È opinione comune che il canto popolare sia da identificarsi con il canto regionale, le cui caratteristiche fondamentali sarebbero le seguenti:
1) testo in dialetto;
2) una particolare cadenza musicale e un particolare ritmo, che scaturirebbero generalmente da tradizioni proprie di una determinata regione (ad es., i cori alpini tipici del Nord-Italia, il trallalero ligure, la tarantella napoletana, la saltarella marchigiana o abruzzese, il canto a bei della Toscana, i mottettus sardi, gli stornelli laziali, le villotte friulane, ecc.).
C’è, tuttavia, da rilevare che non tutti i canti «regionali» possono essere definiti autenticamente popolari, cosí come non tutti i canti popolari contengono elementi propri di una specifica regione. Ne deriva, di conseguenza, che il cosiddetto «canto popolare» ha bisogno di un’altra definizione, sulla quale peró l’accordo è assai difficile, anche e soprattutto in una regione come l’Abruzzo. Non è nostra intenzione entrare nel merito della polemica, che — nata giá nella seconda metá dell’Ottocento al tempo del Finamore, del De Nino, del Bruni, e protrattasi per tutta la prima metá del XX secolo — ha avuto recentemente punte assai aspre in alcuni scontri giornalistici, che hanno visto come protagonisti studiosi del calibro di Ottaviano Giannangeli, Franco Cercone, Andrea Jannamorelli e altri ancora.
Limitiamoci, pertanto, ad alcune rapide citazioni, che, se non esauriscono il problema, offrono tuttavia una sia pur pallida idea di quali siano stati e siano ancor oggi i termini del dibattito. Scrive il Giannangeli che «forse oggi piú nessuno in Abruzzo penserebbe ai canti popolari (almeno nel rivestimento delle arie e non semplicemente nei testi) se i cori (che, come entitá artistico-sociali, in Abruzzo stanno quasi sostituendo la banda) non li avessero riproposti nella loro elaborazione (ovviamente dovuta a musicisti); non solo; ma non li avessero indirettamente propagandati attraverso quelle elaborazioni piú autonome e profonde […] che sono appunto — quando vengono fatte da gente che se ne intende, che ha scienza, ma anche gusto nativo, e soprattutto amore e passione alla regione — le canzoni di autore».
Il Cercone non è d’accordo con il suo illustre interlocutore, e lo dice a chiare note quando afferma che «Giannangeli non chiarisce quali siano questi ultimi [e cioé, i “modi popolari” ai quali l’autore aderirebbe “criticamente”, N.d.A.], ma da quanto afferma si è autorizzati a risalire ai motivi delle canzoni d’autore, perché i primi [popolari] vi si rispecchiano criticamente. Il che non è. Il nostro canto popolare, come ben ha sintetizzato Mario Santucci, lungi dall’essere una esercitazione di ceti sociali privilegiati, si qualifica essenzialmente come preciso connotato delle masse popolari, in quanto inserite in un contesto economico-sociale precario; ed io aggiungo: psicologicamente precario, che alimenta tuttora uno stato d’angoscia emergente soprattutto nelle orazioni in onore di determinati santi, da considerarsi veri e propri canti di morte rituale».
La questione, dunque, si complica; e diventa ancora piú ingarbugliata allorquando qualcuno — come Andrea Jannamorelli — ripropone la questione sotto il profilo della distinzione tra «canto popolare» e «canto dialettale» o, quel che è peggio, come hanno fatto numerosi altri, tra «canto popolare» e «canto popolareggiante».
Se volessimo tentare di sintetizzare al massimo i contributi dei maggiori esperti in materia, dovremmo elencare alcune condizioni, sine qua non è impossibile parlare di canto popolare: a) prevalenza e persistenza di una cultura orale rispetto a quella scritta; b) maggiore contatto con la natura; c) mancanza di mezzi di produzione; d) per la creativitá, prevalenza della langue sulla parole (criteri del Circolo di Praga); e) persistenza di orientamenti che possono essere definiti superstiziosi.
Solo se si verificano queste condizioni — scrive uno dei massimi esperti del settore, l’etnologo e musicologo Diego Carpitella — possiamo dire di trovarci di fronte alla cosiddetta «fascia folklorica». In parole piú semplici — e senza le contorsioni linguistiche degli «esperti» — diciamo che il canto popolare è generalmente un canto trasmesso oralmente, legato alla «funzione» (allo scopo per il quale nasce) e mai identico a se stesso (molto importanti ne sono le varianti), senza preoccupazioni di perfezionismo e di eleganze formali, senza strumenti o, tutt’al piú, con l’accompagnamento di strumenti rudimentali (ad es., coperchi di pentole, posate, campanacci, fischietti, zufoli, rudimentali zampogne, magari anche qualche chitarra, il «ddú-bbotte», la cornetta, il violino, purché usati senza eccessive pretese perfezionistiche).
In tal caso, pertanto, i canti eseguiti dai cori folkloristici non potrebbero mai essere considerati autentici canti popolari; cosí come non si potrebbe piú parlare di canto popolare in nessun altro caso, dato che oggi la gente non canta piú «in funzione», ma solo per divertirsi o per fare spettacolo. (E tali sono, per noi, anche quelle manifestazioni politiche di massa, nelle quali il canto di protesta — da molti inteso come il piú genuino canto popolare dei nostri giorni — assolve quasi esclusivamente una funzione di «comunicazione inavvertita», simile sotto molti aspetti a quella dei mass-media piú alienanti o delle macchine organizzative e propagandistiche dei partiti politici).
Dunque, per concludere, o facciamo a meno, oggi, di continuare a parlare di canto popolare, mettendoci l’anima in pace e convincendoci che il canto del popolo non esiste piú (e, forse, non è mai esistito); oppure accettiamo la realtá così come essa e, e parliamo del canto tout-court, non certamente di quello di S.Remo o di Radio Stereo Uno, bensí di quello, certamente piú genuino e piú socializzante, della tradizione regionale, della religiositá popolare, delle sagre paesane, dei cori folkloristici, delle riunioni di amici, delle nottate all’osteria.
Tra i canti eseguiti dai gruppi folkloristici si puó, d’altro lato, fare una duplice distinzione:
1) vi sono canti eseguiti secondo la tecnica del ricalco (cercando, cioè, di rispettare il piú possibile il canto originario, che si presume sia d’origine popolare);
2) altri canti, invece, sono quelli d’autore, per i quali l’Abruzzo ormai offre un’abbondantissima produzione, compresa la Marsica (dalla quale, peró, solo qualche raro esemplare è riuscito a superare i confini del territorio marsicano — ad esempio, La lupinara del poeta tagliacozzano Luigi Venturini — e a farsi conoscere in un ambito piú specificamente regionale).
Tra i gruppi folkloristici marsicani — almeno quelli operanti dagli anni Ottanta ad oggi — ve ne sono alcuni che si sono indirizzati esclusivamente verso canzoni d’autore o, tutt’al piú, verso i motivi piú noti della tradizione canora regionale (il coro Agora 81 di Capistrello, il Complesso Talia di Tagliacozzo, il Coro folk Rio di Roccavivi, il complesso corale di S.Benedetto dei Marsi); altri, invece, hanno eseguito qualche operazione di ricalco, come il coro Venturini di Tagliacozzo, che non solo ha tentato il recupero di vecchi canti popolari della zona (attraverso la mediazione poetica di Luigi Venturini, riscoperta attraverso la «memoria» di alcuni anziani di Tagliacozzo), ma ha ricostruito (con estrema correttezza «filologica») i canti dei pellegrinaggi, le «litanie» delle feste religiose, le strofe di «questua» del S.Antonio Abate, le «invettive» contadine contro i pastori, le danze e i ritmi dell’arcaica condizione contadina. Infine, tra le operazioni di «recupero» di una tradizione canora ormai tramontata, vi sono da ricordare almeno due manifestazioni recenti, la scartocciata di Collelongo e il S.Giovanni Battista (ma anche il S.Antonio Abate) di Celano, nelle quali la gente del paese, riunita attorno al fuoco, canta le antiche ballate o le tradizionali stornellate, con l’inevitabile contaminazione tra il locale e il forestiero, tra il vecchio e il nuovo, ma con lo spirito di sempre, che è quello della partecipazione corale e spontanea ad una manifestazione propiziatoria e socializzante.
In alcuni paesi, a tal proposito, sarebbe possibile (attraverso un’onesta azione di ricerca sul campo e di registrazione) recuperare ancora qualcosa di ció che apparteneva alla cultura pre-tecnologica di qualche decennio fa. Nel 1982, ad esempio, fu possibile riunire, in casa del parroco di Poggio Filippo (frazione di Tagliacozzo) quattro anziane contadine, di cui si propone, in questa sede, uno stralcio di quanto da loro detto e cantato in quell’occasione:
«Qua ce sta ‘na canzone di Quaresima, dei tempi di Quaresima, pure abbastanza bella, sull’Addolorata…
Ah, questa dell’Addulurata…,
la Settimana Santa, eh sì, dopo la Via Crucis se canta…:
Stava Maria dolente
senza respiro e voce
mentre pendeva in Croce
del mondo il Redentor.
E nel fatale istante
crudo materno affetto…
eh, non me ne recordo piú! Ah, sí, ecco:
Stava Maria dolente
ai piedi della Croce
[…?] languente
il caro suo Signor,
il caro suo Signor!
O Madre di dolore
fa’ che pianga con te
questo mio cuore!
Fa’ che pianga con te
questo mio cuore!
Ed ecco una filastrocca:
Eccola eccola ‘na fata
che dal cielo m’è calata
è calata la sirena
questo cuore quanto pena.
Quando, poi, facevamo la mietitura, i canti erano tanti;
A méte a méte
ca lo ráne è fatto
non se remmúcchia piú lo ranetúrco.
Téngo n’amore non sáccio la casa
e sta pé no vicolítto
’nanzi la chiesa!
La voce…, la voce è della mietitura, questa…, eh, è tutta róbba della mietitura… Mamma mé, quante ne sémo fatte! Eh pé caritá, era n’allegria, che Dio…! Quando se passéa che stémmo a méte, che c’ingollémmo víi canístri…
Quando ce vójjo bbene a chi gradisce
a chi la voce mia la riconosce.
E questo è no stornéllo a dispétto:
E te credevi de marciá a cavallo
e si remasto colla sélla ncójjo.
E la mamma del mio amore è na gran donna
e me sse fa mill’anni che […] la mamma.
E la mamma del mio amore possa fiorire
e cómme j’árbero la nótte di Natale.
Questi só tutti stornélli di…, alle serenate… La scartocciáta, ficémmo ajjo cucuzzaro, che tte pózzo íce, le canzóni comme jo mazzolin de fiori…, cantémmo quasci de tutto, insomma! Peró i stornélli erano sémpre quelli, quando de na voce e quando de n’atra! E sìnti st’atro canto della metitura:
E questi quattro giorni dello méte
e ti dó licenzia tanto di parlare.
E me l’ha mandato a dí e la Madonna
e che ‘n Paradiso se sóna e se canta.
A Dio se cche fanno li denari
e fanno staccá le due felice suore!
E pó j sta puri na canzoncína:
E se ti fa male lo so
e se ti fa male lo so
e se ti fa male lo so
fatti j’ombrello.
E l’ombrello ti fa fá
e l’ombrello ti fa fá
e l’ombrello ti fa fá
la cera gialla.
E la scorza de limó
e la scorza de limó
e la scorza de limó
è tua sorella.
Ma pure quest’atra era bella:
E sotto al ponte
ci passa l’acqua,
dove si lava la mattina.
Bianca roscia e morettina
bianca e roscia ritorneró,
bianca e roscia morettina
bianca e roscia ritorneró.
Tutti li sogni
fussero veri
di riavere un bambinello.
Il destino non sará mai bello
di potermi chiamar mammá.
Il destino non sará mai bello
di potermi chiamar mammá! ».
Di fronte a questi canti delle anziane contadine di Poggio Filippo, dunque, possiamo veramente dire di trovarci davanti all’autentico canto popolare? Non sappiamo: nemmeno in questo caso, infatti, mancano le obiezioni. Che canto popolare — si dice da qualcuno — è mai quello che la gente ha imparato in altre regioni, e ha importato nella propria, senza adattarlo alle situazioni e alle esigenze locali? Gran parte degli stornelli e delle «incanate» usate dalle contadine di Poggio Filippo (e di molti altri paesi della Marsica) sono di derivazione laziale e perfino toscana; le ballate provengono dal Nord-Italia, quasi sicuramente apprese e fatte proprie dai giovani marsicani andati a prestar servizio militare in Veneto o in Piemonte o nel Trentino. Molto spesso, inoltre, i pastori che si recavano in Puglia introducevano i canti di laggiú, traducendoli nel dialetto abruzzese e, tutt’al piú, storpiando quelle parole che, nel testo originario, apparivano loro incomprensibili.
E ancora: è piú «canto popolare» quello nato nel passato, in una «funzione» specifica, che aveva senso allora ed oggi non significa piú nulla; oppure è vero «canto popolare» quello che — pur creato da un autore «colto» — è passato ad esprimere l’ansia, la gioia, gli stati d’animo e i sentimenti attuali di tutto un popolo? Si prenda, quale esempio, il canto di S.Antonio Abate in uso attualmente a Collelongo, la notte tra il 16 e il 17 gennaio di ogni anno. Sentiamo cosa ne pensa in proposito Walter Cianciusi, noto ed apprezzato studioso del folklore collelonghese: «[…] per quanto riguarda il canto di S.Antonio, io purtroppo debbo dirlo: abolirei il canto che attualmente si esercita, quello cioè costruito appositamente per il S.Antonio di Collelongo, che snatura, non s’inserisce nel quadro della tradizione non soltanto locale. […]. Il canto di S.Antonio va invece conservato nella vecchia forma: perché si riferisce ad un ambiente, ad una storia, ad una tradizione, che è diversa come ambiente da altri ambienti dello stesso Abruzzo oppure delle altre regioni. Proporrei, perció, l’abolizione di alcuni canti, e il ripristino di quelli tradizionali».
Tutto giusto, ció che dice Walter Cianciusi. Ma come si fa ad abolire quei canti che ormai il popolo ha fatto suoi? Occorrerebbe un’azione di forza, una costrizione; così come occorrerebbe un intervento dall’alto (e, quindi, tutt’altro che «popolare») per ripristinare le vecchie forme e le vecchie canzoni.
Noi diciamo che l’antica canzone di S.Antonio (o, meglio, la «rasione de Sant’Antonnie Abbate») era funzionale ad un’epoca. Oggi nessuno, nemmeno a Collelongo, si metterebbe piú a cantare i seguenti versi:
«Na moje e ‘ne marite se misere ‘n camine
Facéme ‘ne viagge e ‘n core sia».
Invece, tutta la gente del paese canta e s’entusiasma alle parole del nuovo canto, quello creato dal maestro Pasquale Cianciusi e diffuso dai ciclostilati del Comitato dei festeggiamenti, soprattutto laddove esso suona:
«Benedíc’ quant’ song
le famijje d’ Ch’llongh
pur’ tutt’ i Ch’ll’nghes
ch’ n’ stann’ a ’l paes».
Ad ogni buon conto, lasciando da parte la polemica e la discussione — che potrebbero risultare solo sterili disquisizioni teoriche — vediamo cos’era nel passato il canto nella Marsica. Quando, dove e quali canzoni si cantavano nella Marsica del bel tempo passato, in un’epoca cioè in cui non c’erano ancora né radio private, né juke-box, né sofisticati impianti stereofonici? La risposta è semplice: tutte le occasioni erano buone per dare fiato alla propria voce e per strimpellare un qualche motivetto paesano.
Capodanno, Carnevale, S.Antonio Abate, la mietitura, la scartocciatura delle pannocchie, la vendemmia, la Pasqua, il Natale…: c’era sempre qualche gruppo di giovanotti che, accompagnandosi con la chitarra, rallegrava le tristi e malinconiche serate dei nostri paesi di montagna, così come numerose erano le fanciulle che cantavano per rendere meno pesante e meno noiosa la loro quotidiana fatica. Il canto suscitava allegria in molti; ma c’era spesso qualcuno che, irascibile e poco amante del chiasso, brontolava, protestava e, se necessario, picchiava con le mani o col bastone i poveri, pacifici e sprovveduti cantori: «La notte del mercoledí sedici del passato Gennaro su le tre ore in circa, uscIl cantando per Aschi mia patria con Pietro Ettorre, Luigi Ferrante, Pietro d’Angelo e Bartolomeo Gentile, e andassimo a cantare sotto la casa di Troselina, che sta poco lontana da quella di Giorgio e Salvatore fratelli de JorIls. Terminatosi di cantare da Luigi Ferrante e Bartolomeo Gentile sotto detta casa, io e Pietro d’Angelo ci separassimo da’ sopradetti compagni per tornarcene a casa […], quando viddi il detto Giorgio portare per un braccio a forza il suo fratello chiamato Salvatore, dicendoli: Via a casa, birbante; ed egli, il Salvatore, diceva: Lasciami, che voglio far vedere chi son io a quel guappo di Pietro; e cosí dicendo se ne andarono nella sua propria casa. E Pietro Ettorre mi disse, che aveva ricevuta una bastonata nel dito d’una mano, e che la chitarra era restata stonata dal colpo».
Insomma, si era trattato di una rissa vera e propria, scoppiata nel 1771 ad Aschi, un paesino della Marsica, certamente per l’insofferenza di quel tale Salvatore de JorIls nei confronti dei quattro giovani cantori della panetta di S.Antonio. E risse, anche abbastanza sanguinose, dovevano essere molto frequenti, nella Marsica del passato, per colpa del canto, se perfino i Vescovi furono costretti ad intervenire, molto spesso, con speciali Editti, che vietavano di andar cantando la sera o la notte: «Noi, Benedetto Mattei, vescovo de’ Marsi proibiamo sotto gravi pene di andar di notte sonando o cantando per il pubblico e incarichiamo i nostri Vicari Foranei che, sapendone la contravenzione di questo ordine, ne debbano prendere subito l’informo, e trasmetterlo al nostro Vicario Generale per l’ulteriore castigo».
Molte volte, nei processi criminali dal Seicento all’Ottocento sono allegati i testi di alcune canzoni «popolari», che venivano a rappresentare prove molto gravi della insubordinazione e della immoralitá dell’imputato. Ecco, ad esempio, una delle canzoni per le quali, nel 1758, venne denunciato dalla popolazione di Capistrello il chierico Giustino di Pietro:
«Bella signora, non ti pigliar pena
se il tuo molino piú non macína,
impréstamelo a me ‘na settimana,
con quattro giorni lo metto in farina».
E, molto piú audace, la canzone seguente, ugualmente annotata nel medesimo fascicolo di quel processo criminale:
«Se amor non fosse, il mondo non sarria
e gli uomini sarebbero animali,
fra poco tempo il mondo pererìa
e in un momento saressímo mortali.
Cosí seguitando l’amor dolce e da bene,
moltiplicando il mondo si mantiene».
Accusato di essere stato non solo il trascrittore, ma persino l’autore di queste «immonde» canzoni, il povero Giustino di Pietro è costretto a fare il nome del vero responsabile: l’autore delle canzoni, che i giovani contadini di Capistrello cantavano durante le calde notti estive lungo le strade del paese, non era altri che il signor Gio.Battista Lusi, rampollo illustre di una delle piú antiche e nobili famiglie del posto. E solo per questo il povero Giustino poté salvarsi da una pena piú severa. Ad ogni modo, chi cantava — anche quando riusciva ad evitare i rigori della legge — acquistava spesso cattiva fama presso la popolazione del luogo: lo si definiva, infatti, un «giovinastro», e le brave mamme di famiglia non gli avrebbero mai dato volentieri in sposa la loro «honorata» figliola.
Perfino i canti di chiesa potevano diventare motivo di scandalo, se talvolta (come pur succedeva) assumevano il colore e il tono delle canzoni che si usano nelle bettole o durante la mietitura, come accadde nel 1896 a Celano, dove la gente del luogo denunció il prevosto per il seguente motivo: «Le canzoni sono di divozione, ma la musica loro adattata, della quale vantasi egli stesso autore, non la ispirano punto, essendo del genere di quella che si sente in campagna in tempo di mietitura, o nelle bettole, quando sono riboccanti di beoni».
Insomma, cantare diventava davvero un’impresa; difficile e pericolosa! E ció, forse, spiega come mai si siano trasmessi così pochi canti tradizionali fino ai giorni nostri, tanto che i gruppi folkloristici sono spesso costretti a ricorrere alle solite «canzoni abruzzesi», con tanto di firma e di… perfetta armonizzazione musicale! Eppure, si cantava. Rischi o non rischi, si cantava. E, quando veniva a mancare l’autore o il compositore, si ricorreva alle canzoni importate, quelle cioè che gli uomini avevano ascoltato e appreso nelle Puglie, o nella Campagna Romana, o (piú recentemente) sulle trincee della prima e della seconda guerra mondiale. Ecco, quindi, il perché della presenza, ancor oggi, nel ricordo popolare, di canti piemontesi, o veneti, o laziali, o pugliesi, che passano ormai per autentici canti locali.
Ma leggiamo alcune testimonianze. Il celanese Ercole Di Renzo, noto studioso di tradizioni popolari, accenna a quelle canzoni che i suoi concittadini cantano in determinate occasioni, cui giá prima avevamo fatto riferimento (la sera di S.Antonio Abate; la notte del 24 giugno, festa di S.Giovanni Battista), canzoni che il Di Renzo ritiene nate proprio nella sua Celano, come quella del richiamo insistente che il fidanzato rivolge alla sua bella:
«I mó vé, i mó vé, mó se ne va
revittene sola sola
non me te fa’ chiamá!
È l’appello, il richiamo, l’invito alla fidanzata di uscire, di andargli incontro, perché questo immediatamente la chiama spesso e, come una volta era tabú (con le prime ore della sera), era proibito alle donne di uscire di casa. E il fidanzato, appunto, attraverso questo canto accorato, che si ripete poi nei faló, invocava l’uscita della bella […]».
Il collelonghese Walter Cianciusi, giá precedentemente ricordato, è convinto dell’origine «forestiera» di molti canti che, nel suo paese, ancor oggi si cantano in occasione della rinnovata «scartocciata»: «[…] Di questi canti popolari di questa festa, di questa scartocciata, la maggior parte sono quelli relativi all’emigrazione: Mamma mamma dammi cento lire […]». Ma anche il Cianciusi ritiene che almeno qualcuno di questi canti sia «indigeno», nato cioè proprio a Collelongo: «E peró tra questi ce n’è uno, che è in dialetto: questo Mariteme sta all’America […]:
Mariteme sta all’America e non me scrive,
non saccio che mancanza ce so’ fatta —
dice la donna, e poi peró riconosce che la mancanza che ce so’ fatta è questa: che, de ‘ne fije, ne retrove sette […]».
Comunque, i canti di una volta (indigeni o forestieri) sono ormai quasi completamente scomparsi, perché è finita la funzione per la quale essi venivano usati. Proprio come dice il prof.Alfonso Di Nola a proposito delle «incanate»:
«Quando si parla d’incanata, noi ci riferiamo a un fenomeno quasi completamente trascorso, obliterato, appartenente soltanto alla storia del folklore. Perché l’incanata termina nel momento in cui termina il sistema di produzione cerealicola affidata all’opera diretta dell’uomo […]».
Ma che cosa erano queste famose, e pur poco conosciute «incanate»? È sempre il prof.Di Nola che parla: «[…] giá la terminologia, che accompagna il fenomeno del-l’incanata, nella memoria della gente è una terminologia che si è modificata: non è piú connessa all’esperienza diretta, è una memoria soltanto. Per essere precisi, la situazione era questa: all’origine dell’incanata, probabilmente, è soltanto un gridare. Lo stesso termine incanata (ed è l’ipotesi del grandissimo studioso abruzzese Pansa) viene da gridare come un cane. Ma il termine corrispondente, giá nell’Abruzzo marittimo basso, verso il Vastese, diviene (ed è poi correntissimo in tutto il territorio del Molise e a Napoli)…, diviene alluccata, dal verbo meridionale alluccare, che significa gridare in modo forte e scomposto, ed è anche de-gli animali».
Le quattro donne di Poggio Filippo, giá da noi abbondantemente citate, così descrivevano il loro modo di gridare (o cantare):
«Ci avete li capelli fatti a molla,
dentro c’è il pidocchiello che ci balla!
Ci avete ‘sti capelli broccolati
[…]. Mannaggia, perché quisti dopo venivano tutti a raggiro, a giro! Tutti a dispetto, quanno se cantava a dispetto uno co’ gl’altri, insomma! Quisti so’ tutti stornelli che…, alle serenate, alla scartocciata, ficémmo allo cucuzzaro, ficémmo a…, come te pozzo díce, le canzoni come Un mazzolin de fiori o Do’ va’ bbella bambina?. Cantémmo quasi de tutto, insomma! Peró gli stornelli erano sempre quelli!».
Dalla testimonianza appena letta, vengono fuori due elementi degni di essere sottolineati: il primo, la confusione che si faceva tra incanate e stornelli («di tutto si cantava», dicevano le donne di cui sopra: e, quindi, anche le incanate appartenevano a questo «tutto», che serviva per stare in allegria); il secondo, proprio l’allegria o, meglio, il ricordo bello e nostalgico dei tempi in cui si lavorava, ma non si sentiva né il peso della fatica, né la sofferenza di una condizione di disagio e, spesso, di miseria («Pe’ caritá, era ‘n’allegria, che Dio!… quanno se passava, insomma, che stéano a méte…, e quei canestri!!!»).
Soffermiamoci, per un attimo, sul primo punto, la cui rilevanza, piú che morale o sociale, ci sembra «tecnica» e culturale in senso lato: e, cioè, sulla presenza dello stornello nelle campagne della Marsica. Sentiamo ancora una volta il prof.Alfonso Di Nola: «[…] molte volte, poi, lo stesso stornello (del quale hanno parlato le anziane contadine di Poggio Filippo, ricordando i tempi felici per il canto, ma infelici per il lavoro, della mie-titura a mano), lo stesso stornello è un termine assolutamente non meridionale: è un termine che proviene dalla Toscana e passa attraverso il Lazio. E, dalle cose che so io, molto spesso quelli che vengono chiamati stornelli sono canti d’incanata».
Hanno certamente ragione coloro che ritengono ormai non piú reperibili le testimonianze autentiche dell’antica cultura contadina, se non in qualche piú unico che raro portatore. Tuttavia, anche i documenti (scritti e orali), che lo storico o il folklorista possono ancora rintracciare, servono se non altro a ricostruire il processo di trasformazione e, per conseguenza, di distruzione di quella cultura. Ed anche le cosiddette «mistificazioni» dei cori folkloristici possono avere la loro importanza e la loro funzione positiva, perché — come scrive Ottaviano Giannangeli — anche nelle canzoni d’autore «il popolo abruzzese riconosce immediatamente la canzone che sembra estratta dal suo seno da quella importata e comunque allotria». E — all’opposto — il contadino che registra oggi la propria voce davanti al microfono, non è piú lo stesso contadino che cantava in campagna, liberamente e nel momento stesso in cui svolgeva la propria funzione.
Una funzione, d’altra parte, sulla quale si potrebbero ugualmente esprimere dubbi o perplessitá: è mai esistita, infatti, una funzione contadina cosí autonoma dal resto della vita (e, quindi, anche dai rapporti con altre componenti della societá, comprese quelle di stampo urbano o borghese), da non consentire anche ai contadini piú autentici di subire l’influenza della cultura urbana o da non modificare, essi stessi, la cultura urbana? In termini piú semplici, è mai esistito un contadino che non abbia mai avuto rapporti con coloro che contadini non erano, tanto da rimanere il «puro e buon selvaggio» di rousseauiana memoria?
Un esempio attuale di commistione di contadino e urbano, di tradizionale e moderno, è la panarda che «l’avvocato” (un contadino-pastore) di Villavallelonga organizza ogni anno per amici e conoscenti, una specie di cena collettiva, durante la quale i canti diventano un elemento determinante, quasi sacrale:
«I canti si cominciano appena fatti a manciare…, appena fatti a manciare: primo di passá il caffé, si dice il rosario, come ho detto, il santo rosario, ció che stanno tutti assettati a tavola. Come è finito il rosario, io o mia sorella o mia nipote cantiamo la canzona del santo».
Comunque, non si cantava soltanto nei campi o durante le celebrazioni religiose. Spesso il canto assumeva la sua funzione piú importante proprio nei momenti di riposo, per strada o all’osteria; e, soprattutto, diventava determinante nei pellegrinaggi, così come ci ricorda — con una pagina di incantevole fascino poetico — lo scrittore collelonghese Walter Cianciusi: «La mattina del venerdí santo, per tanti anni della mia fanciullezza, fui svegliato in ora antelucana da un coro di voci lontane, poi sempre piú vicine e prossime. Erano voci di donne che scendevano dal monte che da noi si chiama proprio Calvario e sul quale è posta la Croce.
È un ricordo dolcissimo, questo, carico di pathos, per me […], del suono delle voci, che prima sembravano corde di arpa appena sfiorate in accordi lievissimi, come le ultime note di una ninna-nanna cantata con voce sommessa nel punto in cui il bambino perde la coscienza e s’addorme e poi, al contrario, pian piano prendevano forza e si individuavano in motivi di canto sacro, con voci di terzo, di quinto, di settimo accordo […]». (W. CIANCIUSI, Collelongo, Teramo 1972).