IL BRIGANTAGGIO NELLA MARSICA (dopo il 1862)

Quasi tutte le relazioni degli anni successivi al 1862 tendono a ridimensionare il fenomeno del brigantaggio nella Marsica: da parte delle autorità civili locali si cerca di sminuire l’importanza e l’entità numerica delle bande, per mettere in buona luce non solo i rispettivi paesi, ma anche l’efficienza delle proprie amministrazioni e le capacità personali degli amministratori; da parte delle autorità centrali (politiche o militari) ci si sforza di far apparire ormai esaurito il fenomeno del brigantaggio, restando operanti solo pochi gruppi, spauriti e disorganizzati, che riescono a sfuggire alla cattura esclusivamente perché «vicini allo Stato Pontificio» e, quindi, protetti dalle stesse truppe papali e perfino dai francesi, dislocati questi ultimi in tutti i punti di passaggio della frontiera, specialmente a Filettino (sopra Capistrello, all’inizio della Val Roveto) (68).
In realtà, il fenomeno della «reazione» non si era esaurito con il 1861-62 e nemmeno si era trasformato in brigantaggio comune, come la maggior parte degli storici cerca di dimostrare.

La ribellione (a volte latente, a volte ancora tragicamente esplosiva) dovette continuare anche negli anni successivi, come può essere dimostrato da numerosi indizi. Ne indichiamo alcuni: la carneficina-stillicidio che si verifica ad Avezzano negli anni 1863-67; la necessità di addivenire ad un accordo con i francesi e persino con le truppe pontificie; il mantenimento dello stato d’assedio nella Marsica ancora nel 1866; il fatto che persistessero «circostanze eccezionali» anche negli anni 1868 e seguenti; la presenza costante delle «truppe per la repressione del brigantaggio» almeno fino al 1871-72. Vediamo di esaminare, in ordine, ciascuno di questi indizi:

1) Negli anni 1863-67 morirono, soltanto in Avezzano, ben 63 soldati «piemontesi» (venti nel 1863, diciotto nel 1864, dodici nel 1865, sette nel 1866 e sei nel 1867) (69). Poiché l’abate della chiesa parrocchiale di S.Bartolomeo, don Raffaele latosti (il quale aveva annotato i nomi di tutti questi «milites» nel «Libro dei Morti»), non indica la ragione del decesso, si potrebbe anche supporre che, in quegli anni, una dolorosa epidemia avesse colpito la popolazione di Avezzano, diffondendosi ovviamente tra le forze d’occupazione. Ma alcune riflessioni ci consentono di giungere ad una interpretazione diversa di quelle cifre: nel 1863 muoiono ben venti soldati (tutti dai 21 ai 26 anni), ma i morti civili della medesima età sono soltanto quattro; nel 1864 i soldati morti sono 18, i civili soltanto 2; nel 1865 la proporzione è di 12 a 1; nel 1866 di 7 a 1 e nel 1867 di 6 a 1.

Nell’arco dei cinque anni, dunque, contro 63 soldati (tutti giovani sui vent’anni) morti, corrisponde una «moria» di civili molto modesta: solo nove.
Inoltre, lo stesso abate don Raffaele latosti è talmente impressionato da questa strage di militari, che non può fare a meno di annotare, alla fine dell’anno, il numero totale dei morti, aggiungendo: «inter quos multi milites» (70).
Infine, di due avezzanesi morti nel 1867, scrive cosí: «Polineus Del Rosso, pendens pede ex fenestra Domus Regii Receptoris, fuit a milite interfectus»; «Andreas Graziosi, Receptor Demanialis (…) casu sclopeo militis confossus» (71). Negli anni successivi al 1867 il numero dei soldati morti in Avezzano diminuisce, senza però cessare del tutto. E sono «milites» provenienti da ogni regione d’Italia, ma con maggior frequenza dal nord: Luigi Givoni «miles e Monza», Vincenzo Panelli «e Bagolino miles», Giuseppe Nervo «e Rivoli miles», Luigi Dametti «e Corrano Mainago», Ambrogio Ambrosini «Taurini», Domenico Samoré «e Bresignella», Rocco Cestri «e Pistoja», Giacomo Rebuzzo «e Seravalle», Compiano Falcini «florentinus», Guglielmo Siola «e Milano», Pietro Scenni «e Modena», Cesare Gilera «e Milano», Pellegrino Tonarelli «Regii Emiliae», Antonio Cicala «savoiardus», Giuseppe Tomathis «e Mondoví», ecc.

Ritenere che tutti costoro fossero morti per malattia o per incidente, significherebbe affermare che epidemie o cause occasionali riguardassero soltanto i forestieri e non gli avezzanesi. D’altra parte, anche se raramente, lo stesso abate ogni tanto annota: «interfectus» (ucciso), come per un certo Giovanni Majorani, «interfectus» nel 1864, anno per il quale i libri hanno sempre parlato di fine del fenomeno reazionario (72).

2) II secondo indizio è rappresentato dagli sforzi che le autorità italiane fanno per addivenire ad un accordo o, per lo meno, ad un compromesso con le truppe francesi e con lo stesso Stato Pontificio, al fine di eliminare la piaga del brigantaggio. Segno, questo, che il brigantaggio non era ancora sconfitto. In base a questo accordo, si arrivò al paradosso che, ad arrestare i «briganti» che operavano lungo la frontiera, non erano piú le truppe italiane, ma o i francesi, o perfino gli Zuavi pontifici, come risulta da una lettera del 28 luglio 1866, che il sindaco di Capistrello inviò al Prefetto di Aquila sul seguente «oggetto»:
«Brigantaggio — Sorveglianza al confine»:

«Riferisce il sindaco di Capistrello essere corsa voce che la banda di dieci briganti che si aggirava verso Camposecco e Fonte della Signora presso al confine fra Cappadocia e Castellafiume, sia stata battuta dai Zuavi in seguito di agguato e travestimento d’indumenti militari. Cinque di quegli assassini sarebbero rimasti vittima del conflitto, gli altri arrestati e trasportati nel carcere Pontificio. Fra i medesimi si vuole che vi fosse un tal Giuseppe Gramaziani, che nel 1860 era Guardiano ai lavori del Fucino» (73).

3) Terzo indizio: quello del mantenimento dello stato d’assedio in Avezzano e in tutto il territorio circostante, anche quando altrove esso ormai era stato abrogato. Secondo una notizia raccolta dal Perrone, infatti, il 1° gennaio 1866 era stata decisa per tutto il Meridione l’abolizione delle «zone militari» (create nel 1862), abolizione che non riguardò tuttavia le tre zone che rimanevano «calde»: Cassino, Avezzano e territorio del Sangro, ossia tutta la linea che, dalla Val Roveto, passando per la Marsica, giunge fino a Pescasseroli e all’Alto Sangro. (74)

4) Che, poi, la situazione d’emergenza perdurasse nella Marsica, è dimostrato da alcuni documenti, conservati nell’Archivio Diocesano dei Marsi, dai quali risulta che, ancora negli anni intorno al ’70, le truppe speciali per la repressione del brigantaggio operavano nella zona, data la persistenza di «circostanze eccezionali» (75). Interessante, a tal riguardo, è una lettera che il Sotto-Prefetto di Avezzano, il signor Lamparata, inviava al Vicario Capitolare di Pescina in data 18 novembre 1869, in risposta ad una lettera del Vicario, il quale aveva chiesto il rilascio, da parte delle truppe, e la restituzione alla diocesi dei locali del Seminario. II Sotto-Prefetto gli rispondeva in tali termini:
«È pur troppo vero che l’occupazione di parte del locale del Seminario per alloggiare detta Truppa venne fatta a titolo provvisorio, pel tempo per cui durava il servizio di brigantaggio. Questo non è cessato ancora, e sino a che resta il Generale Pallavicino al comando delle Truppe per la repressione del medesimo, è necessario che i detti locali restino a disposizione del Comune per l’alloggio della Truppa» (76).

E soltanto nel 1873 la Curia di Pescina poté riavere indietro (se pur in uno stato pietoso) i locali adibiti a caserme per l’alloggio delle truppe anti-brigantaggio: come, ad esempio, la chiesa collegiata di S.Bartolomeo in Avezzano, per la quale il Capitolo chiese al Vescovo una particolare riconsacrazione o «riconciliazione», avendo prima i Garibaldini e poi le Truppe Regie usato il luogo sacro anche per particolari scopi goderecci, violando la chiesa «voluntaria et culpabili humani seminis effusione» (in parole piú semplici, avendola trasformata persino in casa di prostituzione) (77). D’altra parte, le notizie sú riportate sono piú che semplici indizi, se si tien conto che i fascicoli sul brigantaggio nella Marsica, conservati nei vari archivi della provincia dell’Aquila, contengono documenti che giungono fino agli anni Settanta.

E molte carte lasciano supporre (talvolta, anche in modo abbastanza esplicito) che tra briganti, popolazione e clero si fosse instaurata una specie di complicità morale e psicologica, prova evidente che il «brigantaggio» non era semplicemente espressione di minoranze sbandate ed isolate, ma segno di un malessere piú profondo, che coinvolgeva gran parte delle popolazioni locali, in modo particolare quelle dei ceti piú umili. Nel 1868, ad esempio, un tal Mariano Mestici, proprietario-cantiniere di Camerata, veniva denunciato come «manutengolo», perché aveva mantenuto per lungo tempo, a sue spese, una banda di briganti, circa venti-venticinque persone (78). Nello stesso paese, pur esistendo una stazione di Gendarmi Pattuglieri, il brigantaggio si era potuto tranquillamente sviluppare, perché erano proprio le guardie (e, in particolare, il Capo-Brigadiere) ad istruire i briganti nell’uso dei fucili (79).

E briganti si trovavano dappertutto, ancora nel 1868, nelle vicinanze dei paesi di frontiera: sulle montagne attorno a Rocca di Botte, i tronchi piú capienti di alberi secolari servivano come deposito per i viveri e le armi dei guerriglieri operanti nella zona; e le grotte, disseminate qua e là lungo la linea di confine, risultavano essere abitate abitualmente dai banditi (80). Sui monti attorno a Tagliacozzo vi erano alcune capanne, dove solitamente si radunavano i briganti: esse erano di proprietà del principe Barberini, cosí come lo erano altre capanne site nel luogo chiamato «Terra Lecca», in comune di Rocca di Botte. Nonostante l’intimazione, inviata al principe da parte delle autorità prefettizie, di distruggere quei covi, essi continuarono a funzionare come tali anche nei mesi successivi (81).

Le autorità governative, pertanto, si trovavano costrette a promettere ricompense sostanziose a coloro che contribuissero all’arresto o alla scoperta dei briganti e dei loro «manutengoli». Nel marzo 1868 il pretore di Morino signor Gentili e il capitano Guagnini elargivano sostanziose gratificazioni ad alcuni individui, che avevano (con la loro delazione) consentito la distruzione della banda Fontana, operante nella Val Roveto. E il Sotto-Prefetto di Avezzano donava quaranta lire a un certo Luigi D’Amico, informatore della polizia, che piú tardi veniva gravemente ferito a tradimento da un componente della banda Fontana (82). II 7 aprile del 1868, nella Pretura di Civitella Roveto, venivano distribuiti (con una cerimonia ufficiale) numerosi premi in danaro a coloro che avevano cooperato alla cattura e alla distruzione della banda di Guidone Ficozza (83). Quindi, il Governo era costretto ad operare con tutti i mezzi (compreso l’incitamento alla delazione), per combattere contro un nemico che, dichiarato ufficialmente distrutto, in realtà si muoveva ancora con larghezza di mezzi e con sempre rinnovato spirito combattivo.

E, d’altro canto, le stesse taglie poste dal Governo sul capo dei briganti e gli appetitosi premi promessi a coloro che denunciassero i fuorilegge, nascondevano un grosso rischio: quello, cioè, di alimentare rancori personali, gelosie e interessi privati, inimicizie ataviche tra famiglie, vendette di carattere sociale, che già avevano mandato in galera innocenti, come quel don Raffaele Rossi di Tufo, «detenuto come sospetto di aver fatto parte della reazione, ed assolto dalla Gran Corte Criminale di Aquila» solo dopo essere stato riconosciuto «vittima di calunnie direttegli da persone che lo avversavano per privati interessi» (84); e continuavano a rovinare paesi interi, tra cui S.Giovanni (una frazione di S.Vincenzo Valle Roveto), come risulta da una lettera spedita al Sotto-Prefetto di Avezzano in data 11 agosto 1864 dal sindaco f.f. signor Pietro De Paulis:
«(…) esistendo ivi un antagonismo tutto affatto particolare tra la famiglia Blasetti, e propriamente il signor Berardino, con tutto quell’infelice paese conculcato ed avvilito da questi falsi liberali, si è trovato lo scribbente nella dura posizione di non poter delegare colà alcuno a fare una cosí delicatissima operazione (e cioè, la compilazione di un elenco dei sospetti di brigantaggio, N.d.A.), da dove dipende la felicità o infelicità di quella miserabile frazione; essendo di certa scienza che dando un incarico a quel- l’assessore, non lascerebbe che i soli Santi a non dichia- rarli assassini (…)» (85).

Insomma, era assai frequente il caso che, nel compilare gli elenchi di sospetti briganti o sospetti «manutengoli», si commettessero ingiustizie enormi, raramente in buona fede, molto spesso a ragion veduta, tanto che «i piú rei posseggiano il paese, ed i meno rei se non si vogliono chiamare innocenti, perseguitati, incarcerati, fucilati, per non aver potuto saziare l’ingordigia del denaro» (86).


NOTE

68) ASA, fascicoli sul brigantaggio, anni 1864-65.
69) Archivio della Parrocchia di S.Bartolomeo in Avezzano, “Libri Mortuorum”, anni 1860-70.
70) Ivi, anno 1863.
71) Ivi, anno 1867.
72) Ivi, anno 1864.
73) ASA, documento del 28 luglio 1866.
74) A.PERRONE, op.cit., p.259.
75) ADM, fondo C/buste 1860-76.
76) ADM, fondo C/PESCINA, 18 novembre 1869.
77) ADM, fondo C/AVEZZANO, 22 marzo 1873.
78) ASA, documenti sul brigantaggio, anno 1868.
79) Ibidem
80) Ibidem.
81) Ibidem.
82) Ibidem
83) Ibidem.
84.A.BIANCO DI S.JORIOZ, op.cit., p.110.
85) ASA, “Brigantaggio”, documento dell’11 agosto 1864.
86) Ibidem
Testi del prof. Angelo Melchiorre

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