Nessuna via unisce la Marsica con Roma e Napoli. La vecchia via Valeria da Roma passava per questa zona, e le sue tracce sono ancora visibili nei pressi del castello di Tagliacozzo; ma ora le uniche strade carreggiabili in tutto il territorio vanno da Tagliacozzo ad Avezzano, Celano e Magliano; una da Capistrello e Sora non è ancora completata. Chiusa nella sua prigione di alte montagne, la Marsica non è in comunicazione (tranne quella permessa dalle mulattiere) con alcuna grande cittá; tuttavia possiede, oltre ad una deliziosa solitaria tranquillitá, piú attrattive con i suoi abitanti, il suo paesaggio, i suoi ruderi, di qualunque altro luogo che io abbia mai avuto la fortuna di visitare».
Così scriveva, nel 1846, nel suo volume Viaggio illustrato nei Tre Abruzzi, l’inglese Edward Lear, uno dei molti visitatori della nostra regione nei secoli passati: molti, nonostante la mancanza di vie di comunicazione e nonostante l’isolamento della Marsica, determinato dalla presenza di alte montagne.
Insomma, quest’Abruzzo (o, meglio, questa sub-regione dell’Abruzzo che è la Marsica) ha avuto contatti con altra gente e altre regioni, oppure è sempre vissuta in quel barbaro isolamento di cui parlava un altro viaggiatore straniero, l’Hoare, il quale descriveva la Marsica come «un paese incivile, infestato da briganti, conveniente piú alle bestie feroci che ad esseri intelligenti»?
È difficile rispondere a questa domanda: perché è vero che l’Abruzzo è rimasto sempre isolato (e la Marsica in modo piú accentuato di altre zone); ma è anche vero che in Abruzzo e nella Marsica sono venuti i personaggi piú noti della cultura europea, cosí come dall’Abruzzo e dalla Marsica si sono recati fuori uomini altrettanto grandi e famosi.
Non è questa la sede per tracciare un excursus storico-politico, storico-artistico o storico-letterario. Ci limiteremo, pertanto, a trattare il nostro tema: quello, cioè, della cultura popolare e dei rapporti che, almeno in quest’ambito, la Marsica ha avuto con il resto del mondo. Nonostante il suo isolamento e le difficoltá di comunicazione, dunque, la Marsica ha sempre costituito un punto di attrazione per turisti, studiosi, curiosi; cosí come essa è sempre stata un punto di passaggio obbligato (anche se solo attraverso mulattiere) per chiunque volesse o dovesse recarsi da Roma all’Adriatico o dall’Aquila a Napoli.
I pellegrini ciociari che si dirigevano verso Cocullo, passavano per la Marsica; i pellegrini abruzzesi (del resto dell’Abruzzo) che volevano andare alla Trinitá di Vallepietra, dovevano anch’essi attraversare la Marsica.
Inoltre, anche i marsicani (pur attraverso difficoltá logistiche, economiche e psicologiche) andavano spesso fuori: nelle Puglie o nell’Agro Romano per motivi di lavoro, a Napoli per ragioni di studio, a Roma per i loro commerci e traffici, e persino in Maremma, per condurvi le loro pecore. Quindi, il problema di carattere antropologico che sorge da queste considerazioni non è tanto quello dell’isolamento delle popolazioni marsicane, quanto l’altro dei rapporti e dei legami che si sono creati, nel passato, e si creano ancor oggi tra i marsicani e gli «altri», tra i marsicani e i forestieri. Sentiamo, ad esempio, in un breve «collage» di voci «forestiere» (cioe, di forestieri che attualmente vivono nella Marsica), quale sia il legame che è venuto a crearsi tra loro, la terra che oggi li ospita, e la terra dalla quale sono partiti: «Avezzano è nuova, bisogna proprio dirlo. Avezzano contiene un po’ tante persone, tutti quelli che sono venuti dopo il terremoto. lo credo che dipenda da questo un po’ la chiusura del carattere del vero avezzanese». (Signora Germani, Marche).
«lo sono rimasta sentimentalmente sempre legata alla mia Imola, non riesco a dimenticarla». (Signora Soccorsi, Romagna). «lo sono — anche se devo ammettere che la mia seconda patria è Avezzano — sono rimasto sardo fin nelle mie midol-la, diciamo, no?». (Sig. Floris, Sardegna). «Ovviamente, io sono ligure». (Sig. Viani, Liguria). «Vede, c’è una vecchia canzone friulana che, per quanto riguarda il ricordo della propria terra (e il primo amore, anche), canta così: A sí mur si va socciere / e an ci mor si sin dolor». (Sig. De Cecco, Friuli).
Sono, queste, testimonianze di alcuni cittadini di Avezzano, nati altrove e rimasti sostanzialmente legati alla loro terra di origine. Ognuno di loro, pur vivendo ormai nella Marsica, non è riuscito tuttavia ad inserirsi in una dimensione culturale assai diversa da quella di provenienza, e soprattutto così variegata e indefinibile, qual è quella marsicana appunto.
Ma anche prima del terremoto del 1915, le differenze tra Marsica e il resto del mondo (compreso l’Abruzzo) venivano messe in risalto da alcuni attenti osservatori: «Constatavamo, ad ogni passo, la cortesia e l’immediata cordialitá dei contadini; quasi tutti ci salutavano mentre attraversavamo il paese; ci salutavano anche dalle vigne che costeggiavano la strada, quando piú tardi riprendemmo la via maestra. La maggior parte di essi aggiungeva una benedizione. “Vi accompagni Maria!”, o “Vi benedica Gesú!”; oppure, almeno, “Faccia felice viaggio!”. Questo senso di ospitalitá e questi modi così civili in tutto il territorio della Marsica sono veramente ammirevoli».
Sono ancora parole di Edward Lear, il quale, nello stesso volume, torna ogni tanto a sottolineare questa estrema ospitalitá e gentilezza dei contadini della Marsica, specialmente quando le successive esperienze gli dimostrano che le altre zone dell’Abruzzo non sono né altrettanto ospitali, né altrettanto gentili. Ad esempio, sulla cittadina di Penne, tra il Gran Sasso e il mare, lo scrittore inglese cosí commenta: «Invano, entrando in cittá, cercammo una locanda, un’osteria, una stalla: tutta cittá di Penne sembrava ignorasse queste comoditá tanto comuni. Né ci trovammo affatto meglio quando, esibita la nostra lettera di presentazione, ricevemmo per risposta che una tal casa avrebbe ospitato noi, e una certa stalla i nostri cavalli; un’accoglienza cosí differente da quella prodigataci dai nostri amici marsicani, che ne fummo non poco sorpresi».
Anche a Scanno il Lear trova «gente molto cortese, ma troppo posata e troppo diversa, tuttavia, dalle famiglie» che egli aveva incontrato nella Marsica.
E a Villalago i suoi nuovi amici non hanno «niente della serena cordialitá» che aveva incontrato, fin allora, nei paesi della Marsica.
Ma la delusione piú grande (sempre nel confronto che, inevitabilmente, faceva con la Marsica), il Lear la provó a Lanciano, dove l’ospite straniero si sentí circondato dalla curiositá sospettosa della gente: «Tutte quelle persone non riuscivano a capacitarsi che un individuo potesse viaggiare semplicemente per il gusto di vedere luoghi nuovi; piú mi sforzavo di convincerle che era cosí, piú esse erano sicure che esistevano altri motivi. “Dove vai!”, gridavano non appena allontanati di un passo dalla via maestra, alla ricerca di un posto per disegnare».
Diffidenza verso i forestieri, che non si ritrova né nella Marsica del passato, né in quella del nostro tempo.
Anzi, se qualcosa lascia sconcertato il visitatore straniero, nella Marsica, è proprio l’eccessivo senso di ospitalitá, di cui il nostro ospite dovette subire le conseguenze a Trasacco: «A dire il vero, l’ospitalitá fu piuttosto soffocante: il pranzo non aveva mai fine e, poiché i nostri piatti erano riempiti in continuazione, c’era seriamente da temere un colpo d’apo-plessia. I maccheroni furono la cosa che meno potemmo rifiutare. “Bisogna mangiare!” — “È un piatto nazionale!”, esclamavano i sei fratelli, se indugiavamo di fronte al compito che ci toccava. “Non possiamo piú!”, dicevamo noi. Ed essi: “Mangiate, mangiate! Sempre mangiate!”».
Insomma, i rapporti tra marsicani e forestieri erano, forse, migliori di quel che potesse essere in tutte le altre zone di Abruzzo, tranne che in due casi: primo, quando il forestiero era l’abitante del paese vicino; secondo, quando il forestiero si stabiliva nella Marsica per motivi di lavoro e si trovava in una condizione economica e sociale inferiore a quella del marsicano. Come accadde, ad esempio, ai cosiddetti «marchigiani» di Trasacco, sui quali ci informano sia il trasaccano Quirino Lucarelli, sia il «marchigiano» Ettore Sciarretta:
«Sposare una marchigiana, per il trasaccano, significava abbassarsi, insomma, cioé scendere di grado sociale: perché non era proprietario, il marchigiano. II marchigiano, quindi, era considerato un servo di Torlonia […]».
«Perché a noi i trasaccani ci dicono “marchisgianacci”. Quando Torlonia ha prosciugato nel Fucino, ha prosciugato Fucino no?, dunque qui i locali, i trasaccani, i luchesi, gli ortucchiesi, nessuno ha voluto zappare queste terre. Allora Torlonia s’è rivolto sú a Teramo, a Giulianova, a Tortoreto, Nereto: e ha venuto a prendere i contadini lá, e l’ha portati qua». Insomma, una specie di «ghetto» sociale, che i trasaccani avevano creato nei confronti dei «marchigiani»; e che, d’altra parte, gli stessi trasaccani dovevano subire, a loro volta, da parte dei piú evoluti e ricchi collelonghesi, come appare dalle parole del collelonghese Walter Cianciusi: «Collelongo era il centro piú notevole; e qua c’è sempre stata, praticamente, una superioritá culturale in dipendenza del fatto che a Collelongo hanno sempre…, ci hanno sempre tenuto a fare studiare i figli al possibile, magari disfacendosi di tutto il patrimonio e, diciamo, l’ultimo fenomeno in questa direzione è l’emigrazione, è vero, allo scopo di mandar denaro, perché i figli potessero studiare».
I «forestieri»: una parola affascinante e pericolosa, dunque: ieri, e oggi! Essere forestieri, poteva significare suscitare ammirazione e rispetto. Ma talvolta significava anche qualcos’altro: «Quist’anne c’è state, perché i paisani, che vengono a cantare (che po’ si riunisciono tutta la squadra della gioventú) e hanno venuto proprio co’ col fermo proposito che dovevano menare a tutti i forestieri che stavano dentro casa, cosí che non ci venivano piú. Allora io gli so’ detto “Immediatamente vi fermate!”. E mi so’ rivolto verso ji forestieri; e i forestieri, tutto fermo. “I paesani, per cortesia, tutto fuori, quelli che hanno venuti a cantare, perché m’avete guastata tutta la conversazione!”. Cosa che a casa mia non doveva succedere, che non ha mai successo nella mia casa!». (L’« Avvocato » di Villavallelonga, 1982).