Lo chiamavano “Camoscio d’Abruzzo“, Vito Taccone. Dei camosci, infatti, possedeva la tenacia, la forza fisica, il fiato, il coraggio. L’Abruzzo, poi, se lo portava sulla pelle, negli occhi, nel cuore. Marco Pastonesi, noto giornalista ed editorialista de “La Gazzetta dello Sport“, di lui ha scritto: ” Vito Taccone veniva dalla campagna e dalla montagna, abitava con contadini e pastori, era stato elettricista e telefonista, conviveva con industriali e carcerati. Brigante o mercante, profeta o anacoreta, anarchico o autarchico, campione o corsaro. Comunque furioso. Sapeva tutto, conosceva tutto, parlava di tutto. Era fuoco: falò, incendio, inferno. Ricevuto da Giovanni XXIII, gli dette del tu: Caro Papa, per quale corridore fai il tifo?“.
La schiettezza anche un po’ ruvida, ma pur sempre autentica, di Taccone è tipica del marsicano che era. Perché Vito Taccone era nato ad Avezzano, il centro più grande della Marsica, l’8 maggio del 1940. Nel 2020 avrebbe compiuto 80 anni se un infarto, arrivato improvviso e sfacciato, non se lo fosse portato via prima del tempo, il 15 ottobre 2007, quando Taccone di anni ne aveva solo 67.
Era arrivato al ciclismo professionista nel 1961 e un professionista rimase fino al 1970. Anni in cui Avezzano, la Marsica e tutto l’Abruzzo potevano vantare la presenza di un ciclista capace di fare grandi cose, soprattutto quando si trattava di pedalare sui ripidi tracciati montani. Non a caso vinse la maglia verde del Gran Premio della Montagna nel 1961 e nel 1963 e non a caso lo avevano soprannominato “Camoscio d’Abruzzo”. Poi, nel 1964, anche la partecipazione al prestigioso Tour de France, durante il quale sorse qualche problema e gli vennero rivolte accuse insopportabili.
Aveva un carattere irruento e forte, Taccone, e a quelle strane insinuazioni in merito all’aver causato diverse cadute durante gli arrivi in volata non gli piacquero per niente. Gli dicevano che era spesso scorretto e scomposto. Accumulò frustrazione e rabbia per qualche tempo, poi esplose. Come ha scritto Gianni Ranieri su “La Stampa”, Taccone non fu tenero, soprattutto col ciclista spagnolo Fernando Manzaneque al quale, proprio in quel fatidico Tour de France del 1964, disse: “Chi mi accusa? Devi essere tu, Fernando Manzaneque, con quei connotati da delatore che ti ritrovi“. E subito dopo lo prese a pugni.
Dobbiamo immaginare che la parola “delatore” non fosse proprio nel vocabolario di Taccone. Magari avrà usato qualcosa più simile a “spia” o “traditore”, ma l’epilogo rimane lo stesso: lo picchiò. Da quel momento in poi, Vito Taccone scelse di non prendere più parte alla gara ciclistica più importante di Francia. Ebbe comunque altre soddisfazioni e conquistò altri titoli che lo resero uno dei ciclisti più apprezzati d’Italia.