Procedendo verso Civita di Oricola, lungo la Via Civita, possiamo ancora oggi osservare, sulla sinistra, una vecchia fabbrica di laterizi: è la fornace Nitoglia, il fischio delle cui sirene per molti anni è riecheggiato attraverso la piana del Cavaliere, giungendo ai paesi circostanti.
La fornace (costruita dal sig. Curzio Nitoglia) si presenta come un insieme eterogeneo di fabbricati che si sono andati via via aggiungendo al primo edificio, in funzione delle esigenze emergenti nel corso degli anni: è costituita da tre corpi di fabbrica principali, realizzati in tempi diversi, raccordati tra loro da varie strutture in ferro ed eternit. Essa sorge sul sito dei due primitivi forni Nitoglia (costruiti nei primi decenni del secolo e tuttora esistenti) del tipo tradizionale, a ciclo di cottura discontinuo, detto “a Pignone” (1). La fornace di tipo Hoffmann (2) venne realizzata intorno al 1927: era costituita da un solo piano, coperto da tetto a falde inclinate e possedeva ampi spazi esterni in cui avveniva la maggior parte delle fasi di lavorazione dei laterizi; l’argilla veniva infatti prelevata dalla cava (generalmente in novembre) e trasportata nei piazzali esterni alla fornace dove era suddivisa in cumuli che venivano lasciati sotto l’effetto degli agenti atmosferici per un lungo periodo (fino a primavera), al fine di favorirne il disgregamento.
Si procedeva quindi alla frantumazione, dopodiché l’argilla veniva passata attraverso vari setacci, forniti di reti metalliche sempre più fitte, bagnata e lasciata riposare; seguivano una lavorazione manuale e, finalmente, la “formatura” (3). I laterizi crudi venivano quindi lasciati essiccare all’aperto, erigendo con essi dei muriccioli disposti in maniera tale da permettere il passaggio dell’aria, cotti e posti di nuovo all’esterno “in gambetta” (4) per l’essiccamento. Il forno dei Nitoglia possedeva 16 camere di cottura consecutive alle quali si accedeva tramite altrettante aperture con archi a tutto sesto. “L’accensione del forno -racconta il signor Antonio Arcangeli di Civita, fuochista per ben 33 anni nella fornace- avveniva attraverso uno sportello in cui venivano introdotte le fascine; si continuava poi ad introdurre legna ed entro 2 giorni si raggiungeva una temperatura di circa 900°C; il forno una volta acceso lavorava a ciclo continuo e dovevamo fare attenzione che non si spegnesse se non quando c’era bisogno di riparazioni (accadde che rimase acceso per 5 anni consecutivi!); successivamente veniva alimentato dall’alto da delle fessure dette “buccolotti” nelle quali noi fuochisti immettevamo il combustibile (lignite) tramite delle macchinette che lo sparavano a pressione nelle camere di cottura, dove bruciava all’istante; verificavamo poi, osservando il colore dei mattoni, che ci fosse fuoco sufficiente, stabilendo quando la cottura era ultimata e fosse ora di spostare il fuoco.
Grazie al tiraggio della ciminiera, attraverso un sistema di valvole che collegava le varie camere, il fuoco avanzava nelle camere successive nelle quali il calore ed i gas derivati dalla combustione avevano già riscaldato il materiale, facilitandone in tal modo la cottura. Una volta avvenuta la cottura e diminuita la temperatura (che rimaneva comunque intorno ai 60-70 °C), gli infornatori procedevano a prelevare il materiale cotto e ad effettuare un nuovo carico, ponendo attenzione a disporre i laterizi in modo tale che si creassero spazi sufficienti per il passaggio dell’aria calda (ciò garantiva la maggiore uniformità di cottura possibile) e provvedendo a tamponare gli accessi alle camere con muri provvisori di mattoni e malta”.
La produzione, interamente manuale, venne sospesa durante il periodo bellico e riprese a buon ritmo nel 1946; fu introdotta in questi anni una rudimentale mattoniera (5), primo accenno ad una meccanizzazione della produzione, cui era collegata una taglierina manovrata manualmente. È però soprattutto a partire dal 1950 che si ebbe un notevole incremento della produzione grazie ad una nuova mattoniera dotata di meccanismi per mescolare l’argilla e di una taglierina automatica. Intorno al 1955, come ricorda il signor Rino Nitoglia, la fornace cambiò fisionomia: venne infatti realizzato il progetto di sopraelevazione di tre piani che portò ad un notevole miglioramento della struttura organizzativa della produzione. Al piano terra, si trovavano il forno (era lo stesso del 1927, alimentato con lignite o sansa), di tipo Hoffmann e una mattoniera per la produzione di mattoni, pignatte, forati tavelloni … (rientrarono nella produzione Nitoglia a partire dal 1956 fino al termine dell’attività anche le canalette Acea per la protezione dei cavi elettrici).
I tre piani superiori erano adibiti ad essiccatoi: tutto il materiale da cuocere veniva trasferito nelle camere di essiccazione ( posto sui “telarini” in legno che per molti anni furono realizzati dal signor Rino), dove rimaneva per una settimana circa (le marsigliesi necessitavano invece di 15 gg.); continuarono ad essere posti “in gambetta”, coperti da stuoini, nel piazzale esterno, esclusivamente i mattoni. All’ultimo piano aveva luogo pure la produzione delle marsigliesi e dei vasi affidata alle donne. La produzione, in questo periodo, era parzialmente meccanizzata ed erano impiegati una settantina di operai, di cui 25 donne. Gli anni ‘60 costituirono un punto di svolta per la fornace che subì un notevole ampliamento: vennero realizzati un secondo edificio per l’alloggiamento di un “forno a doppio cunicolo parallelo” (6), un silos ed una sala macchine. La struttura organizzativa della produzione subì un ulteriore miglioramento, raggiungendo un assetto che rese la fornace altamente competitiva. Venne introdotto un nuovo tipo di impastatrice detta “degassatrice” che, eliminando l’aria interposta fra le singole particelle di argilla, conferiva ai prodotti maggiore uniformità e compattezza.
L’introduzione di un secondo forno (entrambi i forni erano alimentati in questo periodo ad olio) determinò un notevole aumento del volume di produzione nonché una maggiore varietà della stessa; il numero degli operai salì tra il ‘62 ed il ‘65 a 150 e la diffusione dei laterizi Nitoglia era vastissima, tanto che la produzione non riusciva a soddisfare la richiesta del mercato, essendo inoltre ottima la qualità degli stessi grazie al tipo di argilla usato, privo di salnitro (7). Proprio in questo periodo prese piede l’ usanza, da parte dei signori Nitoglia, di organizzare annualmente delle gite (molti ne ricordano particolar mente una a Pompei) per tutti i dipendenti, a proprie spese, per ripagarli della propria dedizione ad un lavoro che negli ultimi tempi aveva raggiunto ritmi davvero pressanti. Un fattore di notevole rilevanza negli anni ‘70 fu la relizzazione dell’autostrada A24 Roma-L’Aquila, inaugurata nel 1970: i collegamenti con Roma e L’Aquila divennero notevolmente più veloci e Carsoli aprì le porte all’industrializzazione che in questa zona era, all’epoca, agevolata dalla Cassa del Mezzogiorno.
Ne seguì un forte impulso anche per l’attività produttiva della stessa fornace che, in questo periodo, raggiunse il suo apice; ai tipi di laterizi Nitoglia si aggiunse una importante nuova produzione: quella dei solai in laterocemento. Verso la fine degli anni ‘70 (a quasi un ventennio dal precedente ampliamento) si rese necessario un nuovo adeguamento strutturale e tecnologico della fornace. Venne presentato ed approvato (giugno ‘79) il progetto per un “piano di ripristino per l’ammodernamento della fornace di laterizi s.r.l. di Curzio Nitoglia con sede in Cività di Oricola (AQ)”. I lavori vennero eseguiti e la produzione riprese a pieno ritmo. Tuttavia di lì a pochi anni si rese necessaria una ristrutturazione tecnologica per mantenere competitivi i livelli di produzione: era necessaria la sostituzione dell’ormai superato forno Hoffmann con un nuovo forno continuo a Tunnel (8), eliminando alcuni fabbricati e trasformandone altri. In data 29/10/1983 fu approvato il “Progetto di ristrutturazione ed ampliamento dello stabilimento di laterizi in Civita di Oricola”; successivamente (in data 29/2/1984) venne presentata al comune una “Variante al progetto” che però non fu approvata.
La fornace chiuse qualche tempo dopo la presentazione della Variante: era già da qualche anno in mano ai figli (Simone e Fulvio) di Curzio che però decisero di non investire ulteriormente nell’attività. La fornace Nitoglia è stato il primo insediamento industriale del carseolano: per molti anni ha costituito l’elemento propulsore dell’economia del luogo garantendo inoltre l’occupazione a molti. Alcune delle persone che vi hanno lavorato raccontano di un lavoro molto duro ma gratificante soprattutto dal punto di vista dei rapporti umani, con i compagni e con i proprietari: pare proprio che fosse una sorta di grande famiglia. Nonostante la fornace versi attualmente in uno stato di abbandono (al suo interno non vi è più traccia dei forni e le strutture stanno subendo danni causati dagli agenti atmosferici) non è troppo tardi per pensarne un recupero. Questo edificio ha infatti un valore storico molto forte per la zona, oltre ad essere un “pezzo” di Archeologia Industriale; a renderlo ulteriormente interessante è la posizione che occupa: sorge alle porte dell’agglomerato urbano dell’antica colonia di Carsioli i cui resti sono ancora interrati (per i “soliti” problemi della tutela degli scavi) e i cui reperti sono in parte a Tuscania, in un deposito del Museo di Villa Giulia e in parte (decisamente più consistente) nelle sale espositive e nei magazzini del Museo Archeologico Nazionale di Chieti.
La fornace possiede dimensioni interne e spazi esterni ottimali per realizzare una struttura polifunzionale in grado di contenere tutta una serie di servizi di cui la zona è carente (biblioteca, sale conferenze, aree espositive per esposizioni permanenti, temporanee, fiere…) che possano fungere da “polo di attrazione”; si trova infatti in una posizione strategica essendo ottimamente collegata a Roma, L’Aquila e Pescara tramite l’autostrada Roma-L’Aquila e la ferrovia Roma-Pescara, infrastrutture di collegamento che passano proprio davanti alla fornace. Sicuramente, grazie ad un attento riuso che miri al recupero dei corpi di fabbrica principali si riuscirebbe a conservare questa importante memoria storica della nostra terra e al tempo stesso a dare nuova vitalità ad un’area in cui tanto si è investito per lo sviluppo industriale e molto poco per la valorizzazione e l’accrescimento del patrimonio culturale.
NOTE