“Papà, ma con che coraggio te ne stai lì a Palermo?” Nella sala a pianterreno di una villa di campagna, quello che era un vecchio rudere rimesso in piedi, a Prata, sulle colline intorno ad Avellino, padre e figlio sono seduti l’uno di fronte all’altro. Sono i giorni intorno al Ferragosto del 1982 e, come è consuetudine da qualche anno, il padre ama riunire in quel luogo tutta la famiglia per una settimana, un lasso di tempo che poi però finisce sempre per trasformarsi in una permanenza di una decina di giorni.
L’uomo è il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, 62 anni, l’artefice, negli anni precedenti, col Nucleo Speciale Antiterrorismo da lui voluto e guidato con sistemi di investigazione innovativi, di brillanti operazioni che avevano permesso di debellare, di fatto, l’azione delle Brigate Rosse. Seduto di fronte a lui, in quel lontano giorno di agosto di 42 anni fa, c’è il figlio 33enne, Nando Dalla Chiesa, sociologo e già autore di alcuni testi.
Ma per il generale quelli sono mesi difficili, tormentati. Con il recente conferimento della nomina a prefetto di Palermo, gli è stato affidato un compito ad altissimo rischio: combattere una mafia che insanguina ogni giorno strade e quartieri della città. Lui stesso aveva preso possesso della carica, a Palermo, nei giorni in cui veniva ucciso Pio La Torre, il parlamentare nonché segretario regionale del PCI, estensore dell’importante disegno di legge che introduceva il reato di associazione di tipo mafioso, che sarebbe stato approvato, però, solo dopo la morte di Dalla Chiesa.
Ma Palermo, in quell’estate ’82, vive un’autentica mattanza, che vede i corleonesi spadroneggiare con ferocia ed eliminare chiunque possa ostacolare il loro dominio, quasi beffandosi di istituzioni che assistono impotenti a questa carneficina. Proprio per questo il Governo aveva affidato a Dalla Chiesa non una ‘semplice’ prefettura, ma il coordinamento, sia sul piano nazionale che su quello locale, della lotta alla mafia.
Il problema è che questo impegno, con i relativi strumenti, tarda ad essere messo in atto, a trovare sostanza nei fatti.
Così il generale freme, avverte intorno alla sua figura un crescente isolamento. Soprattutto si rende conto di come all’interno dei partiti ci siano forze che si combattono, con una consistente parte degli stessi apparati istituzionali, in particolare della DC siciliana, che fanno resistenza all’idea di offrire al generale i poteri e l’autonomia richiesta. Li denuncia, questi indugi e ritardi, con una clamorosa intervista a Giorgio Bocca, che appare su Repubblica del 10 agosto.
Ma il generale è un uomo non abituato ad arrendersi. A Palermo, dove è stato accompagnato dalla giovane moglie Elisabetta Setti Carraro –sposata appena a luglio- si muove in autonomia, si fa vedere in giro, come accade quando alle sette di un mattino si muove, da solo, fra le bancarelle di un grande mercato palermitano, di certo osservato da cento occhi.
Ma ormai Dalla Chiesa, nel suo isolamento, è un obiettivo facile. L’agguato mortale scatta alle 21 e 15 del 3 settembre 1982, quando la A 112 condotta dalla moglie, con a fianco il generale, fu affiancata da una Bmw dalla quale i killer esplosero decine di colpi di Kalashnikov, uccidendo Dalla Chiesa e la moglie. Anche l’agente di scorta, Domenico Russo, che li seguiva con l’auto di scorta, fu raggiunto da colpi esplosi da una motocicletta, che faceva parte del commando. Russo morirà in ospedale, dopo dodici giorni di agonia.
In via Carini, sul luogo dell’agguato, veniva lasciato un cartello anonimo: Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.“Papà, ma con che coraggio te ne stai lì a Palermo?” Il generale guarda fisso il figlio: “Nando, ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli”.
(maurizio cichetti)