La situazione socio-economica della Marsica settecentesca attraverso l’esame dei catasti onciari (1749-1754)

Catasto preonciario (1658) e catasto gentilesco (1616-1681)
Catasto preonciario (1658) e catasto gentilesco (1616-1681)

Quanto si può osservare dall’esame dei «catasti onciari», sia sotto l’aspetto strettamente tecnico-giuridico della fonte sia sotto il riguardo metodologico dell’approccio storiografico, è indispensabile per capire la situazione socio-economica di tutta la Marsica durante il periodo in cui il ministro Bernardo Tanucci propose per la prima volta la tassazione di tutte le parti sociali (catasto descrittivo). Naturalmente, come abbiamo già detto, il punto di partenza rimase ancora il calcolo dei «fuochi» del regno che, però, fu utilizzato come base di un nuovo strumento di contribuzione fiscale, rappresentato dal «catasto onciario». Tuttavia, questo innovativo mezzo di apporto prevalentemente istituzionale, si deve inquadrare nella più ampia ricerca condotta per una storia economica del Mezzogiorno. 

Infatti, il catasto onciario (detto anche Carolino) voluto e realizzato nel regno di Napoli appunto al tempo di Carlo di Borbone, consente una visione analitica e approfondita della realtà di ogni comune nel Settecento. In altre parole rappresentò: il quadro demografico, le strutture familiari e urbanistico-abitative, il paesaggio agrario e il suo uso, i rapporti sociali nelle campagne e nelle città, le stratificazioni della popolazione, le trasformazioni delle classi e delle categorie. Ciò equivale a considerare i modi e le forme del possesso della proprietà le cui componenti furono rilevate attentamente durante questa importante operazione fiscale (1). Grazie all’ampia mole di dati e all’omogenea qualità delle fonti, la ricerca sui catasti onciari può prefiggersi di individuare il tessuto essenziale della società meridionale al tramonto dell’età moderna. In tale prospettiva, questo breve saggio (già approfondito in altre sedi), può essere il risultato delle acquisizioni tecnico-formali e metodologiche e, altresì, un vademecum indispensabile per chiunque altro voglia affrontare lo studio della società borbonica del tempo. Consultando il «Patrimonio, Catasti Onciari (Inventario) Regia Camera della Sommaria» (1741-1797) si evincono le date dell’emissione delle nuove leggi disposte con dispaccio del 4 ottobre 1740 e con «Prammatica» del 17 marzo 1741, con tutte le deliberazioni annesse per la compilazione dei documenti. Furono detti «onciari» per la misura in once d’oro utilizzata per qualificare l’imposta dovuta allo Stato: in pratica le dichiarazioni dei singoli cittadini o «rivele» contenevano dati sulle proprietà e sulle attività costituenti le fonti di reddito. Si chiamò «onciario» perché la valutazione dei patrimoni sia immobiliari sia da bestiame o finanziari (censi attivi) era stimata in base all’unità monetaria teorica di riferimento: l’oncia, corrispondeva a sei ducati. Nell’archivio di Stato di Napoli si conserva la serie completa delle dichiarazioni nel fondo della «Regia Camera della Sommaria». In origine, i grandi libri foderati in cartapecora (fatti realizzare da periti agrimensori del posto), si trovavano presso gli archivi dei comuni in varie copie, dove poi furono prelevati. Oggi, alcuni duplicati (comunque restaurati) sono depositati negli archivi storici dei municipi o in quelli provinciali; altri, purtroppo, sono andati perduti durante i periodi bellici oppure distrutti con incendi dolosi. Nei libri dell’onciario (alcuni sono dei veri capolavori di grafica a colori), si attuò, quindi, la prima riforma finanziaria, ispirata a criteri di equità sociale, dove alla tassazione del reddito si sostituì quella del patrimonio, sulle attività manuali e sul testatico (un ducato per ogni fuoco). Il sistema prevedeva un forte ampliamento della base imponibile rispetto ai catasti pre-onciari (come il De appretio del 1467 che fu valido per circa tre secoli) e, per tale ragione, l’individuazione del numero dei fuochi doveva essere quanto più rappresentativa della situazione di ogni comune in quel momento. In generale i fuochi nel catasto erano così classificati: «cittadini abitanti e non abitanti; vedove e vergini; ecclesiastici secolari cittadini; forestieri abitanti laici; ecclesiastici forestieri secolari abitanti; chiese, monasteri e luoghi pii forestieri; forestieri non abitanti laici; forestieri non abitanti ecclesiastici secolari» (2).

Per entrare nel merito della trattazione, specialmente sul rapporto tra le strutture familiari e il reddito dichiarato, prenderemo in esame il catasto onciario di Avezzano (1749-1753), non senza rilevare punti critici che, d’altra parte, possono servire ad alimentare un proficuo dibattito ancora in corso. Il «Duplicato del Catasto Generale della Terra di Avezzano e sua Università formato coll’onciario, collettiva generale, e tassa in conformità della Regia Istituzione pubblicato nell’anno 1749» fu vidimato dai priori: Gennaro Ricci (illetterato), Angelantonio Parlati, Giuseppe Marinacci e Giovanni Valente (cancelliere). Con l’aiuto di questi rilievi, pagina dopo pagina, si possono leggere le varie consistenze patrimoniali dei benestanti avezzanesi. Spicca, tra i nomi più noti, quello di Don Francescantonio Minicucci definito «Nobile vivente di anni 60» che aveva una famiglia composta di nove persone: una cameriera, una serva, un cocchiere, un servitore, tre garzoni e abitava «alla stradella vicino il Monastero di S.Caterina». Tra gli altri facoltosi cittadini troviamo: Don Alessandro Colacicchi, Marcantonio Milone, Alessandro Aloisi, Agostino e Gioacchino Jatosti (notaio), Innocenzo Nicolucci, Alessandro Mattei, don Berardino Toccotelli (sacerdote), Don Croce Mattei, Berardino Mariani (capitano), Berardino Orlandi (giudice), Daniele Nanni (fisico), Domenicantonio Ottaviani e Francescantonio Paolone (notaio). Rilevante, come era prevedibile, il patrimonio degli ecclesiastici, come quello del «Reverendo Capitolo dell’Insigne Collegiata Chiesa di S.Bartolomeo di Avezzano». Oltretutto, il patrimonio del «Venerabile Monastero di S.Caterina» era gestito per il «Governo spirituale, e temporale» dal vicario Celestino Lanzavecchia. I mestieri praticati dal basso ceto erano quelli di: «bracciante, bifolco, sellaio, fornaio, ortolano, calzolaio, artigiano, muratore, barbiere, falegname, sarto, imbastaro» (3).

Nonostante severi controlli, che spesso avevano generato conflitti locali e pratiche di gestione autonoma, il catasto rimase in vigore per secoli nel regno di Napoli e poi nel regno delle Due Sicilie. Le ragioni alla base della sua validità per un lungo periodo, destano ancora oggi un vivo interesse tra gli studiosi, poiché i criteri di valutazione includevano l’intero quadro economico del Regno che facilitò, indubbiamente, l’adozione diffusa del catasto e il desiderio di creare un sistema fiscale più giusto ed equo, rispondente ai precetti contemporanei di legittimità fiscale, finalizzati a garantire una sicura fonte di entrate alle casse dello Stato. Occorre ricordare che, la prima fonte di tassazione del periodo aragonese fu l’imposta sui «focolari», pagata dai comuni in base alla demografia (numero di famiglie e suoi elementi); ora, invece, con l’avvento del Borbone essa fu divisa internamente tra i singoli contribuenti in base al nuovo catasto. D’altronde, la continua necessità di aggiornare tali informazioni, spiega la longevità del catasto onciario nel corso della storia del regno napoletano, addirittura anche dopo le riforme del decennio napoleonico e fino all’unificazione italiana.

NOTE

  1. Per tutta la problematica sono indispensabili le ricerche di: P. Villani, Il Mezzogiorno settecentesco attraverso i catasti onciari, Voll. I e II, Centro Studi «Antonio Genovesi», Per la storia economica e sociale, a c. di M. Mafrici, Edizioni Scientifiche italiane, 1983;  P. Villani, Il catasto di Carlo di Borbone negli studi dell’ultimo ventennio, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», II, 1952, pp. 427-451; Id., Mezzogiorno tra riforme e rivoluzioni, Laterza, Roma-Bari, 1973, pp. 105-153; R. Villari, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari, 1977, pp. 63-83; G.Coniglio, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo V. Amministrazione e vita economica, Esi, Napoli, 1951; G.Da Molin, La famiglia nel passato. Strutture familiari nel Regno di Napoli in età moderna, Cacucci, Bari 1990; M.Mafrici (a cura di), Il Mezzogiorno settecentesco attraverso i catasti onciari, II Atti del Convegno di Studi (Salerno 10-12 aprile 1984), Esi, Napoli 1986; I.Zilli, Imposta diretta e debito pubblico nel Regno di Napoli, Esi, Napoli, 1990.
  2. P.Nardone, Caratteri demografici e fonti di Stato nel Mezzogiorno preunitario, Università “G.D’Annunzio” Chieti, SIDeS, «Popolazione e Storia» 1-2/ 2011, p.105.
  3. Sezione di Archivio di Stato di Avezzano, Catasto onciario di Avezzano (1749-1780). Occorre precisare che il «Don» era un titolo riservato a gentiluomini e a persone di riguardo di ogni paese della Marsica, anche se in origine, in Spagna e in Portogallo spettava solo al re, ai principi di sangue e ai grandi del regno.

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