L’episodio di Magliano dei Marsi, del 20 ottobre 1860, è stato diffusamente narrato da Domenico Scipioni e può ben essere documentato attraverso la lettura delle «delibere» dei Consigli comunali di quel centro (62).
Un episodio meno noto, invece, fu quello di Luco, quando quel paese vide l’assalto in forze della banda Chiavone:
«(…) in sul principio di aprile 1862 fu fatta tentare una nuova impresa con 200 uomini circa della banda Chiavone, dei quali se ne diede il comando a un tal Mancini, uomo o nuovo o oscuro negli anteriori fatti di brigantaggio, e del quale non erasi fin qui mai udito parlare. La notte del 6 del detto mese, questa banda si gettò su Luco, piccolo villaggio sulle rive del lago Fucino, guardato da un sergente e quindici uomini del 44° di fanteria. II comandante del posto, che teneva una sentinella avanzata, appena si accorse dello straordinario numero dei briganti che invadeva il paese, si rinchiuse ed abbarrò nella casa che gli serviva di caserma, e fatto d’ogni mobile e utensile ostacolo, si preparò a morire piuttosto che a cedere (…). I soldati ascesi alle finestre incominciarono una viva fucilata contro i briganti. Erano uno contro sedici, ma a ciò non pensavano, non volevano cedere, questo era l’unico pensiero, e non cedettero. Dopo un’ora di questa lotta ineguale, i briganti riuscirono ad appiccar il fuoco ai due lati ed al tetto della casa assediata. II pericolo era tremendo, il fuoco divampava e progrediva, ma i prodi muoiono, non domandano alta. Cosí i nostri bravi soldati continuarono accanita la lotta senza darsi pensiero della morte che per ogni lato li accerchiava, e senza neppur dare il benché minimo segno di titubanza e di fiacchezza (…)» (63).
Nonostante il loro eroismo, però — sempre secondo il racconto del Bianco di Saint Jorioz da cui stiamo attingendo — i nostri coraggiosi stavano per soccombere, quando giunse, improvviso e imprevedibile, il soccorso:
«Un caporale uscito da Trasacco, altro paesucolo in riva al lago, con soli tre uomini, pattugliava per quei dintorni a sorveglianza di quelle campagne, quando al rimbombo dei moschetti ed al luccicar dell’incendio si avvide che a Luco sovrastava un disastro. Si diresse veloce a quella volta. Giunto a poca distanza, conobbe di che si trattava, e voltosi animoso ai suoi tre compagni gridò: — I nostri compagni sono in pericolo, è nostro dovere salvarli o con essi morire; avanti! — Detto ciò e correre e avventarsi nel paese, il capo abbassato e la baionetta in resta, fu un punto solo. I suoi lo seguirono. Trovatisi avviluppati dai briganti sull’entrata del paese, gridarono Italia – Savoia e fe- cero fuoco avanzando. I briganti, credendosi assaliti da molta truppa, si diedero a retrocedere e poscia a fuggire, ed i nostri quattro prodi, giungendo alla casa in fiamme, salvarono da certa morte i quindici eroi chiusi e Luco dalla strage e dal sacco» (64).
Già in questo racconto, al di là dell’esattezza delle informazioni (l’autore ci fornisce anche i nomi dei due eroi, il sergente Antonio Pasolini, comandante il posto di Luco, e il caporale Silvestro Fantuzzi, che era accorso da Trasacco), si nota il tono agiografico e idealizzante che, ben presto, diverrà usuale nella pubblicistica e nella retorica risorgimentali; cosí come molti altri si attribuiranno (dopo il fatto) il merito di aver contribuito alla vittoria dei piemontesi e alla cattura dei briganti, non ultimo il signor Giulio Ercole, allora capitano delle Guardie Nazionali di Luco e, successivamente, sindaco del paese. Costui, rivolgendosi molti anni dopo ai suoi concittadini, cosí ricordava il proprio contributo alle vicende del 1862, un contributo fatto «di eroismo e di generosa e preveggente pietà cristiana» nei confronti degli sconfitti: «Concittadini, non dirò che, come capitano di Guardie Nazionali, arrestai dieci briganti sul lago, e di cui posseggo la menzione onorevole; e che feci presentare alla Giustizia molti altri latitanti (…). Ma dirò, a mio riguardo, che pure nel 1862, comandante la zona militare il maggiore Besozzi, potetti evitare, colla veste di capitano delle Guardie Nazionali, la fucilazione del signor Raffaele Alfidi, accusato di relazioni col brigantaggio (…)» (65).
Pur mancando una precisa e ampia documentazione in proposito, si può tranquillamente ridimensionare l’episodio di Luco, interpretandolo per quello che esso veramente fu: una sortita simile a tante altre, che le bande di briganti operavano (complici in genere le popolazioni), partendo dalla Valle Roveto e dal confine pontificio, contro le guarnigioni della vallata e dello stesso Fucino, al fine di procurarsi armi e vettovaglie, senza alcuna intenzione di affrontare direttamente le truppe regie o le forze dell’ordine, a meno che non vi fossero costrette dalle circostanze. Le stesse autorità locali riconoscevano essere questi assalti (dal 1862 in poi) di scarso rilievo, tanto che spesso non inviavano nemmeno i richiesti rapporti alle autorità superiori, col rischio di essere severamente redarguiti e, talvolta, anche accusati di complicità. Sempre a proposito del fatto di Luco, cosí il Tribunale Militare di Gaeta si rivolse (piú di due anni dopo) al Sotto-Prefetto di Avezzano, rimproverandogli la leggerezza con cui quest’ultimo si era occupato del misfatto:
«Lo scrivente ebbe occasione di conoscere dallo stesso Signor Delegato (…) il mese 1° agosto 1864 (…), che egli teneva l’originale elenco della banda brigantesca che assalí Luco nel 1862, trovato in dosso al furiere della medesima, il quale fu preso in quell’occasione e fucilato. Con foglio 8 novembre 1864 n.° 2672 chiesta copia autentica di tal documento, non si rispose; per cui con secondo ufficio n° 2944 in data 22 dicembre 1864 gli fu diretto. Anche a questo nessuna risposta (…)». E il magistrato del Tribunale Militare aggiungeva di essere venuto a conoscenza che «individui profughi nel Pontificio fin dal 1860 rientrino numerosi nel Regno per motivi economico-politici», e fra questi anche i responsabili dell’assalto a Luco: ma nessuno si preoccupa di arrestarli o, per lo meno, di controllarli e denunciarne la presenza alle autoritá di polizia (66).
L’unico che avesse inviato un rapporto (ma, anche lui, solo in seguito a reiterate richieste) per far conoscere i nominativi e i connotati di alcuni «banditi» di Luco, era stato il già ricordato Giulio Ercole, sindaco del paese nell’agosto del 1864, il quale aveva spedito i nominativi dei «sospetti di brigantaggio» a tre riprese, la prima il 12 agosto, la seconda il 19 agosto e la terza il 22 agosto 1864. Ma quel che piú interessa notare è che, nelle sue lettere, l’Ercole si sofferma su alcune caratteristiche (connotati fisici ed abbigliamento) dei briganti, con l’intento evidente di sottolineare la loro provenienza contadina, che nulla aveva a che fare con i «galantuomini» e con il resto della popolazione di Luco, tutta brava gente, onesta, laboriosa e devota allo Stato italiano e a Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele.
Ad esempio, Alfonso Farini, di anni 25, viene descritto vestito con «giacca di velluto, cappello da contadino luchese»; Domenicantonio Venditti, anni 25, con «abito alla contadina, e giacca bleu»; Domenicantonio Massaro, Luigi Bianchi, Martino Venditti, Francesco Palma, Angelo Venditti ed altri, tutti con barba incolta (il Bianchi, anzi, con un’appariscente barba rossa), contadini fin nelle midolla. E tutti costoro, unitisi con altri contadini provenienti dai vari paesi della zona (come Fortunato Arcieri, Nicolangelo Marinilli e Venanzio Marinilli di Cocullo), non rappresentavano altro che miserabili eccezioni, pochi poveri «cafoni» sbandati, in mezzo ad una popolazione generalmente brava e politicamente tranquilla (67).
NOTE