ARTE E DI CULTURA NELLA MARSICA DI IERI E DI OGGI (Poesia dialettale)

La Marsica, che pure merita qualche cenno di riguardo nella storia della letteratura italiana per i contributi offerti all’innografia religiosa con Tommaso da Celano, alla poesia e alla cultura umanistica con Paolo Marso da Pescina, al dramma pastorale con Marcantonio Epicuro, al poema mitologico con Giovanni Argoli, alla lirica con Petronilla Paolini Massimi, alla storiografia con Febonio Corsignani e Brogi, non ha mai avuto in passato una presenza veramente attiva nel campo della poesia dialettale e si e perfino estraniata da tutto ciò che di stimolante, nel corso dell’ultimo secolo, e avvenuto nelle province abruzzesi del versante adriatico.

Per la spiegazione di questo strano fenomeno non e assurdo, forse, ricorrere a delle ragioni storiche: la Marsica, infatti, si e sentita quasi sempre attratta nell’orbita di Roma o di Napoli, avendo agevole accesso nel Lazio e nella Campania; si pensi, poi, che con la Marsica dovettero fare i conti gli antichi Romani, i quali vi si stabilirono con una nutritissima colonia per tenersela sempre buona alleata; nella Marsica si decisero le sorti imperiali tra gli Svevi e gli Angioini; nella Marsica fondarono e sfruttarono grossi feudi, di cui restano ancora sicure vestigia, conti marchesi e principi più o meno imparentati con la curia papale e con le case regnanti. Sappiamo bene che l’arte e la letteratura non si fanno con la pura sociologia e con la storia politica, ma constatare l’incidenza di certi fattori collaterali non può essere riprovevole nemmeno in sede estetica; tanto più che qui si tratta di poesia dialettale, un genere cioè legato ai costumi e alle passioni dei parlanti e quindi fortemente condizionato dalle vicende del tempo.

Non è inopportuno rilevare, appena di passaggio, che il dialetto marsicano, per lo più assai aspro foneticamente, e di difficile trascrizione e risulta privo, ad una prima analisi, di una sua propria fisionomia: nel suo fondo si scopre un coacervo di latinismi, francesismi e nelle varietà municipali addirittura, dove più dove meno, una larga influenza del romanesco e del napoletano. Col toscano, invece, il nostro dialetto non ha rapporti, per cosi dire, ne di amicizia ne di simpatia; e lo sanno bene i nostri scolari, i quali imparano con la stessa fatica la lingua italiana e le lingue straniere dell’area neolatina. Questi rilievi, e ovvio, se pure hanno qualche riflesso sulla poesia dialettale, interessano pero più da vicino gli studi di dialettologia, che negli ultimi anni hanno avuto anche in Abruzzo una vera e propria « esplosione » per merito di appassionati cultori, quali Pischedda Giammarco Amoroso e molti altri, ma che nella Marsica non trovano ancora il ben che minimo consenso e sviluppo. Il nostro, dunque, sia per i poeti che per gli studiosi del dialetto, e un terreno completamente inesplorato, ancora vergine, e non si può dire quanti tesori esso nasconda.

Dopo questa necessaria premessa, può apparire impresa disperata il tentativo di tracciare, sia pure sbrigativamente, un sommario storico della poesia dialettale marsicana, tanto più che, stando a quel che sappiamo, e la prima volta che si fa un tale lavoro. Per quanto ci risulta, il documento poetico più antico in volgare lasciato da un rimatore marsicano, e un sonetto caudato di un tal Giovanni da Tagliacozzo, vissuto nel ’300, dell’ordine dei frati minori riformati. Il componimento, scritto per la morte e in lode di S. Giovanni da Capestrano, qui viene ricordato solo perché denota, pur sotto un’abbondante patina di cultura latineggiante, alcune inflessioni dialettali. Ma il testo che merita una citazione di priorità assoluta nella storia della poesia dialettale marsicana e forse abruzzese, e quello di una « Canzone in lingua rustica cicolana » di Giovanni Argoli (1606-1660), anch’egli di Tagliacozzo, ritrovata da Giorgio Morelli pochi anni or sono tra i manoscritti del cod. Barberiniano Latino n. 3901 e acutamente illustrata da Vittorio Clemente su « Regione Abruzzese » (n. agosto 1967). La poesia risale probabilmente al 1622, anno in cui il sedicenne autore lascio il paese natio e si reco a Roma per ricongiungersi col padre, valente matematico. Si tratta, a dire il vero, di un componimento in dieci quartine di ottonari con rima ABBA, che non si può definire canzone ed e piuttosto il risultato di un mistilinguismo dialettale: vi si nota infatti « la presenza di alcuni caratteristici vocaboli, in particolar modo di articoli e avverbi, oltre che di peculiari fonetismi, tutto propri della parlata marsicana e di quella sabina » (V. Clemente, f. cit.).

L’argomento e svolto col tipico pretesto di una « fictio » letteraria: il giovanissimo poeta, nei panni di un cicolanese proveniente da Collalto o da Collegiove, giunge a Roma ed e felice di scoprirvi tante bellezze, tanti divertimenti e cibi prelibati, oltre che maniere buone e gentili, che quei quattro « gatti de montagna » del suo paese non possono nemmeno immaginare; e promette che, se un giorno tornerà tra « quigli alimani », provvederà lui stesso a dirozzarli e incivilirli. A prescindere da qualche problema di dubbia interpretazione, si deve senz’altro accogliere la conclusione cui giunge il Clemente nella sua dotta analisi: « Satira o no, la canzone rappresenta nella storia della poesia abruzzese un testo di studio, sia sotto l’aspetto poetico – letterario, sia sotto quello linguistico – dialettologico; avesse avuto o no il suo autore l’intenzione di poetare a un fine oggettivamente satirico – umoristico, o di mera occasionalità, ci troviamo sempre di fronte, e forse per la prima volta, a un esempio di espressione dialettale sintetica e di trasfigurazione soggettiva della persona del poeta; e per quanto riguarda il linguaggio, a un personale uso del vernacolo, tradotto, da rozzo parlare, in termini lessicalmente e ortograficamente significanti e di facile comprensione e lettura » (f.c.).
Dopo l’Argoli, per circa tre secoli nessun marsicano si e cimentato nella poesia dialettale: bisogna giungere infatti ai primi del ’900, per trovare qualche testimonianza degna di nota.

Il primo nome che s’incontra in una indagine puramente cronologica, e quello di una donna: Gina Sebastiani, nata ad Avezzano nel 1883 e morta a Roma nel 1958. Insegnante di lettere italiane, ha lasciato molte poesie, alcune anche in romanesco, che pur nell’ambito di un certo dilettantismo provano la sincerità della sua ispirazione e il possesso di una forma espressiva abbastanza sicura. Ci piace segnalare le quartine di « Avezzane nostre », dettate dal triste ricordo del terremoto del ’15 e dallo stupore di non poter ritrovare la casa distrutta in mezzo alla città rifiorita a nuova vita: « Ma mo… t’one refatte… ji benediche chi t’ha refatte comme ’na citta, ma pe’ nnu, pe’ j’avezzanese antiche, la casa addo nascemme nen ce sta. » Il motivo del terremoto ricorre frequentemente nelle pagine de « La bocaletta » (Roma 1966), antologia del dialetto avezzanese – così la definisce il suo curatore Giovambattista Pitoni – che raccoglie prose di Antonio Jatosti e Giulio Lucci, oltre che una buona scelta di poesie di Gaetano Peluso e Antonio Pitoni, le uniche personalita di un qualche spicco, e pochi versi di Spadafora, Castellani e dello stesso G. B. Pitoni. E interessante far notare che i versi più belli sono di due autodidatti, il Peluso e il Pitoni « senior » appunto, che ci sembrano dotati di una facile vena e di sentimenti genuini. D’una gentilezza toccante riesce la rievocazione che il Peluso (1893-1970) fa di una giovanile passione in « Je prime amore ».

Leggiamone l’avvio: « Ere vagliole ancora, sidici anne, e mamma me guardeva pensierosa, cornme s’j fusse n’atre, e i n’capive che mamma me leggeva entre ag.lie core. Forze se nn’era accorta ch’i suffrive, ma nen sapeva che pe’ nna vagliola, che m’era ’ntrata all’alma piane piane, j’n connetteva cchiu, me steva a struje. » Ma Gaetano Peluso si mostra capace anche di passare dal patetico all’umoristico, come ne « L’annata secca », al paesaggistico, come in « Je Sarviane », e al moralistico, come in « Agli cococciari » e « A mugline ». più varia appare la tematica di Antonio Pitoni, classe 1906, collaboratore di molte antologie e riviste letterarie, autore di un volume di « Prose e poesie » (1937) insieme con Renzo Marcato. Il rimpianto dell’infanzia lontana e l’agrodolce visione della mamma morta tra le macerie del terremoto gli ispirano il bel sonetto « Sole cuscì ».’ di sapore pascoliano quella figura che s’aggira nella cameretta, accarezza il visino del bimbo e poi silenziosa va a finire « je cojie alla majetta ». Briosa la descrizione della vecchia Avezzano, nella prima parte di una lunga ode che s’intitola « Je cinquantenarie », con la gente raccolta dinanzi al caffe Roma, con le buonanime di « Toscane » e « Mute Coccione », con le processioni e le feste allietate dalla « gran banda de Castrucce », con la baldoria di certi carnevali che pareva non dovessero mai finire.

Non manca qualche nota di fine e insieme dolente umorismo, come nel sonetto « Je scupine » e nelle quartine de « La frecatura » e « Mojema ». Interessante, anche, lo spunto satiricosociale che informa tutti i versi di « Je diproma » e che nel finale trabocca in una stoccata amara. Sentite:

« Mo so capite: a ste vajole mie, ce vo ’na spenta rossa, tante rossa, perciò scrive ’na lettera comrnossa, a chi sta propria più vecin’a Die. Ma po repenze: che po fa je Papa? Je munn’e brutte, e peggie d’accusc’s nen se po fa; percio, pe’ cce resci, s’ata tene la coccia della rapa. »

In tutta la produzione di Antonio Pitoni traspaiono qua e la venature liriche d’un certo pregio, ma in un sonetto almeno, dal titolo « La calat’ajie sole », si avverte dal primo all’ultimo verso il bisogno d’un canto libero e schietto, che, se fosse suffragato da uno stile più rigoroso, ci consentirebbe di salutare un vero poeta. Una buona dose di ricercatezza espressiva, ch’e indice di perizia tecnica e non di vuoto manierismo, si nota nella lirica « Je tarramute » di Antonio Spadafora, nato nel 1925, laureato in filosofia e attualmente Direttore didattico, autore anche di poesie in lingua. L’impressione più profonda che si riceve dai suoi versi e data da una sicura padronanza del linguaggio, che lo dispone facilmente al racconto ampio e disteso. Dotati di una certa predisposizione al vernacolo ci sembrano anche i giovani Giovambattista Pitoni e Renato Castellani, ma, per le cose già fatte, promette più l’uno che l’altro: i sonetti « Beate ajie cafone », « So’ contente » e particolarmente « Ntuniette », si leggono con vivo piacere. Il Castellani ha dato il meglio di se nel volumetto « Je dialette e j ». Fuori delle mura di Avezzano, le opere più cospicue apparse finora sono quelle di Romolo Liberale e Cesidio Di Gravio, nativi rispettivamente di Gioia dei Marsi e di Cerchio.

Il Liberale, segnalatosi nel ’50 in una importantissima competizione a livello nazionale come quella del Premio citta di Cattolica, raccolse subito dopo tutte le sue poesie dialettali e le pubblico sotto il significativo titolo « Ce vo nu munne gnove » (1952). Il volumetto non può avere per ovvie ragioni, contrariamente a ciò che disse il compianto A. L. Corvi nella Premessa, il merito di « essere un primo tentativo di poesia idiomatica espressa nella parlata marsicana », si piuttosto quello, secondo noi assai più grande, di aver assunto per la prima volta il mondo contadino del Fucino a protagonista di un canto corale (qui si prescinde dall’assoluta priorità di Silone nel campo narrativo, le cui soluzioni umane e artistiche sono di ben altra natura) canto che vuol essere grido d’insofferenza e presagio d’imminente liberazione da un cumulo antichissimo di soprusi e vergogne sociali. L’intento fortemente parenetico dei versi più accesi del Liberale trova modo di svelarsi gia nella prima pagina della raccolta:

« So’ girate ste munne a cap’a pete, So’ viste genta bbone e genta triste, So’ ’ncuntrate signure ricche assajie; So’ viste gente ’n croce cumma Criste E gente ch’a rnagna ’n se ferma majie. ’Ste munne troppa gente nen s’i gode! ’Ste munne s’ha da fa de n’atre mode! » Sorvolando sulle difficolta di trascrizione d’un dialetto per sua natura assai ostico ad assurgere a livello letterario, sorvolando anche su certe soluzioni grafiche di scarsa efficacia rispetto all’uso vivo del parlato, resta il fatto sostanziale che il poeta riesce a porre in luce tutta una umanità tribolata ricorrendo ad un linguaggio misurato e scabro. Si veda « La sciagure d’lla galleria », i cui motivi ispiratori sono miseria e morte, espressi con singolare asciuttezza di tono, specie in questa strofa finale:
« Du’ jurne doppe, ’n’eva ancora scure, Francucce morte i repurtirne a case, La moje ’n se faceva persuase, Men ce vuleva crede a ’sta sciagure. Ma doppe, quand’i’ foche eva rammorte, E nisciune scriveve da luntane; Quand’i pjie cerchivene le pane, Capette ca Francucce s’eva morte. »

Romolo Liberale, come si vede, e un poeta fortemente impegnato sul piano umano e sociale, ma non e alieno, talvolta almeno, da abbandoni idillici, come accade in « Tra le ’rane ». Le sue numerose poesie in lingua, edite e inedite, ne costituiscono una riprova irrefutabile. Ottaviano Giannangeli, ospitando quattro sonetti di Cesidio Di Gravio – fratello del più noto Dario – nell’antologia « Canti della terra d’Abruzzo e Molise », ne tratteggiava i caratteri essenziali nei seguenti termini: « Si può dire che abbia posto appena timidamente i suoi temi in cui ricorrono spunti cari ad ogni adolescenza: esaltazione della terra natale, ansie stellari, nostalgie e ricordi, l’ascolto segreto ed accorato delle mille voci della natura, della casa, di mamma, del focolare, e soprattutto, l’amore ». E ben vero, e il giudizio si può estendere a tutte le poesie raccolte in « Battecore » (1959), che hanno avuto quasi lo stesso potere di sorprenderci cosi alla prima come alla seconda e alla terza lettura.

La forma compositiva prediletta dal Di Gravio e quella del sonetto e bisogna riconoscere che riesce a padroneggiarla agevolmente, sia che voglia rinserrarvi tutto un mondo paesano di usi costumi e ricorrenze festive (es. « Natale », « Anne gnove », « La Befane », « S. Antonie Abbate », « Addie a Gennare », « Carnevale », « E Pasque », « Santesidore »), sia che ne faccia specchio d’un vagheggiamento nostalgico dell’infanzia con i suoi piaceri e timori (es. « Meje quatrare », « Casette », « Pecche me piace »), sia infine che vi dipinga con tocchi levissimi figure di una umanità ancor primitiva (es. « U stracciarole », « U zampugnare », « U pastore ») o vi riassuma la tragedia d’un popolo colpito dal più tremendo cataclisma naturale (es. « U tarramute »). Ma se c’e un motivo che c’intenerisce fino alla commozione, e quello dell’amore goduto e poi perduto, con cui si tesse la sottiiissima trama di « Na funtanelle » e « Vecchie urganitte ». Leggiamone pochi versi: « 0 vecchie riturnelle, chiu nisciune la sera me rallegra u core affrante che sole piagne i guarde quella lune
che t’accumpagne sempre mendicante; i pregte tante ca tu fe furtune tra quelle triste lagreme de piante. »

Cesidio Di Gravio e autore anche di pubblicazioni in lingua: « Ombre nere e verdi », « L’alba ritorna » e « Martirio d’una terra », dove non mancano delle pagine apprezzabili; noi siamo tuttavia convinti che egli valga molto di più come poeta dialettale. Quanto cammino si possa fare sulla strada della poesia in vernacolo dietro la spinta del puro diletto o della semplice eppur consolante confessione autobiografica più che sotto l’impellente bisogno di uno sfogo del tormento interiore, e dimostrato dalla produzione ancora inedita di Ercole Di Renzo, nato e residente a Celano. La carenza più rimarchevole che si scopre nei suoi versi ad una prima rapida scorsa, concerne la tecnica di trascrizione, ancora in una fase poco evoluta, affidata in prevalenza a soluzioni grafiche d’un certo intuito e non a persuasive scelte d’un calcolo razionale. Ma, a prescindere da questo rilievo, occorre con obiettivita far notare che almeno in due componimenti Di Renzo e riuscito in modo esemplare a ricreare, con fantasia commossa, situazioni e figure irripetibili di una storia paesana da lui intensamente vissuta. Leggiamo « Ere quatrane ».

« Ere quatrane i nn’anze a Sante Rocche ne vetavemme tutte a na cert’ore: Sciuppette, Pontaquaglie, qui de Stocche, Giggiotte, Cimmichiglie, i Calatore. »
Avvio semplice e dimesso, quale si addice al racconto di una favola riscoperta nel fondo della memoria. Il seguito e tutto sulla stessa linea di una delicata evocazione. La « bella brigata » usava radunarsi sul sagrato della chiesa e li tutti s’attardavano con piacere in giuochi e passatempi più o meno innocenti, tranne per il poeta, il quale aveva da rendere ben altri conti a suo padre: « Ere quatrane. Patreme stril.leve la sere, a mmizziggiorne, la matine pe quela teppe che n’e distuglieve dagli libri de greche e de latine. »

Sono passati molti anni da quei bei tempi e ormai i cari amici non si vedono più dinanzi a S. Rocco, poiché qualcuno e morto in guerra e qualche altro va in giro per il mondo. Dopo altri ricordi, il poeta conclude con aria afflitta: « Ce so remaste i, povera cose, a guarda le scalette abbandurtate, i quasce piagnarrie senza pose, anche se mo me chiamane avvucate. » Anche in « Za’ Filumene » si pongono in stridente contrasto passato e presente, con uno sforzo di obiettivazione che non riesce a nascondere i reali sentimenti del poeta, il quale, anche la dove sembra ridersi della vecchietta che nulla vuol concedere alla legge del progresso, si abbandona in effetti con lei alla malinconia delle cose che non sono piu. Leggiamone le ultime due strofe:

« Za Filunze, ste munne mbuzzernite, sta genta strane, i purellacce, i ricche, ni e date qui prugresse mbastardite de riuplane, bombe i sputenicche.
Cirche de n’ge penza, pinz’a Pasquale quand’ere berzagliere i ieve a Chiete!… Chi tempe, Filume, chi carnuvale fatte d’amore, de miserie i fede! »
Ercole Di Renzo ha scritto, a tempo perso come lui dice, anche altre poesie degne di considerazione, tra cui si ricorderà. « Celane e ricche », recitata con notevole successo al concorso regionale « Conca d’argento », indetto dalla RAI di Pescara alcuni anni or sono; ma, a nostro avviso, le poesie sopra analizzate restano a tutt’oggi le sue creazioni migliori. A conclusione di questo rapido sguardo panoramico, che peraltro potrebbe riuscire incompleto al di la dal nostro volere, si deve senz’altro ammettere che nella Marsica si sono ormai gettate solide fondamenta per una tradizione di poesia dialettale, a cui pare si stiano aprendo confortanti prospettive. Non abbiano avuto, e vero, un Della Porta, un De Titta, un Luciani, per citare solo qualche nome più rappresentativo della regione, ne possiamo al presente vantare un Vittorio Clemente, e purtuttavia crediamo con fermezza che tutto quanto e stato fatto finora, per merito di iniziative individuali, non e per nulla trascurabile.

Dopo attenta valutazione di ciò che e apparso alla luce, ci sembra di poter affermare che i nostri poeti dialettali, pur operando isolatamente e a volte senza condurre alcuna indagine teorica, hanno ben intuito e capito il principio normativo fissato da un maestro come Gino Bottiglioni, secondo cui bisogna « Scrivere come si pronunzia e, per quanto e consentito dai segni comunemente in uso, riprodurre tutte le peculiarità che si avvertono nelle singole parlate », ma non hanno saputo poi risolvere sempre felicemente il problema della necessaria corrispondenza tra segni grafici e suoni, sia perché i dialetti marsicani sono oggettivamente tra i più difficili di quelli abruzzesi, sia perché non c’era nella zona un modello superiore cui ispirarsi o con cui misurarsi in una utile esperienza di comparazione.

Si sa comunque che, nell’arte, l’uso dei mezzi tecnici, importanti che essi siano, non e sempre determinante al conseguimento dei bello, a condizione che soccorrano opportunamente sentimento e ispirazione; e per fortuna queste qualità non sono rare nel canto dei poeti passati in rassegna, talché sentiamo di poter dire tranquillamente che alcune delle loro pagine sono destinate a rimanere. Certo, meglio potrebbero fare i giovani d’oggi e quelli di domani se, presi dall’urgenza della poesia, volessero guardarsi coscientemente un po’ indietro, per trarre qualche profitto dagli insegnamenti che scaturiscono dalla comune esperienza del passato. Questa e la nostra speranza.

Testi del prof. Vittoriano Esposito

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