particolarmente violenti come guerre e disastri naturali. I bambini potrebbero sperimentare paura non solo durante la visione, ma anche dopo, negli incubi notturni. Tuttavia, non c’è da meravigliarsi se fino ad una certa età appaiono più spaventati da programmi immaginari (mostri dei cartoni animati) che dai pericoli reali (ad esempio, notizie sulle calamità naturali in arrivo). Questo comportamento può essere spiegato con i principi della psicologia evolutiva: per avere timore di determinati contenuti, i piccoli telespettatori devono averne esperienza di vita, saper distinguere il reale dall’immaginario e pensare in termini astratti. E’, pertanto, preferibile evitare l’esposizione a contenuti televisivi non adatti ai bambini, ma quando accade, è necessario osservare il linguaggio del corpo e inferire le emozioni provate.
Queste ultime si presentano secondo tre dimensioni: fisiologica, motorio – comportamentale e cognitivo – esperienziale e si esprimono attraverso una forma di comunicazione interpersonale molto complessa.
La capacità di descrivere l’emozione provata e attribuirle l’etichetta corretta (ovvero, ad esempio, “sento tremare le gambe, il cuore batte veloce, sudano le mani, penso che potrebbe accadere qualcosa di brutto, sto sperimentando la PAURA“) è un’abilità che si acquisisce con il tempo, quindi l’aiuto dei genitori è indispensabile. Una volta trovato il nome corretto è fondamentale, ai fini di una corretta regolazione, parlarne con il piccolo e cercare di dare spiegazioni adeguate all’età. Questa reciprocità consente, infatti, di autoregolare le proprie emozioni riconoscendole in sé e negli altri, esprimendole adeguatamente e utilizzandole per la motivazione e il pensiero. Ad ogni modo è più efficace familiarizzare con le emozioni, quando queste compaiono in format specificatamente pensati per l’età evolutiva, come i cartoni animati.
Osservando la mimica e gestualità del piccolo è possibile inferire l’emozione provata.
Ad esempio, se il bambino sorride durante la scena in cui Simba incontra Pumba e Timon, è possibile domandargli se è felice e se crede che anche il piccolo leone lo sia e per quale motivo. Possiamo, poi, commentare la scena, arricchendola di valori positivi, parlando dell’importanza dell’amicizia o di come dopo un avvenimento brutto ci sia sempre, dietro l’angolo, una ripartenza.
La ri-categorizzazione delle emozioni è dunque la capacità del genitore di riconoscere la vera emozione provata dal bambino in un dato momento e attribuire ad essa il nome corretto. Durante lo sviluppo socio-cognitivo, infatti, l’alfabetizzazione emotiva dipende dal modo con cui l’espressione delle emozioni da parte del bambino è abitualmente rispecchiata dagli altri significativi. Dall’infanzia in poi, genitori, educatori e amici, nonché gli strumenti culturali (teatro, cinema, libri, tradizioni) sono inconsapevolmente maestri che continuamente offrono nomi (più o meno adeguati) alle emozioni. Contemporaneamente con le loro reazioni (ad esempio riconoscere nel sorriso la felicità per un evento positivo e rispondendo ad esso con altrettante espressioni di gioia) gli adulti dimostrano implicitamente al piccolo se è in grado di comunicare agli altri le proprie intenzioni e motivazioni. In altre parole il messaggio implicitamente veicolato dal genitore al bambino è “sei in grado di farmi capire che sei felice; l’emozioni che provi è importante; collegandola a un evento positivo sei in grado di creare un nesso causale funzionale tra pensiero ed emozione“. L’importanza di questo processo è ancora più evidente se si considera che esistono sempre più persone con una profonda difficoltà nel contattare le proprie emozioni, nel riconoscerle e metterle in parole; esse soffrono di Alessitimia.
Sono, pertanto, carenti soprattutto nella componente cognitivo-esperenziale e nella comunicazione interpersonale dell’emozione: i livelli fisiologico e motorio-comportamentale rimangono privi di una regolazione cosciente, cognitiva, verbale a livello individuale. Quello che si evidenzia è anche un deficit della possibilità di usare i rapporti interpersonali nella regolazione affettiva ed è soprattutto questa carenza di condivisione sociale che impedisce di identificare le emozioni.
Sicuramente guardare la tv è un’attività che se svolta in modo controllato, interattivo e condiviso (e non passivo e isolato) può fornire una base di comparazione con le esperienze reali di vita del bambino e favorire il suo sviluppo cognitivo e affettivo. Tuttavia, non bisogna dimenticare che è solo uno dei tanti mezzi disponibili.
Psicologo Scolastico
Psicoterapeuta, Dottore di Ricerca in Epidemiologia, Prevenzione e Riabilitazione delle patologie Cronico – Degenerative