Testi tratti dal libro Mario Pomilio Narratore e critico militante
(Testi a cura del prof. Vittoriano Esposito)
Anche prima e dopo di questo suo saggio fondamentale Pomilio si e interessato di una cosi scottante questioni. di particolare menzione e un breve articolo del ’65 in cui, preso atto della inattualità delle esperienze dialettali di tipo mistilingue (fatta eccezione di qualche caso relativamente valido), egli affronta il tema della presunta nascita di gerghi tecnologici che, a parere di taluni scrittori, dovrebbero rivoluzionare la nostra lingua. Riprendendo un suo spunto del saggio precedente, in cui negava esplicitamente ” la formazione d’un linguaggio autonomo e proprio del ceto industriale “, Pomilio fa notare opportunamente, d’accordo con i linguisti, che se la lingua ” da un lato accoglie parole derivanti dai nuovi gerghi tecnici e specialistici nel loro significato originario, dall’altro li trasforma, caricandoli di significati nuovi e trasformandoli cosi in traslati e figure ” “: basta pensare a termini come ” scontare “, ” svalutare “, ” carburante ” e ai loro derivati, usati ormai più in senso metaforico che in quello puramente tecnico, per convincersene.
S’illudono pertanto coloro che credono di rinnovare ” ab imis ” le strutture della nostra lingua mediante l’adozione d’un linguaggio tecnologico e, perfino, di un linguaggio personale di artificiosa invenzione: in tal modo si torna all’antico divario tra lingua parlata e lingua letteraria; per ostentare un mal concepito disprezzo verso la lingua nazionale, detta altrimenti ” lingua della borghesia “, si finisce per creare una nuova lingua d’elite, ancor più chiusa del tradizionale sermo illastris. Come pretendere di creare una nuova realtà linguistica a base popolare con un gergo da iniziati?
E’ assurdo; altrettanto assurdo e pretendere che tale gergo possa svolgere una funzione unificatrice tra la lingua e i dialetti, poiché, a dir vero, esso sorge come elemento disturbatore di quell’ormai secolare processo di accostamento delle classi popolari alla ‘lingua nazionale, che negli ultimi anni si e andato accentuando in virtù di numerosi fattori ben individuabili, tra cui principalmente l’estensione della scuola d’obbligo, la diffusione della cultura di massa, l’impiego sempre crescente dei mezzi di comunicazione del pensiero e delle immagini, l’emigrazione interna, l’inurbamento, ecc.
Se ben si riflette sulla situazione reale degli attuali rapporti tra lingua e dialetti, si noterà facilmente che essa risulta rovesciata rispetto al passato: l’italiano diventa sempre più lingua da comunicazione; e magari rinunzia a certi suoi connotati espressivi, a certa sua tonalità letteraria o poetica, ma intanto si fa più funzionale e via via penetra di se l’area del parlato e toglie spazio ai dialetti, ricevendone semmai in cambio proprio ciò che questi avevano in proprio, il senso del quotidiano e del familiare, quella forte impronta di comunicatività che le era sempre mancata Ne consegue che la lingua letteraria, per esser viva e vera, non ha più alcun bisogno di modellarsi sulla tradizione aulica che per secoli fu la sua forza e il suo vanto, ma anzi se ne distacca e s’accosta all’uso e si sforza di rispecchiarne la sintassi e le movenze e s’impone, tra mille spiegabili resistenze e difficoltà, di perdere le caratteristiche canoniche che possedeva in precedenza; e insomma, tende a raggiungere la ” naturalezza ” del parlato (la naturalezza a suo tempo tanto auspicata dal De Sanctis), mentre ne esce attenuata, com’e inevitabile, la sua vecchia espressività ed entrano in crisi certi suoi tradizionali stilemi illustri, certi paradigmi da ” lingua scritta “, certa sua tendenza lessicalmente conservatrice “.
La maggiore riprova di tutto questo si può rinvenire in gran parte della narrativa fiorita tra il ’45 e il ’65, la quale appunto ” ha cercato di consolidare gli acquisti nel senso della naturalezza in opere atteggiate secondo il tanto discusso ideale del linguaggio nazional-popolare, che e stata tra le ragioni della popolarità del nostro recente romanzo ” ‘R interessante constatare che, intorno al ’60, con la crisi del neorealismo, s’e messo in crisi non solo il romanzo ideologico, ma la stessa nozione di romanzo; e ciò, perché certi narratori hanno preteso che non importasse più narrare storie umane, nella lingua di tutti e che tutti comprendono, ma rifugiarsi in un mondo di ” evasione “, ove non occorre avere delle idee da propugnare, ma solo delle strane bizzarrie da rompere sul corpo vivo e mutevole della lingua. R accaduto, in sostanza, che per rincorrere una evanescente purezza formale, si sia da taluni smarrita la ” funzione mediatrice e democratica ” che la lingua può svolgere solo affidando alla parola ” quella pluralità di significati, o meglio, quella espressività polisensa, che la fa strumento di poesia, ma anche veicolo di più ampia comunicazione e portatrice di cultura alla generalità dei parlanti ” “.
In questo modo, il discorso di Pomilio sulle neoavanguardie e sul loro neo-panestetismo ridiventa discorso fondamentale sull’uomo, sulla cultura, sulla letteratura e su tutte le relative responsabilità. R il tema che maggiormente lo avvince e lo turba, quello del dovere morale che incombe su ogni tipo di operazione estetica o di avventura spirituale e attività speculativa. L’esperienza del ‘900 dimostra irrefutabilmente che non trovano spazio nell’anima, ma solo sfogo nel sangue, le tentazioni innovatrici e ribellistiche che non abbiano un fondamento etico. E’ stolto e delittuoso disancorare dal comune destino i compiti dello scrittore, con la pretesa che le colpe degli altri non lo riguardano: non esistono ” idee belle ” scisse dalla società in cui si vive; non esiste un’arte ” innocente “, specie se con essa si presume di promuovere nuove possibilità di concepire il reale. Dice pertanto benissimo Pomilio, concludendo una sua recensione-dialogo su un pregevole ‘libro di Angelo Romano: D’idee intorno all’arte come perpetuo ringiovanimento del mondo e proposta di modi espressivi e maniere di sentire indefinitamente nuovi e inediti sono pieni, per dirne una, i manifesti futuristi.
Ma poi non sorprende che una promessa d’avvenire affrancantesi disinvoltamente da ogni contesto mediato e da ogni impaccio o controllo etico, procedesse, per successive smagliature, fino a questa: L’avvenire ha bisogno di sangue sulla sua strada. Ha bisogno di vittime umane, di carneficine, con quel che segue; e che seguì […]. Val la pena di ricordarlo; vale anche la pena d’addossare in qualche modo all’artista il compito d’operare per la sua parte perché certe esperienze del male non abbiano a ripetersi: a costo di passare per velleitari o conformisti o stucchevoli ripetitori di tesi intorno alle quali s’e sfiancata (ma davvero inutilmente?) un’intera generazione di scrittori; a costo, anche, di farci accusare di voler distrarre nuovamente l’artista dai compiti suoi propri “. A fondamento di tutto il lavoro di Mario Pomilio, come si e potuto accertare fin qui, sia in sede creativa che in sede critica, l’impegno etico-civile costituisce una costante in continua e fervida ascesa.
Negli ultimi tempi, tale costante e venuta assumendo, senza mai snaturarsi, un empito sempre più marcatamente religioso via via che lo scrittore ha approfondito i temi del bene e del male alla luce dei Vangeli; talchè pare che oggi gli convenga, ancor più che in passato, il timore d’essere accusato ” di voler distrarre nuovamente l’artista dai compiti suoi propri “. Quali siano però questi compiti, nessuno saprebbe precisarlo con una definizione valida per tutti, allo stesso modo e nella stessa misura. La verità e che ogni artista autentico trova in se il coraggio di rispondere, nell’autonomia della propria coscienza, al bisogno di verità che dentro gli urge, ossia a quella che con termine abusato si dice vocazione. E la vocazione di Mario Pomilio e andata delineandosi sempre più e sempre meglio, nello spazio di un ventennio, come impegno di uno scrittore dichiaratamente cristiano, non chiuso in se stesso, ma aperto ai problemi più angustianti della nostra società, cosi sul piano morale come sul piano politico e finanche ideologico.
Che poi l’anelito di Pomilio a rivivere la parola del cristianesimo abbia obbedito ad una esigenza tutta personale di avanzamento progressivo, anche se spesso non rettilineo, in sintonia con quanto e accaduto nella più recente storia della Chiesa, può apparire di una ovvietà disarmante. Ma il tormento dello scrittore, si sa, nel segreto dell’anima chiede sempre prezzi da capogiro, specie se gli riesce impossibile trovare l’accordo con i propri tempi. Pomilio non si e mai nascosto un siffatto problema. Si veda, ad esempio, come egli ripercorre mentalmente il suo cammino, a venti anni di distanza dalla pubblicazione de L’uccello nella cupola: Vent’ anni sono molti: sono molti per uno scrittore che nel frattempo ha scritto altro, sono molti soprattutto per simili temi, visto che nel frattempo ci sono stati due pontificati, un Concilio, due Sinodi e tante altre cose – un processo di accelerazione e, diciamo, una rivoluzione quale non s’era vista dai primi secoli della Chiesa – che li hanno rimessi in questione radicalmente […]. più tardi, s’intende, sarebbe stato detto assai meglio, e assai di più. […] Ma già allora, nei limiti consentiti a un romanzo, e per di più al romanzo d’uno scrittore alla prima prova, e nei limiti della consapevolezza che ne potevo avere nel clima religioso di venti anni fa, io intravedevo (merito non mio: segno piuttosto che qualcosa era già nell’aria) certi dilemmi che sono emersi più tardi. Mi discostavo cioè, sia pure assai sommariamente, da una concezione rigoristica e quasi giudiziaria (e in ogni caso contro-riformistica) del ministero sacerdotale, e ad essa tentavo d’opporne una meno moralistica, più comunitaria e, se posso dir cosi, evangelica “.
Nel ventennio che intercorre tra il suo primo e il suo ultimo romanzo, Pomilio non ha mai cessato, neanche affrontando temi più scopertamente civili, di riproporre il problema che gli sembra centrale di una società cristiana, cioè quello del peccato, in ” termini più genuinamente evangelici ” rispetto al passato, e ” non solo riducendo il rilievo dato al solito tema del sesso, ma mandando definitivamente in soffitta (per fortuna, e già accaduto) certi orribili trattati di teologia morale, residui di quella mentalità casistica su cui per secoli s’e spossata la coscienza cristiana “; e postulando, all’opposto, ” una più varia presenza evangelica del sacerdote nel mondo: e in un mondo non rifiutato o guardato con sospetto, ma fatto campo di testimonianza e d’intervento “”. In conseguenza di una tale sua disposizione d’animo e di questi suoi convincimenti, Pomilio ha osato rigettare indietro l’immagine, come dice nel suo ultimo libro, di una Chiesa ” mummificata ” e ha guardato ” con simpatia a fenomeni come quello dei gruppi spontanei “, i quali, a suo giudizio, ” potrebbero avviare a impensate soluzioni la crisi della parrocchia e quella del sacerdote”.
In che senso e in che modo? Giova dilungarsi nella citazione dello stesso articolo: ” Cellule di una nuova spiritualità cristiana e in grado probabilmente di ricreare (o meglio, di reinventare) quella prima orditura di vita associativa cristiana venuta meno col dilacerarsi delle parrocchie, in esse il sacerdote potrebbe trovare sia il terreno ideale per un fresco apostolato e, diciamolo, perfino per un auspicabile ricambio culturale, sia un insperato sostegno laico per il suo impegno evangelico, sia addirittura un conforto, e più che un conforto, per la propria insicurezza e la propria solitudine ” “. Si potrebbe, a questo punto, tentare l’azzardo di un accostamento della visione cristiana di Pomilio con quella di certo modernismo tornato di moda, sotto aspetti diversi, in questi ultimi anni? Crediamo proprio di si; e non c’e motivo di dolersene, considerato l’atteggiamento di maggiore comprensione che la Chiesa e venuta assumendo, anche sotto la spinta di forze esterne, verso quel moto rinnovatore troppo drasticamente condannato dalla enciclica Pascendi dominici (8 sett. 1907), moto che mirava non solo a rivendicare il diritto di una possibile conciliazione tra indagine scientifica e disciplina religiosa, ma anche e soprattutto a postulare il dovere di rinsanguare con nuova linfa spirituale e insieme sociale la tradizione storica del Cristianesimo, svecchiandone la dottrina nei metodi e nelle formule per rendere il messaggio della redenzione umana più recepibile dalla coscienza moderna.
A ben pensarci, l’arte e il pensiero di Pomilio hanno accolto una larga parte delle istanze innovatrici di quell’eredita, a partire dal primo romanzo col suo ideale di un’ apostolato ” che trascendesse ogni distinzione di buoni e di cattivi “, per finire con l’ideale di una ” religione al servizio del mondo ” quale si configura nell’ultimo romanzo, dove, com’e noto, si fa ampio spazio alle ” voci del dissenso “, anch’esse tormentate dall’assillo ” del Vangelo da recuperarsi di continuo alle radici e, se non da rivivere, da riproporre di continuo “. Recuperare, dunque, il Vangelo; riattingere direttamente alla fonte primigenia del Cristianesimo, per rinnovare la Chiesa rinnovando se stessi. Non e un postulato retorico per Pomilio, bensì una necessita spirituale, cui egli cerca di soddisfare mediante una attenta rilettura dei sacri testi, visti anche sotto un’angolazione critico-letteraria che lo porta ad una scoperta di grande rilevanza come questa: Coi Vangeli la narrativa entra nella storia, e vi entra come narrazione in forme realistiche e a respiro popolare. Secoli di lettura prevalentemente religiosa ci hanno fatto quasi dimenticare che i Vangeli erano racconti.
E racconti non d’invenzione, perché intendevano tenersi al criterio del vero, e non obbedienti alle regole d’un genere letterario che pel momento non esisteva, e scritti in prosa, in un linguaggio parlato e popolare – quando la narrativa creata fino allora, nei poemi, era solenne e tutta in versi -, e indifferenti alle convenzioni che volevano stili distinti a seconda del livello degli argomenti e dei personaggi: racconti composti insomma con una liberta che avrebbe acquistata soltanto il romanzo, ma tanto più tardi “. Lo strano e che protagonista di questi racconti e ” un uomo che si dice Dio e intanto viene reso nel segno della concretezza e nei modi del più sommesso e disadorno oggettivismo “. Il caso si spiega col fatto che Gesù e personaggio della realtà, non e creatura del mito o dell’immaginazione. E allora accade che sia esso a ritrarre a se lo scrittore: non se ne lascia assoggettare, al contrario lo assoggetta, esige da lui le misure della testimonianza, gli preclude ogni strada alle avventure dell’immaginazione. […] Ma il personaggio di Gesù fa di più: fa si che lo scrittore estenda il metodo dell’impersonalità fino a scomparire veramente dietro di lui e a lasciarlo parlare il più possibile con le sue parole stesse “.
Ed e qui forse la novità maggiore dei Vangeli: che le parole, pur raccontando ciò che realmente e avvenuto ed e stato detto, assumono risonanze misteriose, si caricano di significati capaci di moltiplicarsi all’infinito: sono
parole insomma che per effetto di una inusitata intensificazione presentano come una continua eccedenza del senso rispetto al suono, che e poi il correlativo della eccedenza di Gesù rispetto agli autori che scrivono di lui “.
I quattro evangelisti, in fondo, lasciando che la vita di Gesù si rappresenti da se, ossia con le sue parole e con i suoi fatti, non presumendo mai di poterlo descrivere che nel suo divenire, finiscono per denunciare la propria impotenza nello sforzo di ” scrutare il senso ” che ne promana. Deriva appunto di qui, per Pomilio, l’implicita necessita del cristiano, in ogni tempo, di recuperare il Vangelo alle sue radici, spogliandolo delle inutili incrostazioni che la pigrizia morale vi fa accumulare tutt’intorno. R appena il caso di rilevare, a questo punto, che Il quinto Evangelio e stato, naturalmente, lo sbocco ultimo di tutte queste riflessioni.