Sant’Alfonso De’ Liguori e Benedetto Croce. Tra storia e spiritualità

Sant’alfonso De’ Liguori e Benedetto Croce. Tra storia e spiritualità
Sant’alfonso De’ Liguori e Benedetto Croce
Sant’alfonso De’ Liguori e Benedetto Croce

Forse non tutti sanno che la canzone Tu scendi dalle stelle, da sempre la più celebre aria natalizia italiana, fu composta, nella musica e nelle parole, da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori.   Sant’Alfonso Maria de’ Liguori fu originalissimo modello di santo cattolico: grande mistico e sagace organizzatore, instancabile apostolo e profondo studioso, sacerdote straordinariamente moderno e fortemente radicato nella tradizione, uomo di preghiera e di carità operosa, esigente con sé stesso e delicatamente gentile con quanti veniva in contatto.    Qualche pur brevissimo cenno biografico servirà ad inquadrarne la figura. 

Nacque a Napoli il 27 settembre 1696, primo di otto figli di Don Giuseppe, della nobile famiglia de’ Liguori e di Anna Maria Caterina Cavalieri, dei marchesi di Avernia, originari del brindisino. Dalla famiglia ricevette un’educazione cristiana e virile.  Di intelligenza precocissima, si iscrisse giovanissimo all’Università di Napoli, dopo avere, con tutta probabilità, sostenuto un esame di ammissione niente meno che con Giambattista Vico (Napoli,1668-ivi,1744), giurista e filosofo.  Conseguì in breve tempo il dottorato in diritto civile e canonico (in utroque jure, come si diceva a quel tempo).

Iniziò non ancora ventenne la professione di avvocato, ma presto dovette constatare che l’attività forense mal si conciliava con la sua purezza di cuore. Come non capirlo? Fare l’avvocato, soprattutto in una città difficile come Napoli è sempre stata, per un giovane idealista come lui significava doversi districare tra i codicilli, essere un po’ spregiudicato, compiere quelli che gli saranno parsi compromessi quotidiani con la propria coscienza. Alfonso era attratto dalla mistica, non dalle piccole mistificazioni che il mestiere di leguleio a volte sembrava richiedergli; e così, approfittando di una cocente delusione professionale, decise, contro il parere di suo padre, di farsi sacerdote, la vera vocazione alla quale si sentiva da tempo chiamato. Una volta prete, dell’avvocatura gli rimarrà sicuramente la tendenza a calarsi sempre nel punto di vista del prossimo, a consigliarlo per il suo bene, e a difenderlo con la preghiera presso il Giudice Eterno.

Dopo un intenso apostolato nella sua città, a trentasei anni lasciò Napoli per ritirarsi in un eremo benedettino nel Casertano. Di lì a poco fondò la Congregazione del SS. Redentore (i suoi componenti saranno chiamati “Redentoristi” e anche “Liguorini”), il cui raggio di azione, apostolica ed educativa, ben presto travalicò i confini del regno di Napoli. Nominato nel 1762 vescovo di Sant’Agata de’ Goti da papa Clemente XIII (1693-1769), dapprima rinunciò, accettando poi solo per obbedienza. Morì a Nocerina dei Pagani il 1° agosto 1787, all’età di novantuno anni. Fu beatificato da papa Pio VII (1742-1823) nel 1816 e canonizzato nel 1839 da papa Gregorio XVI (1765-1846).

     Tra i suoi moltissimi impegni apostolici, Sant’Alfonso trovò il tempo di scrivere apprezzate opere apologetiche e teologiche che gli valsero il titolo di Dottore della Chiesa. Tra le tante, mi piace ricordarne una, che è divenuta attraverso i secoli un classico dell’ascetica cristiana, Apparecchio alla morte, libro scritto nel 1758, e che per ogni buon cristiano (e non solo) dovrebbe essere un livre de chevet. Non vi si parla certo dell’apparecchio… che vola: “apparecchio”, nel lingua letteraria del XVIII secolo sta, ovviamente, per “preparazione”, preparazione a ricevere quella dama vestita di nero che può farci visita quando meno ce l’aspettiamo, e che può sorprenderci «come l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti», per dirla con una frase, assai evocativa, che al Manzoni fu ispirata da un celebre dramma di William Shakespeare (1564-1616). A tale scopo Sant’Alfonso offre al lettore gli argomenti più atti a scuotere le menti tra quelli scritti da vari autori sul tema della morte, e suggerisce il rimedio più efficace, vale a dire la preghiera.    

Nei primi anni del sacerdozio, a Napoli, con la familiarità che gli era congeniale, il futuro santo prese a predicare all’aria aperta, nella piazza di Sant’Agnello (presso Santa Teresa degli Scalzi), dinanzi alla chiesa della Stella o a quella dei Padri di San Francesco di Paola, o in quartieri popolari come il Mercato e la Conceria. Il suo uditorio abituale era composto di “lazzari”, muratori, barbieri, falegnami, cenciaioli, che a Napoli si chiamavano “saponari”, “facchinelli”; oltre che, possiamo immaginare, da torme di ragazzi, “piccirilli” e “guaglioncelle”: quel popolo minuto col quale quella nobiltà napoletana dalla quale Alfonso proveniva volentieri si mescolava.

Si verificò ben presto che molte persone, toccate dalla parola di Don Alfonso, senza mutar vita esteriormente, ma con Gesù e Maria nel cuore, continuando ad esercitare i loro umili mestieri, quali il vasaio, l’ortolano, il venditore di farina, il venditore di storielle e di libri vecchi, lo stampatore, il fabbricante di fuochi d’artificio; chi spingendo il suo somaro carico di castagne e capperi, chi tenendo in mano una cesta di uova da vendere, (quella colorita umanità che nei secoli scorsi popolava il ventre di Napoli), decise a fare apostolato cristiano, cominciarono a  discutere amabilmente con quanto venissero  a contatto, ad ammonire, a consigliare, « strappando anime all’inferno».    Alfonso Maria de’ Liguori fu «un pastore con l’odore per le pecore», secondo la felice espressione usata qualche anno fa da papa Francesco. In controtendenza rispetto alla mentalità del suo tempo, egli fece capire, con la parola e con gli scritti, che la perfezione cristiana non è esclusiva dei preti, ma possibilità offerta anche ai laici cristiani in virtù del battesimo, concetto questo che sarà ripreso e sviluppato duecento anni dopo dal Concilio Vaticano II.

Benedetto Croce (Pescasseroli 1866-Napoli 1952), filosofo, storico, critico letterario e uomo politico, intellettuale di caratura europea, nella sua vastissima produzione letteraria cita spesso Sant’Alfonso; e benché su di lui non abbia mai scritto in maniera organica, né abbia mancato a volte di criticare qualche suo scritto o talune sue posizioni, mostra di nutrire nei suoi riguardi una grande stima. È disposto perfino a riconoscere al suo apostolato una dimensione mondiale. Niente male per chi si professa agnostico. Atteggiamento, questo del Croce, destinato a fare scuola nel mondo “laico”.

Il grande intellettuale di origine abruzzese si imbatté nella figura del santo nel corso delle sue ricerche erudite sul Seicento e Settecento napoletani, e ne trattò molto acutamente nel saggio Uomini e cose della veccia Italia, nel capitolo dedicato alla vita religiosa nel Settecento nella città partenopea. Del fondatore dei Redentoristi scrisse, tra l’altro, che era «molto simpatico santo napoletano» e «avvocato, gentiluomo, ricco di buon senso e (che non guasta) non fanatico spagnolo, ma giudizioso italiano e napoletano». Intendeva riferirsi, con quest’ultima bonaria annotazione, alla posizione che in tema di morale caratterizza il pensiero teologico alfonsiano, (espresso soprattutto in opere come Thelogia Moralis, del 1753), vale a dire la ripulsa verso ogni astratto rigorismo; ma anche alludeva all’atteggiamento di indulgenza che il santo vescovo sosteneva doversi tenere nell’amministrare il sacramento della Confessione («Non ci vuol molto a dire – osservava con saggia ironia Alfonso – “Va, dannato! Non posso assolverti”», bisognava invece fare in modo che si prendesse in orrore, non la confessione e la penitenza, ma il peccato).

Ci sono poi le canzoncine spirituali, di cui Sant’Alfonso, valente clavicembalista, oltre alle parole, ideò anche la musica, che per i napoletani, si sa, è quasi una seconda lingua. Tra le più note, Ti voglio bene Ninno mio, del 1737; Fermarono i cieli, del 1738; e la celeberrima Tu scendi dalle stelle, composta nel 1754, a Nola secondo alcuni autori, a Deliceto, in Puglia, secondo altri. A lungo si è ritenuto che Quanno nascette Ninno fosse la versione dialettale di Tu scendi dalle stelle. Recenti studi hanno messo in serio dubbio questa attribuzione: la sola musica sarebbe stata ispirata dal santo napoletano.

Il Croce, che come tanti rampolli dell’alta borghesia frequentò a Napoli il collegio dei Barnabiti, fu lambito, negli anni della sua prima giovinezza, da  piccoli propositi di vita devota, forse un leggero soffio di misticismo cui non dovette essere estraneo il fascino delle toccanti melodie alfonsiane, che sicuramente assaporò: un rèfolo, niente di più, che non divenne mai vento, destinato tuttavia a riaffiorare qua e là nella sua opera matura, cui non fa difetto, insieme allo slancio poetico, un senso  religioso della vita, ancorché declinato in una visione laica, come oggi si dice. Sappiamo in ogni caso che non dimenticò mai quei ritmi ingenui, e all’approssimarsi del Natale, complice l’aria odorosa di mandarini e torroni, li rievocava con piacere ai suoi amici e discepoli.  Amava particolarmente i seguenti versi di Quanno nascette Ninno, che canticchiava assai volentieri: «Ninno mio sapuretiello, Rappusciello – d’uva – sì Tu», versi di cui la traduzione in italiano («Bimbo mio (così) saporito, grappoletto d’uva sei tu»), non restituisce appieno la spontanea freschezza d’immagine e la musicalità che l’idioma esprime, ciò che faceva vibrare l’anima di Croce e fargli sentire di trovarsi di fronte ad un gioiello letterario di rara purezza.

C’è da credere che Sant’Alfonso, versato nella musica e sensibile alle arti, nonché attratto dalle bellezze della natura, avrebbe apprezzato la concezione estetica di Croce, come pure avrebbe acconsentito, lui che da mistico cristiano si sentiva contemporaneo dell’eterno, all’idea crociana che la storia è sempre contemporanea, vale a dire che la ricerca sul passato muove sempre da un appassionato impegno nel presente.   Io che scrivo queste modeste note trovo molto intrigante la sincera simpatia che il filosofo di Pescasseroli esprime nei confronti dell’opera del popolare santo napoletano, convinto come sono che quello cristiano è un messaggio di libertà, e che il pensiero liberale, quando è autentico, affonda nel Vangelo la sua radice più profonda.  

Diciamocelo sottovoce: un canto così dolce, così avvolgente, così umanamente divino come Tu scendi dalle stelle poteva essere concepito solo in quel grande teatro a cielo aperto che doveva essere la Napoli delle passate stagioni della storia, per molti secoli nostra capitale e città poetica e filosofica per antonomasia, che poteva apparire a volte a chi la visitava un «paradiso abitato da diavoli», secondo un vecchio e ingeneroso adagio; ma che più spesso è stato un luogo frequentato da santi come Alfonso Maria de’ Liguori, uomo di Dio rigoroso e umanissimo, e da pensatori come Benedetto Croce, studioso illustre di quella città che tanto amò.

Forse non a caso a Napoli Don Benedetto aveva casa di fronte al Monastero di Santa Chiara e a due passi da San Gregorio Armeno, la zona dei presepi. Chissà quante volte, nel tempo di Natale, tra una lettura e l’altra, ravvolto nel suo abituale pastrano, si sarà avvicinato ai vetri della finestra del suo studio per orecchiare la melodia liricamente evocativa trasmessa da quegli zampognari abruzzesi e molisani che, vestiti con gli abiti tradizionali della loro terra, la stessa della famiglia di Croce, intonavano la più celebre delle arie natalizie.

 

   Pare di sentirli…:

Tu scendi dalle stelle

O re del Cielo,

E vieni in una grotta

Al freddo e al gelo,

E vieni in una grotta

Al freddo e al gelo…

O Bambino mio Divino

Io ti vedo qui a tremar,

O Dio Beato

Ah, quanto ti costò

L’avermi amato,

Ah, quanto ti costò

L’avermi amato.

A te che sei del mondo

il creatore

Mancano panni e fuoco

O mio Signore,

Mancano panni e fuoco

O, mio Signore.

Caro eletto Pargoletto

Quanto questa povertà

Più mi innamora,

Giacché ti fece amor

Povero ancora!

Giacché ti fece amor

Povero ancora!

 

di Giuseppe Lalli

 

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