Pescina – Raccontare il viaggio. È forse questo il senso di un film documentario che si dipana come un filamento di lana dal gomitolo della nostra amata coperta abruzzese.
Per voler riportare, a modo nostro, i fatti nostri.
“Abbiamo mai chiesto ai cittadini di raccontare i fatti loro a modo nostro? Non l’abbiamo mai chiesto”.
Così si esprimeva Silone.
Si lasci dunque a ognuno il diritto di riferire i fatti suoi a modo suo.
I dialetti e le imprecazioni della lingua parlata nei campi, come le interviste strascicate in un idioma preso villanamente in prestito dagli inconsapevoli protagonisti, conducono lo spettatore all’interno della matassa e del gomitolo, semplicemente chiamando pane il pane e vino il vino.
La matassa della storia e il gomitolo della microstoria.
Fatti scritti su pietre, archi e portali. Abbasso Torlonia, il cafone vota Scellingo.
Si attraversano così i portali dei fatti nostri.
E sono tre i momenti storici, generati da faccende soltanto apparentemente paesane.
In un batter d’occhio, nulla è stato più come prima.
Tre interruzioni, tre punti di cesura nelle vicende nostrane:
1875, prosciugamento del lago Fucino e concessione perpetua all’Eccellentissima Casa Torlonia del feudo emerso dalle acque;
1915, il vento disastroso di un terremoto, vendetta di un lago rubato, che sconvolge, mietendo decine di migliaia di vittime, la geografia economica e politica della Marsica;
infine, 1951. Il tempo del riscatto?
Il tempo di una riforma agraria che assegna venti coppe di terra a una famiglia tipo di braccianti promettendo nelle leggi una cristiana sopravvivenza.
Ma nel bosco vicino non gorgheggiano gli usignoli e i contadini non vanno al lavoro cantando inni di gioia. I braccianti invadono le strade e le terre stornellando contro Torlonia, mentre sulla piazza di Celano risuonano orribilmente gli spari vigliacchi prezzolati dai potentati agrari.
È così che si svolgono i fatti.
E i canti sono lamenti di lutto e disperazione. Persino un inno alla mietitura, raccolto in Contrada Pignianici a Pescina nel 1958 dalla etnomusicologa Clara Regnoni Macera, presuppone l’appena mutato rapporto tra il bracciante e il padrone. Mentre una tromba, che non è quella di Lazzaro, ma del banditore comunale, ricorda, per ordine del sindaco, dove e come pascolare, quasi a sottolineare il sommesso racconto di Raffaele, che rievoca suo cugino, il giovane Secondino e un dio che è fallito.
Il film documentario, girato nel 1980 con pellicola super 8, malgrado conservi alcune piccole imperfezioni legate alle tecniche utilizzate ai tempi della produzione, come i nodi e i nei nella tessitura artigianale di una coperta abruzzese, rappresenta oggi una testimonianza della condizione sociale ed economica degli eredi dei cafoni siloniani a fronte di un “che fare” che si mostra, a condizioni seppur mutate, sempre attuale, accompagnando lo spettatore attraverso immagini ormai storiche, lamentazioni e geremiadi della tradizione popolare e contadina.
“Videte vos si dolor vester est sicut dolor meus”…
Sono passati nove lustri dalla scomparsa di Ignazio Silone.
Ma ci piace guardare al decimo lustro.
E immaginare un grande contenitore, socchiuso dal più nobile dei nostri portali: il quarto portale. Tutto ancora da scrivere, all’interno del palazzone semidistrutto dalla rivolta sanfedista del 1799.
Tre portali virtuali da attraversare per raccontare, a modo nostro, le nostre cesure storiche fino al punto di svolta, il quarto portale rivolto al futuro.
Molto è già stato fatto in questi nove lustri, è ora di raccogliere e conservare il nostro senso di appartenenza.
E questo film vuol essere un piccolo contributo.
Orazio Mascioli