Già da alcune delle opere su citate viene fuori un quadro non omogeneo della posizione che il clero marsicano assunse nei confronti del nuovo Stato: vi furono, infatti, atteggiamenti di simpatia e di totale adesione (talvolta anche con posizioni fortemente polemiche nei confronti della Gerarchia ecclesiastica), come ad esempio quello del Gattinara di Tagliacozzo: «Un prete liberale fu il tagliacozzano Giuseppe Gattinara, firmatario dell’appello al parlamento del 21 gennaio 1867 della Società Nazionale Italiana Emancipatrice e di Mutuo Soccorso del Sacerdozio italiano, che denunciava le misure disciplinari dell’episcopato (…)» (32).
Le misure, contro cui sembra essersi opposto il Gattinara, furono certamente quelle suggerite anche al Vescovo dei Marsi mons.Michelangelo Sorrentino (fino al 1863) e, successivamente, al Vicario Capitolare don Giovanni Ricciotti, dalla «Sacra Penitenzieria» di Roma. Già il 16 novembre 1860 venivano formulate norme precise e rigorose sul «come ci si deve comportare con coloro che si sono ribellati allo Stato Pontificio o con coloro che hanno combattuto contro le truppe papali». E, il 10 dicembre dello stesso anno, giungeva alla Curia di Pescina un’altra lettera, contenente risposte ai numerosi dubbi circa il «comportamento da assumere in occasione della proclamazione dell’intruso Governo» (33).
II 28 maggio 1863 (morto già il Vescovo Sorrentino e risultando vacante la sede vescovile di Pescina), il Vicario Capitolare ricevette il testo della «formula di ritrattazione», che avrebbero dovuto pronunciare quei cattolici (clero compreso), i quali si fossero in qualche modo mostrati favorevoli al nuovo regime:
«lo N.N. confesso ed affermo essere errore e temerità contraddire alle dottrine manifestate dalla Chiesa, e non potersi senza grave peccato ricusare ossequio e sincera sottomissione all’autorità della Santa Sede, e perciò rispetto e mi uniformo a tutte le dichiarazioni della medesima, e specialmente a quelle che riguardano il dominio temporale del Sommo Pontefice, alle quali ha fatto eco l’intero Episcopato Cattolico» (34).
Come si vede, era una situazione non facile, dal punto di vista spirituale e disciplinare, per quella parte del clero che avesse fatto professione di liberalismo: una situazione che rimase immutata, se non modificata in peggio, dopo la conquista di Roma da parte dello Stato italiano, tanto che le norme della «Sacra Penitenzieria» (già dettate negli anni 1860-63) furono integralmente rinnovate, nel testo originario, il 15 gennaio 1872, dietro esplicita richiesta del nuovo vescovo dei Marsi mons. Federigo De Giacomo (35). Tuttavia, vi furono anche sacerdoti e monaci che appoggiarono apertamente, in misura piú o meno accentuata, i ribelli e le forze reazionarie: «II clero (di Tagliacozzo) in generale è cattivo, irrequieto, preponderante, avverso alle libere istituzioni, eccettuandone i reverendi Gattinara don Giuseppe, don Marco Rubeo e don Pietro Giovannantonio (…)» (36).
Anche se questo giudizio del Bianco di Saint Jorioz è inficiato di «piemontesismo» ed è giustificabile solo in rapporto alla situazione di emergenza nella quale egli stava operando (si pensi che la sua «relazione» fu scritta giorno per giorno, mentre il Jorioz si trovava a combattere una autentica «guerra di frontiera»), non si può dire tuttavia che egli avesse inventato di sana pianta quanto va narrando nelle sue trecento e piú pagine, e nemmeno che avesse scaricato irrazionalmente ed emotivamente sul clero della Marsica tutto il suo congenito anticlericalismo. Qualcosa di vero doveva pur esservi, se appena qualche decennio prima (precisamente, in occasione dei moti rivoluzionari del 1821) il vescovo dell’epoca, mons.Saverio Durini, aveva stilato un documento («Scrutinio del Clero») in risposta ad una precisa richiesta delle autorità civili: quanti preti e frati «carbonari», cioè, e quanti «senza macchia politica» esistessero nella diocesi dei Marsi. Mons.Durini, attraverso meticolose informazioni, era riuscito ad appurare che solo 65 preti della Marsica avevano aderito, nei mesi precedenti, alla Carboneria o alle «idee carboniche». La maggioranza, invece — e il vescovo ne elenca ben 231 — era rimasta sinceramente fedele alla monarchia borbonica. Adesso (anni 1860 e ss.), pur essendosi rovesciata la situazione sul piano politico, non era umanamente possibile che tutto il clero marsicano (da secoli filo-borbonico) si dichiarasse improvvisamente pronto ad accettare con entusiasmo il nuovo stato di cose.
D’altra parte, la struttura stessa della Chiesa marsicana (come di tutta quella del Meridione), la quale, piú che parrocchiale, era ricettizia e patronale, si adattava meglio ad un sistema politico di tipo feudale che ad uno Stato liberale e parlamentare (e, per giunta, programmaticamente e dichiaratamente «laico») (37). E se nel 1806-1807, nell’azione che Giuseppe Bonaparte aveva intrapreso per eliminare il brigantaggio meridionale, il re aveva potuto contare sull’appoggio di parte della gerarchia ecclesiastica (38); e se, negli anni immediatamente successivi, il re Ferdinando I e il suo successore Ferdinando II potranno sempre contare sulla fedeltà e sull’appoggio dei vescovi e dei sacerdoti delle diocesi periferiche del Regno (39); nel periodo 1860-76 il nuovo governo, presentandosi come nemico del Papa e conquistatore quasi «intruso» del Meridione (40), non poteva indubbiamente essere gradito ad un clero che, tranne eccezioni, non aveva nulla da guadagnare dalla nuova situazione (41).
D’altro canto, le stesse autorità politiche e militari accusavano apertamente il clero di essere dalla parte della «reazione». II 16 maggio del 1861, dal Ministero di Grazia e Giustizia e degli Affari Ecclesiastici del Regno d’Italia (e, precisamente, dal Segretario Generale delle Province Napoletane) veniva inviata una lettera ai vescovi del Meridione, nella quale si elencavano tutte le manifestazioni di «aperta ostilità» del clero nei confronti del nuovo Stato:
«(…) proclamare e dichiarare intruso il Governo del Re; usurpate le Provincie cui estende il suo impero; ed illegittime le autorità da lui istituite; vietare il canto del Te Deum, e la colletta pro Rege nelle orazioni; proibire le luminarie nelle feste civili, e l’uso di coccarde, o altri segni esteriori autorizzati dal Governo; proibire l’intervento del clero nelle funzioni ecclesiastiche per festività civili, e lo arrollamento delle Guardie Nazionali, e quello ch’è piú, incitarle alla diserzione; vietare la prestazione del giuramento secondo la formola prescritta da solenni leggi dello Stato; negare i sacramenti, ed anche la sepoltura, a coloro che avessero verso del Governo prestati gli atti disapprovati (…):
questi e simili responsi non sono al certo risoluzioni di dubbi in fatto di costume e di coscienza; ma prescrivono atto di aperta ostilità contro l’Augusta persona del Re, il suo governo e le sue leggi, e tendono a sovvertire ogni sicurezza ed ordine sociale» (42). Comunque, in genere, il clero della Marsica rimase in una posizione di attesa, senza schierarsi apertamente a fianco dell’uno o dell’altro dei due contendenti. Molti sacerdoti cercarono di salvare il salvabile (sul piano morale e materiale), di difendersi entro i limiti della legalità dalle cosiddette «leggi eversive» (soprattutto quelle del 1866-67), magari ricorrendo ai Tribunali per far valere i propri diritti, ma quasi mai entrando in aperto conflitto con le autorità dello Stato o con quelle civili locali.
NOTE