l viaggiatore distratto sfugge una Alapide seminascosta dietro la recinzione del casale “Mastroddi” lungo la valle di Luppa, a due km. e mezzo da Pietrasecca che così dice:
IN QUESTO REMOTO CASOLARE
L’8 DICEMBRE 1861 AL
COMAMDO DI ENRICO FRANCHINI
SOLDATI ITALIANI E GUARDIE
NAZIONALI DI SANTE MARIE
FIDENTI NELL’UNITÀ D’ITALIA
PRODEMENTE DEBELLAVANO
ARDITA BANDA MERCENARIA
CAPEGGIATA DA
JOSÈ BORJES
MIRAVA A RESTAURARE IL
NEFASTO REGIME BORBONICO
L’AMMINISTRAZIONE COMUNALE
DI SANTE MARIE L’8 DICEMBRE 1966
Questa iscrizione fu voluta dallo storico marsicano Pietro Bontempi, a ricordare i tragici fatti che qui si svolsero nei gg 7 e 8 dicembre 1861, quando la banda Borjes fu catturata proprio in questo casolare e fucilata il dì seguente a Tagliacozzo. Josè Borjes, generale catalano, aveva combattuto con onore nella guerra di successione in Spagna; avvicinato dai Borboni, fu mandato nell’Italia meridionale per organizzare l’esercito dei rivoltosi con lo scopo di riconquistare agli stessi Borboni il regno di Napoli. La prima sua tappa fu la Basilicata e qui ebbe i primi contatti con Carmine Donatelli detto Crocco, soprannominato “Il capraro di Rionero”. Borjes si presentò a lui con le credenziali di generale ed espose i suoi piani per conquistare qualche grosso centro e da qui iniziare l’opera di recupero del Regno.
Il Crocco non vide di buon occhio questo arrivo in quanto le azioni di guerriglia da lui intraprese ormai miravano più al saccheggio ed all’arricchimento personale e della sua banda che alla causa borbonica: come confesserà egli stesso, in un primo momento credeva di poter operare conquiste, ma si era reso conto che la popolazione che un giorno gridava: “Viva Crocco e Francesco II”, il giorno seguente gridava: “Viva Vittorio Emanuele e viva i Piemontesi” Don Josè, invece, era convinto che si potesse veramente arrivare alla riconquista del regno di Napoli ai Borboni. Crocco, inoltre, dimostrò di non gradire un ruolo di subalterno che gli sarebbe toccato e ben presto scoppiò il dissidio tra i due. Il generale catalano, allora, pensò di recarsi a Roma per denunciare ai Borboni che finanziavano l’impresa, che i loro soldi venivano spesi per finalità ben diverse da quelle che loro si aspettavano; e si avviò col sua drappello verso lo Stato Pontificio dove Francesco II stava in esilio. Così descrive la marcia di Borjes, Alessandro Bianco di Saint Jorioz (2): “Con un pugno di Spagnoli [per l’esattezza 11, più 7 lucani e alcuni altri avventurieri aggiuntisi durante il tragitto (3)], attraversò la Calabria, la Basilicata, il Matese, l’Abruzzo, circondato ovunque da truppe, inseguito come una belva, tradito, manomesso, venduto da tutti; continuamente combattendo, sfuggendo al numero, ritirandosi, nascondendosi, ed or mostrandosi ed audacemente marciando al nemico per poi deluderlo ancora con marcie, contromarcie (sic), ritirate, falsi assalti e stratagemmi; …” E prosegue: “sfuggì con singolar fortuna e talento a sette generali italiani espertissimi … soffrì impavidamente la fame, la sete, il freddo, il caldo, la pioggia, tutti gli stenti, tutte le fatiche, tutti i dolori, tutte le disillusioni le più amare …”
La descrizione appassionata di A. Bianco di Saint Jerioz non sembra quella di un piemontese nemico dei Borboni: ci presenta Borjes quasi come un personaggio leggendario; e si tenga presente che questo scrittore sta facendo un resoconto per conto di Casa Savoia ed in numerosi altri brani mostra il suo profondo ed indiscutibile disprezzo per tutti coloro che si oppongono alle truppe piemontesi. Il Borjes, dunque, entrò in Abruzzo dai monti marsicani, scese verso Celano, attraversò Paterno, costeggiò il lago del Fucino, arrivò a Scurcola e Tagliacozzo dove fu incrociato dalla guardia nazionale, ma non sarebbe stato fermato in quanto i suoi compagni lucani avrebbero dichiarato di esser dei “castagnari” (anche se la notizia ci sembra poco attendibile perché non si capisce bene cosa facessero in giro i “castagnari” nel mese di dicembre!). Ma qualcosa non convince nel racconto se successivamente Angelo Cerri, militare della guardia di Avezzano e cronista, accuserà il maggiore Marsuzzi, che comandava la guarnigione di Avezzano, di non aver saputo sbarrare il passo a Borjes nelle vicinanze di Paterno, benché numerosi telegrammi avessero comunicato l’avvistamento di questa banda in marcia (4).
In ogni caso non furono fermati. Passando nelle vicinanze di Sante Marie chiesero ad un contadino se c’era un casale dove poter riposare stanchi come erano e con tutta la campagna ricoperta di neve; il contadino indicò il casale Mastroddi nella valle di Luppa. Ma molto probabilmente fu proprio questo incontro che risultò fatale al generale catalano; il contadino, infatti, fu quasi certamente lui ad avvertire la guardia nazionale di Sante Marie, uno dei pochi paesi della zona fedeli ai nuovi conquistatori di casa Savoia, secondo quanto ci dice il Saint Jorioz (5). Borjes e la sua banda pernottarono nel casale Mastroddi (dove oggi c’è la lapide che abbiamo riportato all’inizio) non senza aver lasciato tracce sulla neve, anche se, nel tentativo di depistare eventuali inseguitori aveva percorso vari sentieri senza entrare nel casale dalla parte anteriore (6). Qui trascorsero la notte, accampati alla meno peggio, ma col solo scopo di riposare e di passare il confine dello Stato Pontificio nella notte seguente.
La guardia nazionale di S. Marie si era messa in contatto con la guarnigione di bersaglieri (militari scelti che in quel tempo svolgevano opera di polizia), di stanza ad Tagliacozzo, comandata dal maggiore Enrico Franchini, reduce dalla Guerra di Crimea. Unitisi alla guardia nazionale di Sante Marie (7), seguirono le tracce dei banditi sulla neve. Nei pressi del casolare le tracce si disperdevano, e gli inseguitori attesero in silenzio che qualche segnale rivelasse la presenza dei banditi. Il silenzio della campagna innevata fu, ad un tratto rotto da un rumore: un uomo armato, la sentinella, per paura, fuggiva verso il bosco. Il Franchini lo inseguì, ma sia il fucile del soldato che la pistola del maggiore fecero cilecca: arrivò un bersagliere che colpì la sentinella.
Altri cinque banditi uscirono dal casolare, probabilmente per arrendersi, ma furono fermati dai bersaglieri. Allora cominciò dall’interno del casolare una pioggia di colpi contro gli assalitori; due bersaglieri furono feriti. Il Franchini intimò agli assediati di arrendersi; come risposta altra scarica di colpi. Constatando che i banditi non si volevano arrendere, decisero di dar fuoco al casolare (nella stalla ancor oggi ci sono tracce di bruciato!) e solo quando si videro persi agitarono da una finestra un panno bianco in segno di resa. Cessò il fuoco ed uscì il primo bandito: ero lo stesso Josè Borjes che si diresse verso Franchini per consegnargli la spada; il Franchini respinse l’arma: accettarla, per il codice militare avrebbe significato garantirgli l’incolumità. Simili gesti di clemenza non rientravano nel comportamento dei piemontesi e tanto meno nella mentalità del Franchini. Furono catturati tutti e portati a Tagliacozzo. I piemontesi cercarono anche di carpire al Borjes qualche notizia sulle altre squadre di briganti, facendogli capire che, se avesse collaborato avrebbe potuto salvar la vita. Il catalano rispose sdegnosamente che mai avrebbe tradito: “Neanche le torture mi farebbero parlare”.
Il Franchini aveva già formato il plotone di esecuzione, quando don Josè volle esprimere il suo ultimo desiderio: “Mirate al petto, non al volto”. Si inginocchiò e fece inginocchiare i suoi compagni: una gragnola di colpi secchi li stese a terra nel luogo ove oggi sorge l’ufficio postale. L’ordine venne dall’alto, secondo il Saint Jorioz (8). Secondo altri al Franchini sarebbe stata inviata d’urgenza una missiva con l’ordine di risparmiare il Borjes perché sarebbe stato più utile da vivo alla propaganda contro il Brigantaggio, ma il Franchini avrebbe aperto la lettera solo dopo l’esecuzione, quando ormai era troppo tardi.
Con la fine di Borjes si spegne, forse, l’ultima vera illusione di ricostituire il Regno di Napoli. Ad un passo dalla salvezza, a poche ore di marcia dallo Stato Pontificio si infrange un sogno di eroismo, l’ideale di un’avventura che aveva sorretto questi disperati in mezzo a mille difficoltà e sofferenze. Dinanzi a questo racconto ci viene da chiederci: “Ma don Josè Borjes era davvero un brigante, come noi lo intendiamo?”. Ci aiuta nella risposta lo stesso Alessandro Bianco di Saint Jorioz: “Fu un illuso, un tradito, un capo partigiano convinto e di buona fede, non un brigante nello stretto e brutto significato della parola. …Borjes era un uomo di cuore e d’onore, aveva tutti i requisiti per fare uno dei più distinti capi partigiani,… Egli fu il don Chisciotte di una causa perduta e screditata; combatté contro i mulini a vento, ma li combatté colla fede del soldato d’onore e di convinzione” (9). Dopo queste parole, le parole di un nemico, ogni commento è inutile; e non ci spiace confessare tanta tenerezza e simpatia per l’ultimo illuso della rivincita borbonica.
NOTE