È sereno e piove salato

È sereno e piove salato|||
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-É sereno e piove salato!- Suona davvero strana, la perentoria affermazione; come titolo di articolo poi impegna l’autore a entrare subito nel merito e a darne ragione. La frase è rimasta sempre nel limbo della mia memoria, tra le spiritosaggini e le parole melense che talvolta ti capita di sentire nella vita; la udii pronunciare con una sorta di allegria da più di uno tra i miei coetanei compagni di gioco, e restai interdetto. Il sereno, la pioggia, il sale… Trovavo la frase scombinata, come certamente squinternata la trova il lettore e chiunque, se mai la sentisse pronunciare ancora. Ma veniamo al dunque.

Volgevano alla fine gli anni Quaranta del secolo scorso. Noi scolari abitanti nello stesso rione, terminate le lezioni, rientrati a casa e consumata la fetta di pane con del companatico lasciata pronta nell’arca, i grandi al lavoro tutto il giorno in campagna o al bosco, avevamo l’abitudine di riunirci nello slargo chiamato piazza al centro del quartiere e lì decidere come e dove trascorrere il pomeriggio e il resto della giornata per ritirarci, non di rado, all’imbrunire. Era una di quelle giornate di metà primavera o inizio d’autunno, dal cielo sereno ma con sporadiche nuvole vaganti sulla corona di monti che circonda la nostra caratteristica e fertile conca.

Non ricordo quale gioco praticavamo quel giorno, se facevamo ad acchiapparella, a cavallina, o a mazzittĕ (il gioco della lippa) o se, formate due squadre di tre quattro ‘giocatori’ ciascuna, mentre il mazzamurello sollevava foglie fuscelli e polvere e tutto ciò che incontrava nell’avvitarsi e si afflosciava e dileguava all’improvviso, davamo calci al pallone di stracci che Cĕsílĕ si era fatto fare bello dalle sorelle con pezze di vari colori come il vestito di Arlecchino.

Eravamo intenti ad uno di tali giochi quando sul più bello ci sorprese uno scroscio di pioggia che ci inzuppò e come lĕ mazzĕmaréllĕ, passò oltre e si dissolse. Fu allora che sentii esclamare all’unisono da più di uno tra i miei compagni: –É sĕrínĕ i piovĕ salatĕ!-, seguito da una risata, come a canzonare. La faccia e gli abiti bagnati da quell’acquazzone che durò pochi secondi, evidentemente rilasciato da qualche nuvola vagante sulle alture di Aschi là, dalle parti di Pescina o di Sperone e portato fino a noi da una folata di vento, rimasi frastornato a quelle parole. Avevo inteso bene? Il sereno, la pioggia, quel sale che mi rievocava il mai dimenticato piovigginando sale della poesia San Martino, imparata a memoria troppo presto, in seconda terza elementare e, quando interrogato, ripetuta a cantilena senza afferrare il senso di quel sale, perché non eri stato attento alla spiegazione del maestro e la tua lingua era il dialetto.

Sono trascorsi decenni, e quel piove salato mi è rimasto sempre, dico sempre, inesplicabile. Interessato alla ricerca dell’origine dei toponimi delle nostre terre, consultando le mappe dell’IGM e lo storico Catasto di Lecce, redatto nella prima metà del Settecento, per volontà del re Carlo di Borbone pochi anni prima di lasciare il Regno di Napoli al figlio Ferdinando ancora ragazzo, per salire al trono di Spagna, mi si è aperta la mente all’improvviso e il senso della frase mi è apparso chiaro. 

Leggiamo nella mappa dell’IGM, riguardante il Parco Nazionale d’Abruzzo, che sul fianco destro del Vallone Lampazzo c’è il Vallone delle Salere, la Fonte delle Salere, più a valle lo Spineto, e quindi le Sorgenti del fiume Sangro, per non parlare qua e là di Fonte Rita, Fonte la Spina, la Cicĕrana, Acquarilli, Fòntĕ Puzzĕ che si trova in uno sprofondo lassù in alto, e altre ancora.

Nel Catasto di Lecce:

“Giovanni Giacomo Barile, pecoraro, possiede un territorio di coppe nove [1] nel luogo detto Ara dei Lupi giusta l’inculto, e un territorio nel luogo detto Capo di Via Salara (sic) di coppe quattro giusta li beni inculti d’intorno.

Bartolomeo Barile, bracciale, possiede un territorio nel luogo detto Coste di Vada Crito di coppe tre giusta li beni di Sante Signoritti, il Fiume e l’inculto.

Angelo Signoritti possiede un territorio nel luogo detto Vado di Via Salata di coppe cinque Giusta li beni di Bartolomeo Barile e l’inculto”. 

Per consentire al lettore di fare mente locale, accenno al fatto che la località Ara dei Lupi è costituita dalla costa che degrada alla riva sinistra del Fiume, così viene chiamato il corso d’acqua che al disgelo di abbondanti nevicate e con grandi piogge scorre nella valle a sud ovest di Ortucchio, dove sulla destra raccoglie acqua dai rivoli di altre sorgenti e quella, copiosa, dal Pozzo di Forfora. [2] 

Alla luce di quanto appena riportato, il lettore potrebbe domandarsi se a quota intorno a 1400 metri, poco a valle di Gioia Vecchio e del Passo del Diavolo, e a quota più bassa, dimezzata, al margine di quel che fu il Lago, ci siano state miniere, cave o vene di sale, come i termini Vallone delle Salere, Fonte delle Salere, Via Salara Capo di Via Salara, Vado di Via Salata, potrebbero indurre a sospettare. Rifacendomi a quanto sostenuto negli altri articoli pubblicati su questa testata, nei termini su riportati, che hanno origine antichissima, scorgo accadico salā’u, sgorgare, innaffiare, irrigare, bagnare; accadico salā’um, inondare, schizzare ,detto dell’acqua, e in Spineto non le spine, che pur ci sono, ma accadico sīpu, irrigazione, inondazione, semitico ‘ain fiume, e accadico etûm, vicino, confine, poiché è il nome, è l’essere della convergenza di valloni e valli, ed è facile immaginare quanta acqua vi si possa riversare.

É sĕrínĕ i piovĕ salatĕ. È sereno e c’è il bagnato! Chiaro, ora, finalmente.

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[1] La coppa canonica, retaggio del sistema di conteggio per indigitazione, è la misura di superficie “calcolata con la canna di palmi otto in ragione di cento canne per coppa” (dal Catasto di Lecce del 1704), e corrisponde alla superficie di mq.448. Dato il palmo, nel Regno di Napoli, di cm.26,46 si ha: 26,46 x8 = mt 2, 1168 al quadrato = 4,48 x 100 = mq 448. È anche, misura di capacità, recipiente della capienza di 12 kg. di grano, che ricoprono, appunto una superficie di 448 mq.
[2] L’etimologia di Forfora è illustrata nell’articolo “In cammino da Archippe a Passo del Diavolo”.

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