Testi tratti dal libro Avezzano e la sua storia
(Testi a cura di Giovanni Pagani)
Durante le dominazioni dei Normanni e degli Svevi la Marsica intera fu suddivisa in tanti piccoli feudi, tra cui si distingueva per importanza la contea di Celano; essa fu seguita, nell’ascesa, dalle contee di Albe e di Tagliacozzo, che vennero assumendo rinomanza sempre maggiore. Si costituirono
quindi tre grandi feudi, i quali naturalmente assorbirono quelli minori nonché i possedimenti monastici. Il feudo di Avezzano venne unito, come è stato già detto, alla contea di Albe durante gli ultimi anni di regno di Manfredi di Svevia, quando cioè la contea era già in possesso dei De Poli, essendo stata concessa da Federico Il nell’anno 1230 a Giovanni De Poli in sostituzione della contea di Fondi, che gli aveva tolta, per restituirla a Ruggero dell’Aquila,, al quale apparteneva in precedenza.
La famiglia De Poli era succeduta al principe Federico di Antiochia, primo conte svevo di Albe e di Celano, divenuto frattanto re di Toscana, e si ritiene che detta famiglia fosse ancora feudataria in Albe al tempo della battaglia di Tagliacozzo, e che non nascose la sua avversione all’Angioino. Risulta infatti che, dopo tale memorabile battaglia, Carlo d’Angiò inflisse alla città di Albe una desolante devastazione avendo voluto punirla, perché gli si era mostrata ostile e non gli aveva prestato alcun aiuto (1).
Da allora ebbe inizio la sua irreparabile decadenza; la sua condizione divenne sempre più miserevole, riducendosi alla rocca e ad alcune casupole sparse sul tre colli contenuti nella cinta delle mura antiche, fino al punto che nel secolo XVI ” era abitata da alquanti uomini in luoghi abbandonati e ruinati “, come si esprime Leandro Alberti, che visitò la Marsica nel 1525 (2). Nel secolo seguente la sua popolazione contava soltanto venti povere famiglie, secondo quanto riferisce il Febonio. Intanto, dopo la distruzione di Albe, Carlo d’Angiò si reco subito in Avezzano, ove rimase nove giorni, dal 25 agosto fino alla mattina del 3 settembre, e ciò risulta da tre diplomi da lui rilasciati, che recano la data di Avezzano, il primo del 26 il secondo del 99 dello stesso mese, ed il terzo del 1° settembre 1268 (3).
La mattina del 3 settembre parti per Tagliacozzo, passando per Cese, e prosegui poi per Carsoli, diretto a Roma (4). Il soggiorno di Carlo I in Avezzano, oltre ad indicare le ampie possibilità del paese di ospitare personaggi illustri, preludeva alla creazione del nuovo centro della contea, che appariva necessario dopo la distruzione della città di Albe; e tutto fa ritenere che, proprio in quella circostanza, furono prese dal re angioino decisioni al riguardo, perché Avezzano divenne subito capitale della contea, la quale tuttavia conservò l’antico glorioso nome di Alba e poteva ancora vantare una consistenza in territori e castelli di certo rilevante. Durante i primissimi anni del regno angioino la contea di Albe era in possesso della potente e nobile famiglia De Tuzziaco o Dussiaco, e , poco tempo dopo, passò in eredità alla contessa Filippa, che aveva legami di parentela con la suddetta famiglia (5); la nuova feudataria seppe governare con mano ferma e decisa dall’anno 1277 al 1308 circa (6).
Di lei si hanno notizie per la clamorosa lite, che sostenne intrepidamente contro i Cistercensi dell’abbazia della Vittoria a causa del diritto di pesca nel lago Fucino, concesso, tra gli altri benefici, dal re Carlo 1 ai detti monaci.
Tutti i particolari dell’avvenimento sono riferiti dall’Aloi (7), celebre giureconsulto, che fu in Napoli l’avvocato dei Cistercensi nella famosa causa per la revindica dei beni badiali, intentata ai Colonna nel 1758, e si rilevano altresì dagli atti della vertenza giudiziaria, che nell’anno 1710 intercorse tra i
Comuni rivieraschi del Fucino ed il principe Colonna. La contessa Filippa tentò di impedire con tutti i mezzi, anche violenti, che i monaci della Vittoria fossero i soli a pescare ne lago Fucino con grave danno dei paesi ripuari; il re Carlo Il però le impose severamente di porre termine alle violenze con messe contro il diritto dei monaci. Allora lei ricorse alle vie legali, chiedendo che il lago fosse distinto in settori da assegnare per la pesca, ma il giudizio si concluse con il riconoscimento al Cistercensi dell’Abbazia della Vittoria del diritto di pescare ” in lacu Fucini in basso, in alto et in ripis “. La coraggiosa Filippa dove quindi soccombere, trascorrendo gli ultimi anni della sua signoria contrariata non solo dalla dura vicenda, ma fors’anche dalla mancanza di eredi, perché, alla sua morte, la contea passò sotto l’amministrazione della corte reale di Napoli, e divenne poi un dominio della casa regnante angioina, e la corte baronale fissò la sua residenza in Avezzano.
In quel periodo, e più precisamente nella seconda metà del secolo XIII, la popolazione di Avezzano ebbe un incremento notevole per quel tempi, a causa del trasferimento di numerose famiglie da più centri del contado, ad incominciare da Albe, i cui abitanti per la maggior parte vennero a stabilirsi nel nuovo capoluogo in seguito alla distruzione subita dalla propria città ad opera dell’esercito francese. Inoltre l’abbandono di Penna portò tutti i suoi abitanti a rifugiarsi in Avezzano verso la fine del secolo XIII o all’inizio del XIV, per una straordinaria escrescenza del lago Fucino, come afferma il Fabretti (8). Si legge altresi dal diploma, in data 15 ottobre 1372, emesso da Giovanna di Durazzo contessa di Albe, che ” in tempo, di cui non v’era memoria, il castello di Penna, per malaria, o per copia di serpi, o per inondazioni del lago Fucino fu abbandonato da tutti i suoi abitanti” (9)
Nel detto diploma veniva concesso agli avezzanesi l’esenzione dal pagamento della colletta di quattro once d’oro annue per il territorio di Penna da essi posseduto, privilegio altra volta accordato da Maria di Durazzo contessa d’Albe, genitrice di Giovanna. Con l’altro diploma, in data l’ giugno 1405, della regina Margherita, pure riportato dal Febonio, viene decisa l’appartenenza del territorio di Penna ad Avezzano e concesso a Luco dei Marsi il solo beneficio di pascolo con il consenso degli avezzanesi (10). Ora dai diplomi suddetti si può facilmente rilevare, in primo luogo, l’abbandono e la sparizione di Penna, e poi, il trasferimento completo della sua popolazione in Avezzano con ogni diritto di proprietà del territorio del paese abbandonato.
Circa l’origine di Penna gli storici non sono concordi. Il Di Pietro (11) sostiene che esisteva sin dall’epoca romana e che si identificava con il castello marso, situato nelle vicinanze di Luco dalla parte che riguarda Avezzano, e che divideva i Marsi dal Volsci quale baluardo, costituendo con altri vichi, compreso quello di Angizia, il municipio dei Marsi-Lucesi; che detto castello venne abbattuto nell’anno 347 di Roma dal dittatore Publio Cornello, dopo avere sconfitto i Volsci, come dice Tito Livio (12), e che poi risorse quando si scavò l’emissario, per dare asilo alla maggior parte degli addetti all’opera del prosciugamento del Fucino, come è dimostrato dalla sua denominazione di ” Pinna Imperatoris “, registrata in alcune carte antichissime.
Nessuna vera documentazione però è stata addotta dal Di Pietro a sostegno del suo assunto, e la stessa testimonianza di Livio, che narra che il dittatore Publio Cornelio, vittorioso nella guerra volsco-romana, espugnò un castello presso il lago Fucino, portandone via tremila uomini, va riferita, secondo il De Santis (13), all’attuale paese di Civitella Roveto. Tale testimonianza liviana è di capitale interesse, in quanto, per essa, appare nella storia romana il nome dei Marsi per la prima volta, precisamente nell’anno 347 di Roma. Il Brogi (14), sorretto da altri scrittori, ritiene che Penna sorse in epoca remota del medioevo presso i resti grandiosi di Angizia, e ciò sarebbe stato provato fino a non molto tempo addietro dal ruderi assai antichi esistenti intorno alle sue rovine. Essa fu chiamata con il medesimo nome della vicina montagna.
Senza dubbio, fu centro di qualche importanza, ed è certo che vi esistevano almeno tre chiese, una dedicata a S. Vin cenzo, che risulta dall’Elenco con le seguenti parole ” In Penna… ab Ecclesia Sancti Vincentii grani quartarium unum”, un’altra dedicata al Santo Padre, che risulta dalle parole del Gattola (15) ” … S. Patris pertinentiarum Pennac… “, e quella parrocchiale dedicata a Santa Maria, venerata in una immagine miracolosa, raffigurante la Madonna col Bambino. E’ una pittura pregevole, molto bella, che gli scrittori locali affermano eseguita in tela incollata su legno. Da una fotografia dell’anno 1906 si può rilevare che l’opera presenta tutti i caratteri dell’arte bizantina, e che rimonta senza dubbio al secolo IX o X. Il disegno rivela la maestria dell’artista, rimasto ignoto.
Prima del terremoto, per quel che è possibile ricordare, la doratura originaria del fondo, appariva alquanto svanita; ma i colori, distribuiti con eccellente perizia, sebbene qua e là sciupati un poco dal tempo e dalle manomissioni, in genere manifestavano ancora una certa vivacità che sì intonava in armonia con la composta ed austera espressione delle figure, dal cui volti limpidi traspariva regale, serena dolcezza. Si pensi che per lungo tempo gioielli, corone e fiori di carta erano stati inchiodati intorno al volti in segno di omaggio o per ex voto. L’immagine della Madonna appare seduta e, cingendolo col braccio sinistro in tutta naturalezza, sorregge il Bambino,i cui piedini scalzi con grazia ella sostiene sulla mano destra. Il Bambino, in atteggiamento benedicente, ha nella mano sinistra un libro; nella parte centrale della figura maggiore quattro grandi stelle adornano verticalmente la veste, appena ondulata sulle ginocchia, sotto un manto semplice, non drappeggiato. Le linee del panneggio, in tutto il suo complesso, mostrano un movimento, contenuto in una misura sobria e garbata.
Il dipinto ha una storia veramente singolare, che si conclude, in modo inspiegabile, con la sua scomparsa del novero assai limitato di opere d’arte locali, salvate dal terremoto del 1915. Corre voce che si trovi a Roma nel Palazzo Venezia, ma si ignora come vi sia andato a finire; se ciò fosse vero, sarebbe motivo di grande gioia, perché sarebbe in salvo, certamente
restaurato e reso alla primitiva pura bellezza. In origine, era nella chiesa parrocchiale di Santa Maria in Penna, tenuto in grandissima venerazione non soltanto dal Pennesi, ma anche dagli abitanti dei paesi vicini, quando la detta chiesa venne sommersa, improvvisamente, assieme al paese per la escrescenza violenta e subitanea delle acque del lago Fucino, di cui si è fatto cenno prima.
I Pennesi, afflitti per la distruzione delle loro case e per la scomparsa dell’immagine miracolosa, furono presi da grande gioia, rinvenendola esposta sull’altare maggiore della chiesa di S. Vincenzo, che non era stata raggiunta dalle acque, perché posta in posizione più alta. In seguito il quadro fu portato nella chiesa di S. Maria in Vico, ma non si conosce il modo della traslazione, come dichiara il Febonio, il quale racconta di avere appreso la sciagura di Penna e le vicende prodigiose del quadro dalla lettura di un antico codice, che si conservava nello archivio della chiesa collegiata di S. Bartolomeo di Avezzano (16). Per cinque secoli e più la sacra immagine, vera opera di arte, fu oggetto di venerazione da parte del popolo avezzanese nella chiesa di Santa Maria in Vico; questa sorgeva a due chilometri circa dalla città e, tra le diciassette antiche chiese, dette rurali, nel territorio di Avezzano, era come quella di S. Andrea a Vicenna in piena efficienza ed aperta al pubblico, curata dai Frati Cappuccini dall’anno 1570, in seguito alla fondazione di un convento, eretto a spese del popolo (17).
Precedentemente, Santa Maria in Vico era stata soggetta alla Collegiata di San Bartolomeo assieme alle altre chiese. La sua architettura dei primissimi tempi, certo molto più modesta, era completamente scomparsa, perché tutta la costruzione apparteneva al secolo XVI e presentava elementi gotici misti a forme essenzialmente romaniche. La sua pianta era quella tradizionale delle chiese gotiche d’Abruzzo, dove il nuovo ordine, di origine settentrionale straniera, penetrò tardivamente, senza essere accettato per intero, come accadde in altre regioni d’Italia, in cui si seppe adattare lo stile, alle diverse condizioni di clima e di tradizione classica, mediante un processo di selezione dei suoi motivi. Era costruita ad una sola navata, distinta in tre campate regolari e quadrate, delle quali quella, in cui sorgeva l’altare maggiore, assolveva la funzione di presbiterio. I grandi archi divisori, a sesto acuto, poggiavano su pilastri addossati alle pareti e maggiormente sporgenti tra la seconda e la terza campata, il cui spazio presbiteriale era segnato da un controarco.
Le volte delle campate erano a crociera ogivale, sostenute da costoloni di sezione semiottagonale, e colonnine angolari completavano la struttura architettonica interna. Singolarmente delicati apparivano i due capitelli dei pilastri del primo arco, formati da listello, da toro a spirale con punte di diamante alternate e con mensoline sottostanti; cosi pure i capitelli dell’arco presbiteriale, recanti foglie ampie e lanceolate, come quelle di un capitello, esistente nel chiostro di S. Francesco in Foritecchio (18). Nel lato sinistro dall’ingresso esistevano tre cappelle, una delle quali risultava contemporanea alla chiesa per il suo carattere gotico, mentre le altre due apparivano moderne. Questi locali adiacenti facevano perdere alla facciata la sua simmetria all’asse della chiesa, spostando il portale verso il lato destro. Il prospetto dell’edificio comunque non ne veniva affatto a soffrire sotto l’aspetto estetico: esso aveva forma rettangolare., era costruito in pietra concia, come l’interno della chiesa, ed era coronato da una cornice tortile assai semplice.
La restante decorazione, contemporanea e perfettamente corrispondente a tutta l’architettura interna, consisteva in un bassorilievo raffigurante S. Giorgio a cavallo, in una finestra circolare, finemente ornata con foglie radiali di palma e con altri elementi tradizionali, ed in un meraviglioso portale, degno di speciale nota. Detto portale offre un interesse artistico particolare, nel. suo complesso, perché si presenta come un originale esemplare di transizione in due ordini sovrapposti, in cui gli stipiti, l’achitrave e l’arco di scarico sono decorati da riquadri o formelle, contenenti bugne a diamante con sfaccettatura regolare. L’architrave è sormontato da una grande cornice, che ai lati degli stipiti sporge con maggiore accentuazione, per servire di legamento alle due colonne frontali della parte inferiore. corrispondente al primo ordine. Il secondo ordine viene a risultare da due colonnine, che si ergono sulla direzione verticale delle due colonne inferiori, contengono l’arco di scarico della lunetta e sostengono sopra i propri capitelli una cornice, che completa la parte superiore.
Circa la sua contemporaneità all’intero edificio non può sorgere alcun dubbio, anche perché l’architrave porta scolpito al centro lo stemma di San Bernardino da Siena, che mori nella città dell’Aquila nell’anno 1444, e soltanto dopo la morte del Santo, il suo stemma incominciò a comparire sulle facciate delle chiese ed in altri luoghi sacri. I vari elementi costituenti il portale, per la diversità dei propri caratteri, palesano ad una attenta osservazione la loro appartenenza ad epoche distinte, tanto che si prova l’impressione di trovarsi dinanzi ad un’opera sorta con l’uso di materiali preparati in precedenti periodi di tempo e destinati ad altra costruzione, come non di rado si è potuto rilevare in altri monumenti di notevole importanza.
Sta di fatto che i caratteri particolari del portale, che risaltano nella bugnatura, contenuta entro riquadri incorniciati, nelle mensole rinasci mentali sostenenti l’architrave, e nella modanatura delle due grandi cornici, denotano una maniera stilistica nuova, che esprimono le linee del primo Rinascimento. Presentano in-vece forme romaniche e gotiche con foglie lanceolate i quattro capitelli, le basi che recano foglie protezionali, quasi scomparse, ed i fusti scolpiti a spina o scanalati verticalmente, che, specie con la presenza di piccole foglie rampanti, riecheggiano motivi propri della scuola marsicana. La qual cosa fa ritenere che l’autore del portale, come ben a proposito dichiara l’illustre Ignazio Carlo Gavini nella sua opera citata, con tutta probabilità si identificava con un, Maestro del primo Cinquecento, il quale ammirato del gusto gotico, che ancora resisteva in alcuni paesi d’Abruzzo, aveva sbrigliata la sua fantasia nel riprodurre con geniale armonia compositiva i particolari caratteristici delle colonnine, che adornavano le facciate delle antiche costruzioni sacre della Marsica.
L’insieme architettonico, che si può oggi ammirare, è venuto in tal modo a risultare perfettamente armonico nelle proporzioni e nelle linee, ricche di elegante snellezza, che a prima vista rivelano il valore artistico considerevole dell’opera, fra le pochissime rimaste a tener sempre più viva la fiaccola dei ricordi e dell’amore per la nostra terra (19). Della costruzione di Santa Maria in Vico, distrutta dal terremoto del 1915, rimane soltanto il prezioso portale descritto, che attualmente è posto sulla facciata laterale della chiesa di S. Giovanni Decollato in San Francesco, prospiciente piazza Castello, salvato in tal guisa dalla lenta e sicura distruzione degli uomini, mercé l’interessamento del compianto Don Giovanni Valente, parroco della detta chiesa.
Esistevano nella chiesa di Santa Maria in Vico alcune iscrizioni epigrafiche, relative a personaggi degni di memoria; se ne citano le più importanti. In una era scritto: ” loanes. Batsia. Porcarlus F. F. Hoc. Op. 1545 “. Tale iscrizione, che ricordava Giovanni Battista Porcari appartenente a nobile famiglia di Avezzano, era posta sotto un pregevole affresco, raffigurante la Madonna col Bambino, distrutto nel terremoto del 1915, affresco che il Porcari medesimo aveva fatto eseguire per decorare una delle pareti laterali dell’altare maggiore. La lapide in forma semplice “HIC iacet Dux – Franciscus Marchetelli – Ab Avezzano – Pro – Sua Devotione – Ib. 7bris 1703 – ” commemorava l’avezzanese Francesco Marchetelli, condottiero di esercito, dotato di mirabili virtù militari e civiche, del quale, fra le tante opere di benefica liberalità, si annoverava la donazione al convento di una grande estensione di terreno coltivabile; morendo, volle essere sepolto nell’antica chiesa, da lui venerata. Si può infine ricordare la iscrizione onorarla diretta al Cardinale Ludovico Micara, Generale dell’Ordine dei Cappuccini, che il 16 settembre 1826 visitò la chiesa ed il convento di cui fu ospite.
Con la legge repressiva degli Ordini religiosi, dopo la unità d’Italia, i Cappuccini sarebbero stati costretti ad uscire dal convento e dalla chiesa, se il Comune di Avezzano non fosse intervenuto presso il Governo con provvida tempestività; esso si impegnò a versare allo Stato un canone annuo per il fabbricato e per il terreno annesso, una parte del quale veniva destinato a cimitero pubblico, e fu convenuto che la custodia del detto cimitero e della chiesa fosse affidata ad un rettore, cioè al padre guardiano dei Cappuccini, i quali poterono così continuare nella loro opera di bene in seno al popolo di Avezzano, che ebbe. sempre una particolare devozione per la chiesa di Santa Maria in Vico, come ci attesta lo stesso Febonio (20).
Oggi di Vico, della sua chiesa e del convento non rimane alcuna traccia, non esiste più nulla in loco: sul terreno, una volta da essi occupato, le innumeri piccole piante del campo-vivaio della Forestale sembrano rievocare con rito gentile i ricordi più dolci e più cari delle trascorse esistenze.
Note
(1) BUCC10 Di RANALLO:Cronaca aquilana, in Muratori, Antiquitates Italicae medii aevì – anni 1251-1362, stanze 141-142, Bellotti. A11, 1779.
L. A. ANTINORI: Memorie cit., 1. 2, cap. 7, paragr. 2.
(2) LEANDRo ALBERTI: Descritione dell’Italia 1550, pag. 140. Giaccarelli, Bologna,
(3) DEL GiUDICE: Codice diplomatico di Carlo Il d’Angiò – Napoli, Università, 1869, Vol. 11, pag. 196-197.
(4) MINIERi Riccio: Itinerario di’ Carlo d’Angiò 1872, pag. 3. Napoli, Partenopeo,
(5) CAPECELATRO: Origini delle famiglie nobili* napoletane – Ed. Gravier, Napoli 1769, t. 3, pag. 74.
(6) Atti della lite tra i Comuni del Fiicino ed i Colonna del 1710.
(7) ALOI: Dissertazione storica sulla badia della Vittoria, Di Domenico, Napoli 1768, cap. 1, paragrafo 42 e seg.
(8) FABRETTI: De emissario Fucinì, Tinassi, Romae 1683, pag. 393. (9) FEBONIO: opera citata – libro III, pag. 134 e seg. ove è riportato il diploma.
(10) Dice testualmente il diploma: ” … nec debere pascua sumere in praefato territorio olim Permae absque licentia dictorum hominum Avezzani”.
(11) Di PIETRO: opera citata – pagg. 178, 179.
(12) TITo Livio: Ab urbe condita libri – libro IV, cap. 32, la Deca.
(13) DE SANTIS: Dissertazione su Antino – Ed. Roveri, Ravenna 1784
(14) BRoci: opera citata – pagg. 81-82.
(15) GATTOLA: Historia Casin. stieculum VI – Ed. Coletti, Venetiis1733, pag. 350.
(16) FEBONIO: opera citata – libro III, pag. 139.
(17) BROCI: Mmorie di’ Vico, etc. – tip. Angelini, Avezzano 1902, pag. 22.
(18) 1. C. GAVINI: Storia dell’Architettura l’n Abruzzo – Casa Editr. d’Arte Bestetti e Tumminelli – Milano-Roma, Vol. Il, pag. 286.
(19) G. PAGANI: in ” Cinquanta anni . di vita in sei secoli di’ Storia ” (Cinquantenario della parrocchia di S. Giovanni Decollato di A
vezzano) Tip. Edit. M. Pisani – Isola del Liri, 1964 – pag. 60-62.