Terremoto del 1915. I soccorsi

TTesti tratti dal libro 13 gennaio 1915 Il terremoto della Marsica
(Testi a cura di Enzo Gentile*)

” Il lutto che ci addolora non è lutto di individui o di famiglie: è lutto di stirpe e di razza “. Questa considerazione, contenuta nella lettera pastorale che Mons. Pio Marcello Bagnoli, Vescovo dei Marsi, inviò al clero ed al popolo della sua diocesi per la quaresima del 1915, definisce con rara efficacia cià che avvenne, in Avezzano e nell’intera Marsica, all’alba del 13 gennaio 1915 (BAGNOLI, 1915). Attraverso le notizie che gli erano giunte dalle parrocchie, esistenti in tutti i paesi colpiti dal tremendo sisma, Mons. Bagnoli, già da quattro anni Vescovo di quella Diocesi, era forse in grado di disporre, più di chiunque altro, di notizie precise sul numero dei morti, dei feriti e dei dispersi, cosi come delle chiese e delle case distrutte.

D’altra parte, la Chiesa cattolica, attraverso vie diverse e qualche volta persino contrastanti fra di loro, fu partecipe attentissima delle necessità che i superstiti di quel disastro – pochi purtroppo! – ebbero in termini di cure, di distribuzione di cibo, di ricovero per gli orfani, di riorganizzazione di un minimo di vita civile. L’inviato speciale della Nazione, Rosario Javicoli, in un servizio pubblicato il 14 gennaio, testimonia dell’immediatezza di tale atteggiamento della Chiesa, scrivendo: ” Possiamo assicurare che alle 11,30 S.S. Benedetto XV è uscito dal Vaticano e si è recato al Lazzaretto di Santa Maria ove ha visitato un centinaio di feriti arrivati dai borghi del disastro. Il Pontefice si è trattenuto a colloquio con i feriti, apprendendo i particolari del1’immane disastro esortandoli ad avere fiducia nella misericordia del Signore. Ha anche distribuito i soccorsi. Benedetto XV si è recato al Lazzaretto attraversando il cavalcavia interno che dal Vaticano conduce a Santa Maria, attraversando S. Pietro.

Le porte della chiesa erano ermeticamente chiuse. Il servizio di pubblica sicurezza era disimpegnato dal commissario comm. Bertini. La notizia è confermata dal commissariato di pubblica sicurezza. Il Papa ha parlato con un giovanetto quattordicenne moribondo ed ha distribuito medaglie ai feriti. Nel Lazzaretto una donna ha partorito un bambino morto ” (JAvIcou, 1915). Ci sarebbe forse da chiedersi se a qualcuno sia venuto mai in mente di censire anche qualche bambino nato morto nel Lazzaretto di S. Maria, fra le vittime del terremoto. Ma per tornare al significato straordinario di quella visita papale, in tempi in cui quasi ci si meraviglia quando il Papa rinuncia ad uno dei suoi viaggi per il mondo, è bene riportare il commento che La Nazione, aggiungeva a quanto scritto dal suo corrispondente a Roma: ” L’uscita di S.S. dal Vaticano è ritenuto uno di quei fattori storici di capitale importanza, che da soli valgono a definire più che uno stato d’animo, tutta un’epoca.

Il Sommo Pontefice mosso da un impeto di carità ha sorpassato in un attimo sopra ogni considerazione politica e di opportunità ed ha cancellato con un ardito e nuovo atto le cui conseguenze sono ancora incommensurabili, il cumulo di superfetazioni che avevano creato una specie di leggenda insuperabile “. Rosario Javicoli era uno dei tanti inviati che, in treno, durante la notte tra il 13 ed il 14 gennaio, raggiunsero Tagliacozzo, l’ultima stazione in qualche modo ancora praticabile, della ferrovia che da Roma raggiungeva la Marsica. L’impatto con la realtà che si trovarono dinanzi fu drammatico: gli appelli dei superstiti che fuggivano senza meta, la immediata consapevolezza che i soccorsi facevano registrare spaventosi ritardi, il numero già accertato delle vittime ed il calcolo tragico di quelle che si potevano ancora aggiungere presentarono ai loro occhi un panorama assolutamente desolato e desolante.

” Un altro segno – scrive ancora Javicoli – che siamo vicini al luogo della catastrofe più grande (Avezzano n.d.r.) ce l’offrono alcuni giovanotti che vedendoci e scambiandoci per … autorità costituite, ci investono poco garbatamente: – Sono 10 ore che migliaia e migliaia di persone sono sotto le macerie; dieci ore che c’è gente senza casa, senza nulla e a Roma non si provvede e da Roma non si manda nulla “. Già, l’intervento di Roma! Fu tempestivo come sostennero, poi, le autorità di governo, o tragicamente lento come affermano i critici? La risposta, forse, sta nel polemico discorso che l’On. Erminio Sipari, cugino di Benedetto Croce e deputato del Collegio Pescina-Pescasseroli, tenne in Parlamento il 29 marzo 1915, durante la seduta convocata per convertire in legge i diciassette decreti emanati dal governo dopo il terremoto.

L’attacco di Sipari era rivolto direttamente a Salandra che ricopriva, oltre alla carica di Presidente del Consiglio, anche quella di Ministro degli Interni. ” Quella mattina – esordi Sipari – il sisma fu nitidamente avvertito anche qui a Roma. Il professore Palazzo, direttore dell’ufficio di metereologia e di geodinamica del Collegio Romano, calcolando secondo gli insegnamenti della scienza, che le onde sismiche si propagano in forma concentrica alla velocità di quindici chilometri al secondo ed essendo esse state avvertite nella capitale dopo sei secondi, ne dedusse che l’epicentro doveva essere collocato a circa cento chilometri di distanza. Lo dimostra la comunicazione, che, in tale senso, egli fece immediatamente al Ministro dell’Interno. Ma vi è di più: il Ministro delle Poste, ricavando dalla esperienza del disastro di Messina e della “settimana rossa” che, allorquando una zona rimane a lungo priva di comunicazioni telegrafiche, ciò è dovuto o al terremoto o alla rivoluzione, dispose immediatamente che si accertasse quale regione fosse rimasta appunto priva di contatti telegrafici e telefonici con la Capitale.

Le sole zone che non risposero alle pur reiterate chiamate furono la Marsica e la Ciociaria. Se si aggiunge – proseguiva Sipari – che nessun movente era stato mai segnalato, perché potesse essere avvalorata l’ipotesi di una rivoluzione, tale silenzio non poteva che confermare quella di un terremoto già segnalata dal Professor Palazzo. Perché allora tanti ritardi. Sembra che il Governo si sia attardato ad aspettare una conferma del sottoprefetto della zona. Una conferenza che il poverino non poté dare per il semplice fatto che era rimasto miseramente sepolto sotto le macerie insieme a undicimila suoi concittadini ” (Sn ARI, 1915). Vale forse la pena di richiamare qualche altro passo del discorso di Sipari, in seguito al quale, solo per poco, non entrò in crisi il Governo Salandra, allo scopo di mettere in evidenza come, effettivamente, a livello centrale vi fosse stata una sicura sottovalutazione di ciò che era accaduto: ” Io mi son fatta una domanda: perché non furono inviati in ricognizione degli aviatori militari, tanto più che il cielo era limpido e che la trasvolata sarebbe stata favorita dalla completa assenza di vento. Del resta i nostri ufficiali ne fanno tante a carattere di esercitazione che sarebbero stati ben felici di offrire la loro perizia per uno scopo cosi umanitario. Io non so se qualcuno ci abbia pensato.

Quel che è certo è che né a Roma né a Vigna di Valle era disponibile alcun dirigibile. Ma sarebbe bastato che ve ne fosse stato uno nell’hangar di Jesi: un telegramma avrebbe potuto farlo alzare in volo alle dieci, in due ore sarebbe giunto sul luogo del disastro per rilevare, anche da un’altezza di mille metri, che in quella mia regione non era rimasto altro che un immenso ammasso di macerie. Con un’altra ora di volo avrebbe potuto raggiungere Roma. Ne consegue che il Governo avrebbe potuto avere tutte le tragiche conferenze che desiderava entro le ore quattordici dello stesso giorno del disastro. Per giunta, nessuno pensò a verificare se ve ne fossero al poligono di A’ettuno: ve ne erano almeno due, ciascuno a due posti e sicuramente in condizioni da poter essere messi immediatamente in azione. Io, però, posso riferire qualcosa di ancora più grave, addirittura di angosciante: il Governo non aveva bisogno né di aeroplani, né di dirigibili, perché l’annunzio della catastrofe era già pervenuto al Ministero dell’Interno per telegrafo, da uno dei centri meno colpiti, perché non collocati lungo l’asse di frattura del sisma, che era stato abbastanza agevolmente ripristinata.

Ed il pro-sindaco di Tagliacozzo, esattamente alle ore 10, si pensò di spedire un telegramma, che diceva testualmente: “ore 7,48 avvenuto forte terremoto in seguito al quale molti paesi risultano distrutti. Molte vittime. Molte persone sepolte, macerie. Interrotto ogni tipo di comunicazione. Urgono soccorsi” ” (SIPARI, 1915). Tra le proteste dei sostenitori di Salandra, capeggiati dal deputato Carboni, Sipari aggiunse imperterrito: ” Secondo un’intervista rilasciata ad alcuni giornali da un funzionario delle ferrovie, abbiamo potuto apprendere, che, alla stazione di Roma, erano stati approntati, per diretta iniziativa dei responsabili dello scalo, due treni speciali. Non vedendo, però, giungere nessun soccorso, né di soldati, né di sanità, detti responsabili mandarono un loro funzionario dal prefetto di Roma a ricordare che era avvenuto un terremoto, che aveva interessato zone molto vaste e che, se voleva mandare aiuti, erano appunto pronti due treni.

Ma questo funzionario pare si sia sentito rispondere che non vi era alcun bisogno di mandare aiuti da Roma, giacché sarebbero potuti giungere più agevolmente da altre zone ” (SIPARi, 1915). Insomma, il giovane deputato abruzzese, con quel discorso, qui riassunto solo nei suoi punti essenziali, distrusse senza possibilità di appello la tesi, sostenuta dal Governo, che i ritardi erano stati determinati dal fatto che le notizie sulla gravità della situazione erano giunte a Salandra solo verso le ore diciannove del 13 gennaio. Sipari, fra l’altro, gli chiese come mai il padre Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni, era stato avvertito con tanto ritardo, mentre il figlio ingegnere era partito con lui stesso a mezzogiorno da Roma. Ma che nei Palazzi romani la scossa fosse stata avvertita in maniera netta, è confermato dalla seguente notizia apparsa su La Nazione del 13 gennaio: ” A Montecitorio la forte scossa è stata sentita da tutti i funzionari che si trovavano nella Carnera. Il Comm. Nuvoloni, direttore dell’ufficio questura, ha subito dato ordine per un’urgente verifica di tutto il Palazzo. Infatti alcuni danni, sebbene lievi, sono stati arrecati dal terremoto all’enorme mole secentesca.

Nell’aula, appena il Comm. Nuvoloni è entrato, ha trovato il banco del governo quasi completamente sepolto sotto un cumulo di macerie. Infatti i tetti del Palazzo erano crollati e alcuni grossi massi di calce e pietra sono precipitati fragorosamente sulla vetrata dell’aula ” (La Nazione, 1915 a). Sarebbe certo interessante mettere insieme tutte le notizie che i giornali dell’epoca pubblicarono e dalle quali si può ricavare come, in effetti, al di là dell’opera dei volontari, non vi fu soccorso immediato da parte del Governo. Si tratterebbe, però di esplorare un filone di ricerca troppo specifico rispetto agli intenti della presente nota (vedi al proposito BERANGER, 1999 e GALADINI et al., 1999, in questo volume). Tuttavia, appare utile e significativo riportare, traendola dal Giornale d’Italia di martedi 19 gennaio, la seguente breve corrispondenza di Ferdinando Pompei, sotto il titolo ” La protesta della popolazione di Celano “. ” Mentre si leggono notizie dei più piccoli centri, nessuna se ne rileva del nostro comune che pur conta undicimila abitanti e che è quasi interamente distrutto. Le nostre condizioni sono terribili, poiché i fabbricati sono in gran parte caduti ed i rimanenti sono inabitabili; non abbiamo baracche, né vestimenta, né viveri e si sta allo scoperto sotto un cielo divenuto minaccioso. Alzo la voce dolorante e fremente contro questo stato di cose, poiché anche noi abbiamo diritto alla pietà del mondo intero, di cui non siamo disprezzabile parte. Qui ci sono oltre mille morti ed un numero stragrande di feriti, ma i soccorsi sono scarsissimi. Spero che questa mia protesta trovi ospitalità nel ‘Giornale d’Italia’; essa esprime il senso di rivolta di tutta una popolazione abbandonata ” (POMPEI, 1915).

Il grido di dolore del povero Ferdinando Pompei, giungeva ben sei giorni dopo quella tremenda alba di distruzione! Del resto, NARDELLI (1915) su Il Giornale d’Italia, in data 22 gennaio, scriveva: ” Sono tornato mercoledi 20 corrente sul luogo del disastro (ad Avezzano n.d.r.). Molto è stato fatto, ma molto rimane ancora da fare. Dopo una settimana dal disastro, non c’è ancora in funzione una sola cucina economica e non una baracca che ripari dal freddo intenso qualcuno di questi poveretti “. E fra quei ” poveretti ” vi erano alcuni cittadini, uomini e donne, vecchi e bambini, che erano stati estratti dalle macerie ancora dopo sei giorni dal tremendo boato che, per lo più, li aveva colti nel sonno. Sarebbe, però, ingeneroso non ricordare che nel Paese, il senso della solidarietà si manifestò con una immediatezza che forse non aveva precedenti. Già il 14 gennaio, ad esempio, partendo da Venezia e da Mestre, un gruppo di irredentisti, si ritrovò ad Ancona, per proseguire in treno e con mezzi automobilistici di fortuna, verso le zone devastate.

Di esso facevano parte Giovanni Giurati, Vittorio Fresco, Giuseppe Sillani, Renato Timeus, Giovanni Majer, Mario Ukmar, Giuseppe Muller, Agide Sallustrio, Nazario Sauro, Diomede Benco, Gabriele Foschiatti e tanti altri. Durante la loro marcia di awicinarnento ad Avezzano ” La Capitale della Marsica che appare come capitale del disastro “, come afferma Giurati in un suo libro autobiografico, quei particolarissimi viaggiatori registrano scene e sensazioni davero impressionanti: ” larghe ondate di rovine invadenti le vie e i campi circostanti: intimità denudate dall’improvviso crollo di pareti; cadaveri insepolti a mucchi; il pestifero leggo della putrefazione dovunque; e su quella distruzione livellatrice qualche gruppo di superstiti, la testa o gli arti sommariamente bendati; lamenti, invocazioni e il canto funebre di una donna discinta presso le macerie di quella ch’era stata la sua casa… Alla stazione di Cerchio, una folla în tumulto: donne, uomini, vecchi, bambini, tutti laceri, alcuni pallidi per la fame e per le sofferenze, altri congestionati dalla collera, molti insanguinati, molti fasciati con luridii cenci. Tutti gridano, vogliono impedirne la partenza (del treno n.d.r.). Le donne depongono gli infanti sulle rotaie, davanti alla locomotiva sbuffante. Appena si notano i miei legionari e si diffonde la voce che son triestini, il clamore raddoppia: ‘Ah, volete la guerra? A’oi l’abbiamo già la guerra! Questa, questa è la guerra! ‘ Ma l’invettiva non ci trattiene dal compiere il nostro dovere. Senza esitare, scendiamo lungo il marciapiede, coricati su barelle improvvisate, il dottor Aordio si china su di essi e li medica con pietosa prontezza… E bastarono quei pochi gesti di carità doverosa, perché il treno, dopo circa un’ora, ripartisse senza più proteste, ma soltanto fra invocazioni angosciose alle quali dai finestrini voci rotte dai singhiozzi rispondevano con le più fraterne promesse… Verso le undici il treno si fermò alla stazione di Avezzano.

La capitale della Marsica ci apparve come capitale del disastro … Non potrà mai dimenticare il cadavere del capostazione, che si diceva fosse un uomo di alta statura, ridotto e stranamente deforme… ” (Givmrr, 1930). Il gruppo degli irredentisti, di cui, come s’è già ricordato, faceva parte anche Nazario Sauro, fu destinato immediatamente dal Generale Guicciardi alla località di Cese dove non aveva ” potuto mandare ancora nessuno “. Nel diario di Diomede Benco si legge la seguente annotazione sul loro arrivo: ” Giunti sul posto, constatarono che nessuna casa si era salvata, che il sindaco e quindici dei sedici consiglieri comunali erano periti, che su 1300 abitanti solo 230 erano sopravvissuti, che nessuna autorità civile o militare era presente ” (GIUmI’I, 1930). Nazario Sauro – che, come gli fu rimproverato durante il processo a cui lo sottoposero gli austriaci prima di giustiziarlo appena un anno dopo, si adattò all’umile lavoro di cucinare per i superstiti quel poco che il gruppo di cui faceva parte riusciva a procurarsi – rinvenne, fra le macerie, un dono da portare ai suoi figli: si trattava del Quaderno n. 2 del nuovo metodo di composizione della scuola primaria che il Direttore Didattico Prof. Primo Guadagno aveva predisposto per la prima classe maschile e femminile, sotto il titolo ” Vedo-Penso-Scrivo “.

La bella copertina, raffigurante due ragazzi, un maschio ed una femmina, seduti ad un tavolo a fare i compiti, gli aveva provocato subito 1a nostalgia per i figli lasciati a Venezia e pensò che, una volta tornato a casa, avrebbe cercato di ottenere dall’editore Remo Sandroni, libraio della Real Casa, gli altri diciassette quaderni che mancavano per completare la collana, per far si che i suoi figli si esercitassero al meglio nell’uso dell’amata lingua italiana. Come è noto, non gli riuscì mai di dedicarsi ad impegni cosi dolcemente familiari e, nella biblioteca di uno dei suoi figli, il Comandante Libero Sauro, è restato solo quel quaderno, catalogato con il n’ 1030-Cat.L. Gli irredentisti non furono, ovviamente, i soli volontari che accorsero sul luogo del disastro: praticamente da ogni regione giunse un gruppo che le Autorità Militari e la Croce Rossa cercarono di impiegare al meglio, prodigandosi, a volte, più degli esasperati superstiti, nei confronti dei quali, un maggiore di nome Graziani, emanò addirittura un editto illiberale e repressivo da applicarsi in caso di mancata partecipazione all’opera di scavo delle macerie.

<*> Associazione Teatrale Abruzzese e Molisana, L’Aquila.

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