IL FUCINO (Quando re, Abati e Conti decidevano sulla pesca nel Fucino)

Ci si domanda spesso, qui nel Fucino, chi siamo e da dove veniamo. La domanda è stata riproposta recentemente anche in occasione delle celebrazioni del centenario del prosciugamento del Fucino. Sono stati fatti discorsi, pubblicati libri, allestiti e proiettati film. Alla domanda sono state date diverse risposte, ma nessuno ha ricordato il Fucino dei pescatori o, meglio, i pescatori del Fucino. Occorre far conoscere compiutamente la storia dei nostri avi. Far conoscere! Ed io mi ci provo perché, stando a quel che so, non esistono pubblicazioni relative alle condizioni di vita dei paesi ripuari, più specificamente su come erano regolati i diritti feudali e le prestazioni della pesca a cominciare dalla fine del terzo secolo del secondo millennio. Tanto per cominciare vi dirò che il lago Fucino verso il 1280 ebbe uno dei suoi più potenti feudatari: l’abate del tempio di S. Maria della Vittoria in Scurcola Marsicana.

Vi dirò anche che il feudo di questo abate sorse per volere di Carlo d’Angiò, vincitore della battaglia dei Piani Palentini. Questi, infatti, prima della battaglia che porta anche il nome di Tagliacozzo, fece il voto di erigere un tempio sul luogo della fase decisiva della vittoria su Corradino di Svevia. Sorsero, così, in Scurcola, il monastero e il tempio. Carlo primo d’Angiò, con essi, íntese lasciare un monumento tale da sfidare i secoli e tramandare ai posteri la vittoria angioina, perciò non si contarono i diplomi emanati a favore della Badia i quali continuarono con Carlo II. Con il diploma di dotazione, datato il 3 agosto 1277, il re Carlo I, oltre ad un copioso patrimonio, concedeva al monastero, per la sussistenza dei monaci Cistercensi, il diritto di pescare con due barche in una sola parte del lago Fucino; diritto che il re Carlo II successivamente estese in tutto il lago.

Nonostante ciò la vita della Badia fu breve: la decadenza e il suo rapido disfacimento, dovuti alle guerre tra Spagnoli e Francesi e alla nascita delle contese locali tra l’abate del tempio e i Colonna, iniziatono con il sec. XVI.
Le prime contese locali si ebbero quando Fabrizio Colonna ricevette l’investitura dei Contadi di Albe e Taglíacozzo. Fabrizio, infatti, mal sopportava che i possedimenti della Badia rompessero l’unità dello Stato e poi i Colonna erano Ghíbellini e non potevano tollerare quella superstite testimonianza della clamorosa vittoria guelfa. Egli, quindi, nel 1506 fece nominare commendatario della Badia Alfonso Colonna, suo pronipote, commenda che non fu data per dotazione regale, ma dalla Corte romana.

Il punto saliente del diploma di Carlo I è: « Ius piscandi in partibus, quas curia nostra habet in Lacu Fucini ‘ quantum duae barcae piscari poterunt pro uso, et substentatione personarum monasteri sopradicti ». Il diploma regio di Carlo Il dal canto suo recita così: « Ubi legitur manutentío ordinata iuris piscandi in alto, basso et ripis in Lacu Fucini ». Con l’ingerenza dei Colonna, i monaci cominciarono sempre più a trovarsi a disagio, tanto che, dopo alcuni anni, abbandonarono gli edifici del convento e permisero ad Alfonso di annettere il feudo al suo Ducato. Nel 1767, per volere di Monsignor Domenico Quercia, poi Cardinale, prelato del regno e familiare del re, la Badia ridivenne di nomina regia. Monsignor Quercia ne rivendicò i beni usurpati e tutti i diritti annessi alla concessione di Carlo I e Carlo II.

Con questa rivendicazione, tra il Contestabile Colonna e il Cardinale Quercia nacquero molte controversie relative alla pesca, tanto che per risolverle fu necessario l’intervento di Ferdinando IV di Borbone che, con diploma regale emanato il 25 ottobre 1794, elencava dettagliatamente i seguenti diritti della Badia: « Che le barche adiutrici delle due Caporali della Badia possano fare le stesse pesche sia grandi che piccole, che si lanno da quelle del Contestabile, tanto d’inverno quanto d’estate »; « che le suddette barche adíutríci siano a numero di 20, ed i pescatori patentati 130 »; « che possano i due Caporali esser provveduti di doppio riparo, e doppi ordegni »; « che le due Caporali con le adiutrici, quando siano chiamate, possano andare a pescare i mucchi e la terziaria si esiga dalla Badia ».

Il lago Fucino, prima della rivendicazione del Quercia, aveva come unici padroni il principe Colonna e il duca Cesarini. La parte del lago dei domini dei Colonna, costeggiando la riva verso occidente, si estendeva dal vallone di San Rufino, che si trova all’estremità del feudo denominato « Arciprete », fino alla località « Quadranella », oltre la riviera di Paterno. In queste acque pescavano i soli nativi di Luco, unico paese dedito alla pesca nei domini dei Colonna. Nelle acque che costituivano l’altra parte del lago, che rappresentava il dominio dei Cesarini, pescavano gli abitanti di Celano, San Benedetto e Ortucchio. Questi feudatari, appropriatisi del lago violando le leggi del diritto romano, per controllare la pesca che quotidianamente si svolgeva nelle acque del Fucino, avevano istituito, in ogni paese di pescatori, delle vere e proprie dogane dette « stanghe ». In esse, al termine di ogni pesca, si recavano il caporale e i pescatori per mostrare il pesce predato e pagarne le tasse secondo una forma contributiva denominata « prestazione ».

Quando ancora non esistevano le stanghe badiali, le prestazioni dei pescatori nel feudo dei Cesarini non differivano da quelle che si praticavano nel feudo dei Colonnesi, perché, per esse, sia gli uni che gli altri erano obbligati a versare la metà del pesce predato. Tali prestazioni consistevano nel dare alle dogane un terzo del pesce pescato, una libbra di pesce su ogni dieci decine per il diritto di bolletta e, oltre a ciò, altro pesce per le guardie e i pescatori addetti alle stanghe e di tutto il pescato lasciare i migliori pesci per lo stanghiere.
Quando il Cardinale Quercia rivendicò i primitivi diritti della Badia, il sistema di esigere le prestazioni nelle stanghe dei Colonna mutò a favore dei pescatori e rimase inalterato in quelle dei Cesarini, fino a che si emanò la sentenza della Commissione Feudale. Il punto saliente della sentenza è: « Aver competuto e competere anche prima delle leggi e decreti eversivi della feudalità a tutte le popolazioni l’agro delle quali è bagnato dalle acque del Lago Fucino, pieni e comodi usi della pesca, nello stesso Lago, anche per ragione di commercio tra loro, senza alcuna prestazione ».

Le cause che portarono al mutamento di questo sistema dipesero dal fatto che il Cardinale, avendo scelto come sede delle stanghe badiali i soli possedimenti dei Colonna, dove pescavano in ogni stagione non più di 160 pescatori, non poteva aver fissi i 130 pescatori con i quali la Badia aveva il diritto di pescare in tutto il lago e quindi, per propiziarsi il loro favore, ricorse all’introduzione delle precapienze (agevolazioní nella pesca) e all’esenzione dal dazio su una porzione di pesce denominata « solito ». Il principe Colonna, di conseguenza, per non rimanere con pochissimi pescatori e rischiare di compromettere seriamente il reddito del lago, fu costretto ad adeguarsi alla nuova forma contributiva richiesta nelle stanghe badiali.

Le precapienze, che riguardavano la pesca col lavio, consistevano nel dare ai pescatori 10 carlini per ogni giorno di pesca, se lavoravano con la pannera, e 5 se lavoravano con lo sciabaco: inoltre, di tutto il predato, dopo averne tolto un terzo per la stanga, i pescatori percepivano i due terzi del ricavato della vendita. La retribuzione giornaliera per la pesca con la canna e con la lenza consisteva in un solo carlino. Nella pesca dei mucchi il caporale, dopo un’intera giornata di lavoro, ricompensava le fatiche dei suoi compagni dando loro, oltre il mangiare, una quota di pesce che variava da 4 a 15 libbre, in proporzione alla quantità di quello predato. Fatta questa distribuzione, che veniva chiamata quella dei « soliti », il caporale prendeva 40 libbre di pesce per sé, 40 per il mucchio e 40 ne portava in contribuzíone alla stanga. Il pesce che rimaneva veniva rigettato dentro il lago, in un recinto di reti detto « vadicchio », per essere ripreso nel periodo della vendita.

Un terzo di questo pesce era del padrone del lago e i due terzi del caporale, padrone del mucchio. I vantaggi relativi alla pesca dei mucchi consistevano, oltre all’esenzione dal dazio sul « solito », nella concessione di poterlo vendere fuori di stanga. La vendita del pesce, che usualmente si apriva al pubblico incanto, avveniva all’interno stesso della stanga, poiché in quel tempo vigeva l’obblígo di non poterlo vendere altrove senza essere accusati di contrabbando.
Terminata questa gara (in cui spesso entravano in lizza i compratori) lo stanghiere procedeva al pagamento delle precapienze e alla ripartizione, fra i pescatori, dei due terzi del ricavato della vendita del pesce. Il sistema che regolava le prestazioni e le precapienze nelle stanghe della Badia e in quelle dei Colonna, sebbene avvenisse con ordine, non mancava di grandi difetti. Il principale scaturiva dal fatto che il sistema era gravoso per i pescatori. Infatti, i vari tipi di pesca, all’infuori di quelli praticati con la canna e con la lenza, richiedevano gran capitale ed immense fatiche. I due terzi, quindi, i pochi pesci e i miseri carlini che venivano dati ai pescatori non erano proporzionati alle loro fatiche e ai capitali che impiegavano nella pesca. Di qui nasceva la frequenza dei contrabbandi e le continue lotte tra pescatori e stanghieri.

Altro difetto era quello di aver concesso ai pescatori di vendere il pesce del « solito » fuori della stanga. Questa concessione consentiva ai caporali pescatori di contrabbandare il pesce rigettato nei « vadicchi »; essi, infatti, avendo a disposizione una gran quantità di pesce riuscivano a venderlo per primi e a farlo uscire dalla stanga facendolo passare per quello dei « soliti ». Lo stanghiere, quando si accorgeva che molto pesce non veniva pesato e che, secondo i suoi calcoli, non poteva essere quello dei « soliti », ne sospendeva l’uscita imponendo agli ultimi compratori di pesarlo e pagarne il dazio alla stanga.
I compratori delle « particelle » o « solito », quindi, erano sempre gli ultimi ed essendo soggetti a perdita di tempo erano costretti a portare il pesce nei paesi dove si vendeva a minor prezzo, in quanto le migliori piazze erano state occupate dai primi compratori; perciò costantemente si osservava che il pesce delle « particelle » veniva venduto a minor prezzo con grave danno dei pescatori giornalieri.

Testi di Stefania Maria Paris

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