Muzio Febonio

Testi tratti dal libro Muzio Febonio, prelato, storico e poeta abruzzese del ‘600
(Testi a cura del prof. Vittoriano Esposito)

Addi 13 luglio 1597. (1) Mutio figliolo di messer Titta Febonio e di Madonna Clelia sua moglie, battezzato da me don Giovanni Lepore, tenuto al fonte [battesimale] da me Giovanni Battista d’Orlando “. E’ quanto risulta dal registro dei battesimi conservato nell’archivio della Cattedrale di Avezzano. La famiglia Febonio, quando nacque Muzio (secondo di sei 6gli, nati nell’arco di dodici anni, nel seguente ordine: Giulia nel 1596, Muzio nel 1597, Porzia nel 1598, Sulpizia nel 1601, Armilla nel 1605 e Asdrubale nel 1607), poteva vantare già un lungo servizio e molta fedeltà all’illustre casato dei Colonna, potenti signori di Roma e feudatari della Marsica: servizio e fedeltà dimostrati con la spada e con la penna.

Tra gli avi più prossimi del Nostro c’era stato anche un Matteo Febonio, il quale verso il 1560 fu Vicario Generale di Anagni e nel 1564 venne nominato alla Cattedra di Celano. Ma il parente più noto, e anche più importante per la diretta irruenza che ebbe ad esercitare sulla vita e sull’educazione del piccolo Muzio, fu il Cardinale e storico Cesare Baronio, suo zio in linea materna, essendo nato da una Porzia Febonio e da Camillo Baronio, nobiluomo di Sora. Muzio Febonio si dovette recare per tempo a Roma, Dove fu avviato dal Baronio agli studi e poi alla carriera ecclesiastica. Della sua giovinezza e del suo tirocinio letterario non si sa nulla di rilevante. La prima data notevole della sua vita è quella del 1631, anno in cui fu chiamato all’Abazia di S. Cesidio in Trasacco per interessamento di Marcantonio Colonna, Gran Contestabile del Regno di Napoli. Rimase a Trasacco fino ai primi del 1648, con qualche breve interruzione per viaggi a Roma, Assisi e Pistoia, compiuti per motivi di ricerche o affari connessi ai suoi uffici di Abate e ” servitore ” dei Colonna. Nel 1643 pubblicò, con dedica al Cardinale Mazzarino, la Vita delli gloriosi Martiri S. Cesidio Prete e S. Rufino suo padre primo Vescovo de’ Marsi.

L’opera era frutto di appassionate indagini e preludeva ad un ” più lungo discorso ” che egli intendeva fare in una Storia dei Marsi, in lingua latina, cui stava lavorando. Si legge infatti nel Proemio: ” … dopo aver cercato molte antiche scritture e memorie, sono stato anco in persona in quei luoghi dove la necessità dell’opera mi astringeva, e con più lungo discorso, nell’annotazioni alla latina, che nella descrizione de’ Popoli de’ Marsi, che sta ora sotto la mia penna (piacendo a Iddio) si vedrà approvato in tutto. Le quali annotazioni con il compendio della vita medesima e altri antichi documenti, ha avuto da me il Sig. Francesco Brunetto di Campoli, che scrive le antichità del Regno di Napoli, e per le mani d’un mio amico, con un breve discorso volgare di questi paesi, fatto anco da me, sono pervenuti in Napoli in potere di altro scrittore, che è per darle alle stampe. Il che mi ha affrettato a dar fuora la presente giudicando non poter così presto compire l’opera incominciata, la quale ancor per essere latina, non potrà soddisfare alla divotione de’ molti, che non sono intendenti di quella lingua “.

Le cose, poi, andarono diversamente da come egli si era proposto: lo studio più ampio e organico su S. Cesidio e S. Rufino non si trova infatti nella Historia Marsoram (la quale però, come si vedrà tra poco, non corrisponde all’originale, andato perduto per una ingarbugliata vicenda toccata ai manoscritti feboniani), ma costituirà l’oggetto di un altro lavoro, anch’esso in italiano, rimasto inedito e rinvenuto recentemente dal Morelli. Nel 1648 il Febonio rinunciò all’Abazia di Trasacco ” per liberarsi dalla cura dell’anime “, come scriverà più tardi a Lukas Holstenius (2), in una lettera del 9 febbraio 1652, e ottenne l’incarico di Vicario Generale presso la Cattedrale di Sulmona. Con la stessa nomina passò, ai primi del 1651, nella città dell’Aquila e subito l’entusiasmò l’idea di poter ” vedere all’intorno gran memorie antiche e vestigi di più lochi ” (lett. allo Holstenius del 21 febbraio 1651).

Il soggiorno aquilano durò appena tre anni e rappresenta quasi una parentesi di creatività letteraria nella persistente vocazione storiografica del Febonio: in quel periodo, infatti, apparvero un dramma sacro dal titolo S. Bartolomeo Apost. Martirizzato (1651) e gli idilli de L’Amor divino due volte bendato (1653). Due opere abbastanza singolari e rimaste sconosciute agli stessi studiosi del Febonio, a partire dal Corsignani: della prima, secondo il Morelli, non esisterebbero copie ” in nessuna biblioteca ” e sarebbe ricordata solo dal Pansa in un saggio del 1900 (3); della seconda, esiste una Sola copia nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che noi abbiamo potuto controllare di persona. Un po’ curiosa la sorte capitata a L’Amor divino due volte bendato, il cui testo fu, con la complicità degli amici dell’autore, trafugato dal tipografo Gregorio Gobbi. Ce ne informa una simpatica noterella dello stesso editore premessa all’opuscolo e lo conferma il Febonio in una lettera allo Holstenius del 19 luglio 1653, in cui scrive: ” Questi signori aquilani amici, che per curiosità leggettero duo idilli sacri, che dettai un tempo fa, gli hanno dati alle stampe, et con rossore li mando a V.S .Ill.ma più in ossequio della mia servitù che perché meritino essere letti per il stile, se ben per il soggetto erano di altro canto; la mia rozzezza serrà scusata dall’affetto della devotione che li ha dettati “.

Sull’importanza dei due idilli ci soffermeremo più avanti. La permanenza a L’Aquila non fu sempre serena per il Febonio, dapprima per delle gravi accuse di simonia e di omicidio mossegli dall’Arcidiacono Angelini, succedutogli nell’Abazia di Trasacco, e poi per dissapori col nuovo Vescovo Francesco Tellio de Leon, eletto da Filippo IV il l’ luglio 1654 alla Cattedra aquilana, su designazione della nobiltà locale, che da tre anni insisteva per la nomina d’un Vescovo spagnolo, contro il Capitolo e lo stesso popolo, i quali invece preferivano un italiano. Ci restano due interessanti lettere, dirette a L. Holstenius, a documentare questi difficili momenti della sua vita: nella prima, datata 9 febbraio 1652, sostiene che l’Angelini, ” escluso dalla nuova pretenzione ” di esser Vicario nella Cattedra di S. Cesidio, vuol vendicarsi procurando ” una fede falsa che io havessi armato con li miei fratelli et incorso in colpa d’omicidio per non poter ritenere l’Abazia, l’habbia rinunciata per pigliarmene centinaia di ducati “.

La verità, invece, è che l’Angelini è ” solito di delinquere in simili materie “, è un ” chierico ignorante ” e incapace ” di delegatione “, ordinariamente ” persona rilassata “, ” pubblico concubinario ” e ” per molti ecccssi fu carcerato di mio ordine ” ed attualmente ” si trova nominato col Capitolo>>. Se egli ha rinunciato all’Abazia di Trasacco,è stato per ben altri motivi: ” io non conosco altre armi dice che la mia penna e qualche straccio di libro per passare l’otio et esercitare la mia professione “. L’altra lettera, scritta da Avezzano il 20 agosto 1654 dopo l’abbandono del vicariato della Cattedra aquilana, contiène una pressante richiesta d’intercessione per ottenere un nuovo incarico: ” Non è stato possibile cosi comincia continuare col nuovo Vescovo, che mostrandomesi contrario, sono stato costretto lasciare, et ritirarmi alla casa e patria, dove mi trovo, e per non ammarcire nell’otio, vado pensando con la gratia di V. S .Ill.ma havere qualche occupatione di trattenimento. Mi si dice che vachi l’uffcio del segretariato della fabbrica di S. Pietro in Napoli, che spetta all’Em.mo Barberino conferirla, se a V. S. Ill.ma paresse a proposito e giudicare che facesse per me, et volesse interponerci la sua intercessione, ardisco di supplicarla o se giudicasse altra occupazione di vescovato o carica che facesse per le mie forze; mi rimetto alle sue gratie preponermi per procurarla “.

E conclude: ” Se la mutatione dell’aria in questi tempi non fosse pericolosa, mi saria trasferito a Roma come spero alla rinfrescata (…) “. L’aspirazione principale del Febonio rimase delusa, non si sa se per mancata intercessione dello Holstenius, nominato da circa un anno bibliotecario della Vaticana, o per difficoltà insormontabili. Dall’epistolario, recuperato solo parzialmente, si può desumere che un nuovo incarico gli fu affidato tra il 1656 e il 1660 poiché l’ultima lettera spedita da Avezzano è appunto del 4 marzo 1656 e la prima da Pescina, sua nuova destinazione, è del 27 febbraio 1660. Quale fosse il nuovo incarico non risulta ben chiaro, ma e certo che inizialmente fu a fianco del Vicario di quel vescovati, D. Pietro Francesco Cestone di Veroli, ” la cui scarsissima istruzione era di danno alla Sede ” (4).

Gli anni trascorsi in ozio, cioè senza un ufficio particolare, dovettero essere i più fruttuosi per i suoi studi storici e agiografici. Potè affrontare senz’altro con maggiore impegno la stesura della Historia Marsorum, che gli era stata suggerita molti anni prima da una certo Padre Cesare Preccilli e che, come si è visto, era stata iniziata già nel 1643. Probabilmente la prima stesura era giunta a buon punto proprio intorno al 1660, se l’8 gennaio del ’61 l’autore potè scrivere all’Ughelli in questi termini: ” II P.re Cesare Preccilli (che sia in gloria) mi costrinse a imbrattare le carte in materie le quali ne era digiuno, e per animarmi mi diete le direzioni e l’orditura; scrissi per obedire et esso a pena ne vidde alcuni chinternetti. So che ho errato in metter mano a cose non conosciute da me, et havendo caminato tentoni in materie antiche, merito biasimo; ma se per sorte fussero li errori in qualche parte compatibili, non vorria perdere la carta.

La confidenza che ho con V.S. Ill.ma mi astringe a sottoporla prima al suo giudizio, acciò con la ingenuità solita, mi favorisca dirmene quello ne sente, so che li è incommodo, e come la lettura sia disagiata le serrà tediosa, ma il compatire l’imperfetioni è proprio delli amici e padroni; ce ne mando alcuni chinternetti copiati con fatica et le chiedo darmene saggio, mentre con ricordarle la mia osservanza, le bagio cordialmente le mani “. Ferdinando Ughelli (Firenze 1595 Roma 1670), Abate cistercense, autore dell’Italia Sacra, colossale opera in nove volumi ancor oggi fondamentale per la nostra storia ecclesiastica, era ritenuto un insigne maestro di erudizione. qui l’eccessiva modestia con cui il Febonio si rivolge a lui, per ave r averne un giudizio spassionato e confortante. Il giudizio dovette essere sostanzialmente favorevole, se qualche mese dopo il Febonio gli scrisse ancora per dire: ” Mi sono cosi fatto animo del sprone che con la sua, V. Rev.ma mi ha dato che ho ripercorsa l’opera et andando emendando i difetti che ci conosco, di breve compirò quanto ci manca per condurla alla fine “. Gli chiede, anzi, di presentarla al Cardinale Colonna, affinché ” si compiaccia comparisca al mondo con il suo hon.mo nome “. E conclude: ” … so che V. P. Rev.ma m’ama et credo l’affetto che porta a questa fatica; et mi comprometto honorerà la mia temità di questo appoggio et aspettando intendere, ne accetta ‘attestato; le fo riverenza e bagio le mani “. (Pescina, 18 giugno 1661).

L’opera fu terminata tra il ’61 e il ’62. Infatti, un’altra brevissima lettera all’Ughelli, inviatagli da Pescina il marzo 1662, accenna ad una revisione di quella che doveva essere la copia definitiva. Dice testualmente: ” Havendo fatto esemplare la copia della descritione de’ Marsi e stando rivedendola per seguitare l’indirizzo di V. P. Rev.ma mi saria caro sapere se havesse havuto occasione di preponerla all’Em.mo Colonna acciò possa pensare d’indirizzarcela con la scorta et protetione de’ favori di V. Rev.ma con supplicarla a darmene parte, riverendo a e bagio le care mani “. Nel marzo del 1662, dunque, il Febonio stava rivedendo la sua opera maggiore secondo ” l’indirizzo ” suggeritogli dall’Uvhelli. Si può quindi credere che tra quel a data e il giorno della sua morte, avvenuta a Pescina il 3 gennaio 1663, egli riuscisse a portare a termine anche la revisione del suo lavoro? E’ legittimo avere qualche dubbio. Il Morelli, invece, se ne dichiara convinto.

Abbiamo la certezza dunque – il Febonio terminò la storia dei Marsi e che, fu approvata dall’autorità di uno storico, e stava ultimando di trascrivere la copia definitiva da mandare al tipografo. Questa copia quindi dovette essere stata spedita a Roma all’Ughelli, o direttamente a un tipografo, e ciò spiega perché il fratello Asdrubale Febonio non la rinvenisse tra le carte lasciate dal congiunto; trovò solo appunti sparsi, per cui pensò bene di farli ordinare: con quale profitto gli studiosi già sanno, di aver essi con frequenza rilevato in quella edizione strane fantasticherie. Purtroppo nel fondo Barberiniano presso la Biblioteca Vaticana, dove sono conservate tutte le carte ughelliane, della storia feboniana non vi è traccia “. (La sottolineatura è nostra).

L’opera sarà pubblicata, a cura del nuovo vescovo dei Marsi Diego Petra, cinque anni dopo la morte dell’autore col seguente titolo: Historiae Marsorum Libri tres uea cum eoruedem episcoporum catalogo. Auctore Mutio Phoebonio Marso, U. J. D. Protonotario Apostolico, Ecclesiae Transaqaensis Abbate, et Marsorum Vicario Generali. Illustrissimo & Reverendissimo Domino D. Didaco Petra Marsorum Fpiscopo qui opus hoc posthumum illustravit, & auxit. Neapoli apud Michaelem Afonochum, 1678. Pur non essendo nella forma originale data dall’autore, i tre libri della Historia Marsorum incontrarono subito il favore degli studiosi e più tardi, nel 1723-25, furono inclusi dal Burman nel Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae (vol. IX, parte IV).

Altra opera postuma del Febonio, apparsa in Roma nel 1663 per i tipi della tipografia di Nicolò Angelo Tinassi, s’intitola: Vita di S. Berardo Cardinale del titolo di S. Grisogono e di altri Santi della Diocesi de’ Marsi raccolte dal Dottor Mutio Febonio abate di Tra sacco. L’opera dedicata al ” Monsignor Diego Petra Vescovo dell’istessa Diocesi “, contiene le vite dei seguenti altri Santi: Beato Tommaso da Celano, S. Orante della Terra di Ortucchio, Beato Oddo (monaco certosino), S. Gemma della terra di San Sebastiano, S. Pietro eremita di Rocca di Botte e i Santi Martiri Simplicio, Costanzo e Vittoriano venerati a Celano. Della sola Vita di S. Berardo Cardinale si fece una nuova edizione nel 1678, presso la stamperia Barberina del Ruzzoli in Palestrina, a spese del sig. Costantino Grossi da Pescina e dedicata ” al Rev.mo Capitolo, Signori Arcidiacono e Canonici della Città di Pescina “. Che il Febonio avesse lasciato altro materiale inedito, si sapeva gia a molto e anche se non se ne conosceva la reale consistenza: il Corsignani prima (5) e il Soria poi (6), avevano molto genericamente parlato di opere in prosa e in versi.

Ma solo di recente, per merito del Morelli, si sono rinvenute ben otto biografie di Santi marsicani, contenute tutte nel codice 2375 della Biblioteca Casanatense di Roma, nell’ordine che segue: Vita di San Rufino Martire Vescovo de’ Marsi e di S. Cesidio Prete suo figlio et Compagni tratta dagli Atti della Chiesa di Trasacco, Assisi e Pistoia (cc. 77-114 v.);
2) Dell’inventione de’ Corpi de’ SS. Martiri Costantno, Simplicio e Vittoriano, Stefano, Giovanni e Vittore; Fondatione della Chiesa di Celano e Vita del Beato Giovanni da Fuligno (cc. 117-130);
3) Vita di S. Giusto Martire Diacono della Chiesa de’ Marsi (cc. 131-32);
4) Di due monaci martiri di Valeria, la festa dei quali si celebra li 15 febbraio (cc. 133-134);
5) Vita di Santa Gemma Vergine della Terra di S. Sebastiaeo, il cui corpo riposa in Goriano Sicoli (cc. 135-143) ;
6) Vita di S. Pietro Eremita della Rocca di Botte il cui corpo si conserva nella Terra di Trevi e la festa celebrasi il giorno trigesimo di agosto (cc. 144-154 v.);
7) Vita de’ Santi Martiri Giovanni, Vittore et Stefano, scritta dal Dr. Mutio Febbonio di Trasacco (cc. 155-160 v.);
8) Vita di Bonifacio Papa Quarto (cc. 161-167).

Si tratta di un ritrovamento cospicuo, come ognuno può constatare, ma che non manca di qualche piccola ombra, poiché il codice non reca il nome dell’autore, che compare solo nel penultimo manoscritto e risulta, per giunta, annotato da mano posteriore. Il Morelli è sicuro, tuttavia, di poterli attribuire al Febonio per varie ragioni, la principale delle quali consiste nel fatto che il codice contiene ” numerose note e pentimenti “, che sono “inequivocabilmente ” della stessa mano degli autografi feboniani esistenti nella Biblioteca Vaticana. La questione, cosi pare almeno, puà considerarsi chiusa. Non altrettanto, a nostro parere, si può dire dell’altra questione, assai più delicata, che il Morelli solleva circa i rapporti tra il Febonio e il Corsignani a proposito del De viris illustribus Marsorum. Già il Soria aveva sostenuto che questa opera è del Febonio e che il Corsignani se ne appropriò quando era ancora inedita e poi la pubblicò come sua.

Ora il Morelli, riprendendo questa tesi, crede di poterla corroborare con le seguenti ” circostanze “:
1) tra i molti manoscritti lasciati dal Febonio, uno doveva sicuramente riguardare gli uomini illustri marsicani, come lascia pensare un passo dell’Appendice alla sua Historia, là dove, parlando del Vescovo Alessandro De Ponte di Corcumello, dice: ” Est familia praefata De Pontibus ex nostratibus insignis procerum et ecclesiarum de viris illustribus agemus dicemus ” (citiamo dall’opera del Morelli);
2) tutti i manoscritti del Febonio 6nirono nelle mani di un certo I. C. Florindo di Collelongo, presso il quale poté consultarli personalmente il Corsignani, come si ricava da una pagina della Reggia;
3) il fatto che il Corsignani ” abbia tralasciato di darci, di quei manoscritti, un elenco ed una descrizione completa ” pur riconoscendone l’importanza, è piuttosto strano e autorizza a credere che volesse appunto manometterli e appropriarsene. A noi sembra francamente che, pur con queste ” circostanze “, non si riesca affatto a dimostrare la grave accusa di manomissione e appropriazione rivolta al Corsignani.

Si resta invischiati tra la supposizione e il sospetto; null’altro. In casi del genere, mancando decisive prove esterne, occorrerebbe procedere ad un rigoroso vaglio delle cosiddette prove interne, ossia grafiche stilistiche ecc., cosa che non è stata neppure tentata fino ad oggi. Noi siamo, comunque, convinti che uno studioso serio e probo come il Corsignani, che cita decine e decine di fonti – anche oscure e anonime – messe a frutto per le proprie opere, non poteva assolutamente macchiarsi di una cosi grave colpa. E torniamo, per un momento, al Febonio poeta. Non potendo dir nulla sul dramma sacro dedicato al martirio di S. Bartolomeo, opera posseduta un tempo da Giovanni Pansa e andata poi smarrita – è una nostra ipotesi – con la parziale dispersione della sua ricchissima biblioteca, dobbiamo limitarci alla sola lettura degli Idilli sacri. Questi, come si è già detto, furono scritti e pubblicati quando il Febonio era Vicario Generale ” della fedelissima città dell’Aquila “. Dedicandoli a Donna Isabella Gioemi Colonna, Principessa di Castiglione e Duchessa di Tagliacozzo, l’autore dichiarava testualmente: ”

Gli affetti di divotione vengono eccitati dalle tribolationi, né cetra è sonora, se le corde non sono percosse. Nel rammarico d’una lunga infermità e agitatione d’avversa fortuna ho accoppiate le voci al canto in queste note, che rappresento a V. E. come pegno della mia servitù. La rozzezza del canto sarà compatito dal gusto, che ella ha nelle cose di spirito, e non isdegnerà, che un vassallo le porga quelli frutti tali, quali il suo intelletto produce in atto di riverenza, che con questa humilmente le fà. Aquila 25 marzo 1653 “. Le ” tr.ibolazioni “, cui si accenna all’inizio della delica, sono le stesse di cui si è già parlato a proposito del soggiorno aquilano del Nostro. La lettera a Lukas Holstenius del 9 febbraio 1652, più volte citata, cominciava appunto cosi: ” In tutti gli stati bisogna tribolare; io che ho rinuntiato all’Abbadia di Trasacco per liberarmi dalla cura dell’anime, mi si va cercando d’inquisirmi di simonia, quale che avessi voluto evitare un pericolo per pencolare nell’altro; sia lode del Signore che lo permette “.

Il dolore, è risaputo, emerge tra tutti i motivi perennemente umani della poesia; e la poesia, per chi sappia intenderla e gustarla, è tra i farmaci più effcaci per lenire il dolore. Oggi, è vero, non si è in molti a credere nel potere catartico e consolatore dei poeti, eppure una tradizione risalente fino ad Omero afferma chiaramente che l’armonia del loro canto non solo ” vince di mille secoli il silenzio “, come ben disse il Foscolo, ma ripaga addirittura delle amarezze e, a volta a volta, addita la verità, sferza il vizio, discopre le brutture, accende passioni salutari, penetra il mistero della vita e della morte, si fa fede che sposta – evangelicamente – perfino le montagne. Taluni pensano che queste siano credenze ormai trapassate di fronte alle alchimie del ‘900, e invece sono state e sono tuttora la linfa vera della storia, e tramonteranno solo con l’uomo. Ebbene, se ci si accosta agli Idilli del Febonio con queste convinzioni, se ci si disporrà ad avere gusto ” nelle cose di spirito “, allora si potrà compatirne anche la ” rozzezza del canto “, poiché la si vedrà giustamente bilanciata dalla purezza del sentimento.

Quantunque il Febonio poeta sia indubbiamente meno interessante del Febonio storico, noi crediamo tuttavia che la scoperta dei suoi Idilli sacri costituisca un grosso avvenimento per la letteratura d’Abruzzo; non solo, ma può avere perfino un certo valore e significato per chi voglia riprendere eventualmente la polemica, sorta pochi decenni or sono, intorno al barocco letterario italiano. C’è ancora infatti, da noi, chi si chiede se il Seicento sia stato un secolo di decadenza o di rinnovamento e si mostra piuttosto propenso ad accettare la prima ipotesi, a ciò indotto dalle fondamentali osservazioni del De Sanctis e del Croce sul falso o sul vuoto interiore predominante nei più vari aspetti di quella civiltà, non escluso l’aspetto religioso. Eppure è da credere, col Belloni, che ” lo spirito religioso dell’Italia secentesca fu messo alla gogna sotto l’accusa di ipocrisia senza attenuanti ” con un giudizio sommario, ” fondato forse più su idee tradizionali o anche tendenziose, che non su indagini larghe e profonde “, giudizio in gran parte determinato o favorito dalle ” zelanti e interessate censure dei protestanti stranieri ” (7).

Da indagini più attente risulta, ad esempio, che l’oratoria sacra, benché sotto l’influsso del barocchismo deteriore, fu anche capace di tradursi in azione stimolando numerosi casi ” di esaltazione ascetica, e di ardore mistico, di fanatismo religioso individuale e collettivo”, di cui c’informano le cronache del tempo. Ma che dire della poesia religiosa? C’è in essa qualcosa che la riscatti dai rischi della retorica imperante? Nasce, almeno qualche volta, da una reale esigenza dello spirito? L’impressione generale che se ne riceve, è che si tratti di iin:i esercitazione artificiosa, col netto contrassegno di una cupa tristezza nascente dai ” temi tetri ” imposti dalle necessità controriformistiche. La mancanza di ” serenità “, a dire del Momigliano, sarebbe appunto la nota più caratteristica della dimenticata lirica sacra del ‘600, da cui si levano solo pochi ” accenti di schietta poesia ” (8). Ebbene, come e dove va collocato, nel quadro di questa lirica, L’Amor divino due volte bendato del Febonio? Sotto un certo rispetto, di carattere contenutistico, esso costituisce un caso un po’ a sé.

Già l’uso, nel sottotitolo, del termine ” idillio “, è abbastanza strano: esso, infatti, solitamente indicava un componimento poetico d’ispirazione pastorale e campestre; ben altro, è noto, sarà per il Leopardi, assai più tardi; ma per un poeta del ‘600, qual senso mai può avere ? Noi pensiamo che il Febonio, richiamandosi all’etimo greco-latino, lo adotti nel puro e semplice significato di ” poemetto “, cioè breve componimento, aperto a tutti i contenuti e capace di tutte le intonazioni. L’attributo ” sacro “, pertanto, ne è come il peso specifico e la denotazione qualificante. Anche l’argomento dei due Idilli esula dalla moda corrente in quegli anni, poiché non rientra affatto nei motivi ” tragici e tristi ” di cui parlano il Momigliano e altri studiosi: infatti il primo, che s’intitola esattamente Gesù smarrito, tratta del divino fanciullo che, all’insaputa dei genitori, s’intrattiene per tre giorni al Tempio, impegnando dei vecchi dottori in un colloquio per loro sconcertante; il secondo, che s’intitola Gesù nell’Eucarstia, ci parla della reale e pur misteriosa trasfigurazione del Cristo nel pane eucaristico.

Di triste, in tutto questo, non v’è altro che l’ansiosa ricerca del figliuolo da parte della madre, tema divenuto di cosi scottante attualità nei nostri tempi. Entrambi i componimenti esaltano, in effetti, la figura de l’Uomo-Dio e il suo amore per l’umanità peccatrice, amore che appare ” bendato “, ossia velato ma sicuro, primieramente nella veste di Gesù ancora bambino e poi, definitivamente, nel sacramento dell’Eucaristia. Quanto alla forma espressiva, non si può veramente dire che sia ” rozza “, come umilmente la definisce l’autore.

Anzi, il Febonio si mostra addirittura in grado di essere, quando vuole, al passo con la tendenza contemporanea dei marinisti, rifiutandone però le punte più stravaganti: li rincorre infatti sia pur raramente, a metafore ardite, quali ” sponde d’argento “, ” valli di cristallo ” e simili; qualche volta si avvale anche di antitesi concettuali e formali (es. ” ferisce l’occhio e rasserena il cuore “), di allitterazioni un po’ ingegnose (es. Gesù è ” Il sol di questo sole, la luce vera “, oppure ” Parto di questo sen, parte del cuore “), di arguzie verbali e giochi fonetici (es. ” Sospirava ai sospiri, piangeva al pianto “, ” vacillando discorra, / discorrendo vacilli “), riesce pertano a stabilire dei rapporti a orti analogici e allusivi d’un qualche effetto (es. la riapparizione improvvisa di Gesù è come un ” chiaro lampo de 1″eterna luce / … ne la notte del duol torbida, oscura “). Ma c’è da osservare che, nel suo fondo più vero, il Febomo resta ancorato alla tradizione classica in quanto attribuisce alla poesia dei fini pratici e morali, spogliando cosi il barocco di quella ” poetica del diletto e della meraviglia ” che, se ha il merito di aver aperto la strada alla moderna concezione autonomistica dell’arte, ha tuttavia il torto di aver troppo spesso eccessivamente distratto il linguaggio e l’immagine dalla semplicità e dalla naturalezza (9).


Note

(1) Questo profilo bio-bibliografico è stato ricostruito in larga parte sulla base dalle 15 lettere inedite ritrovate da Giorgio Morelli e pubblicate in appendice alle sue Notizie storiche su Afuzio Febonio, Roma 1965.
(2) Lukas Eiolstenius, nato ad Amburgo nel 1596 e morto a Roma nel 1661. Fu canonico e bibliotecario della Vaticana. Si occupà anche di filologia classica e curò l’edizione del Liber diureus Pontijr”cum Romanorum e del Codex regularum.
(3) G. Pansa, Osservazioni e aggiunte al saggio critico-bibliografico sulla tipografia abruzzese dal sec. XV al sec. XVIII (in ” Rassegna Abruzzese di Storia e Arte “, Casalbordino, 1900, n. 11-12).
(4) G. Morelli, op. cit. nella nota n. 1.
(5) P. A. Corsignani, Reggia Marsicana, vv. II, Napoli, Parrino 1738 (passino).
(6) F, A. Soria, Memorie storiche-critiche degli storici napoletani, Napoli, Stamperia Simoniana, 1781-82 (pp, 251-53).
(8) A. Momigliano, Storia della lett. ital., Milano-Messina, l’ ed. 1936.
(7) A. Belloni, Il Seicento, Milano. l’ ed. 1929, 5″ ed. 1958.
(9) Sulla natura e i limiti della cultura classica del Febonio si legga l’interessante ” comunicazione ” di Giulio Butticci annessa agli Atti del IV Convegno nazionale della cultura abruzzese, editi recentemente dall’I,S.A., Pescara.

 

 

 

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