Marsica – Ore 7:52 del 13 gennaio 1915, una scossa, la più impressionante e devastante dello sciame in atto, raggiunse magnitudo 7.0. Un boato mai udito prima polverizzò la città di Avezzano e altri paesi marsicani, annientando, in pochi istanti, l’esistenza di circa 30.000 persone. Fu un’ecatombe di portata epocale per la nostra terra. Sparirono intere famiglie, venne cancellata la vita sociale, economica e culturale di un intero territorio.
I sepolti, da vivi, cercarono in ogni modo di resistere al peso delle macerie, al freddo intenso di un gennaio nevoso, al silenzio che tanto somigliava a quello della morte. Alcune delle voci di chi è sopravvissuto sono raccolte qui di seguito, memorie dolorose di chi ha vissuto la tragedia di un evento sismico mai visto prima. “Rimanemmo sepolte per due giorni e due notti” racconta Francesca Biffi di Avezzano “mia madre chiamava disperatamente aiuto, non si sentiva un’anima, il silenzio faceva più paura, eravamo al limite delle forze”.
Saranno ritrovate due giorni più tardi, ferite, spossate, traumatizzate ma vive. I corpi di altre sorelline di Francesca furono rinvenuti sette mesi dopo e si capì che forse le bambine avevano tentato, inutilmente, di scavarsi una via d’uscita sotto i detriti. E poi, le tragiche immagini descritte dal luchese Pompeo Micocci, impegnato nei soccorsi: “sotto quei sassi trovammo sepolte ragazze di 17/18 anni, belle giovinette, ben vestite, ben pettinate, ordinate, diverse già erano sui banchi con i libri aperti, forse stavano ripassando la lezione“. Sono studentesse della Scuola Normale, spiega Micocci, ritrovate tutte senza vita. Scene strazianti che hanno segnato per sempre chi le ha viste e vissute. Scene che noi, oggi, possiamo solo riportare alla memoria, immaginare, raccontare.
C’è poi la voce di un’altra sopravvissuta, Rosa del Rosso, la quale ricorda: “Vicino casa ritrovarono dopo otto giorni Isterina Gatti sotto alcune travi che l’avevano protetta. Sotto le macerie partorì una bambina che si chiamò Fortunata, proprio perché si salvo dal sisma”. Perché anche nel cuore di una tragedia immane, la vita, a modo suo, sa trovare il modo di deflagrare, nonostante tutto.
Francesca Biffi di Avezzano
La donna e un po’ emozionata, ha qualche difficoltà a raccontare e ricordare quella brutta giornata di gennaio. La troviamo in casa tutta intenta a cucire un vestitino in una macchina da cucire e porta avanti il lavoro senza inforcare gli occhiali. Ecco che cosa ci racconta: «Mio nonno Antonio Antonini detto ”I ping” da giorni andava ripetendo a tutti i vicini di casa che l’acqua del pozzo, stranamente, bolliva; era un’acqua calda che lasciava presagire un terremoto di vaste proporzioni.
Diceva sempre ”Dormite fuori casa, dormite fuori casa”. Infatti egli si salvo perché quando avvenne il terremoto già da otto giorni dormiva nella stalla. Non gli demmo retta, purtroppo. Quella mattina mi trovavo in braccio a mia madre (Teresa Antonini) vicino al camino, mi doveva vestire. All’improvviso fummo ricoperte di calcinacci e di travi; rimanemmo sepolte per due giorni e due notti; mia madre chiamava disperatamente aiuto, non si sentiva un’anima, il silenzio faceva più paura, eravamo al limite delle forze. Nella notte tra il 15 ed il 16 sentimmo delle voci da lontano e poi sempre più vicine, erano i bersaglieri che con molta accortezza ci liberarono. Io riportai una frattura alla gamba destra e mia madre varie ferite.
Mio padre, invece, era uscito di buon mattino, aveva un appuntamento al caffè ”Il Pagliaro” con il facchino ”Piovere”, insieme dovevano spedire un vagone di patate per Roma, mio padre non si è più ritrovato. Altre tre sorelle erano sotto le botti della cantina, i loro corpi furono ritrovati dopo sette mesi. Non siamo mai riusciti a capire come si trovassero in quel luogo, dovevano essere ancora nel loro grande letto, si dormiva insieme. Probabilmente cercavano qualche varco per salvarsi. I soccorritori ci portarono alla stazione ferroviaria pronti per essere spediti in un ospedale di Roma. Purtroppo, e non so il motivo, ci separarono e ricordo che mia madre non voleva separarsi da me, urlava disperatamente e grande fu la commozione dei parenti e degli amici che erano venuti alla stazione per salutarci.
Appena il treno incomincia a muoversi lentamente dalla stazione di Avezzano diretto alla capitale la disperazione fu veramente grande. A Roma fui ricoverata al Bambin Gesù e mia madre al S. Giacomo, l’una non sapeva dove si trovava l’altra. Mia madre aveva dato le mie generalità ed alcuni segni particolari ad alcune nobildonne romane e se non ricordo male fu proprio la contessa Ida Montelli che attraverso una foto mi riconobbe anche perché avevo ed ho una piccola ”voglia” in testa. Solo dopo nove mesi riabbracciai mia madre, già mi davano morta. Quando tornammo a casa, trovammo un cumulo di sassi e senza sorelle e padre. Fu una vera tragedia. Ci rimasero solo gli occhi per piangere».
Nicola Iezzi di anni 90 di S. Benedetto dei Marsi
«Sant’Emidio! Sant’Emidio! Fu la prima invocazione di mia nonna che già presagiva il disastro. Mi ero appena alzato per andare a scuola quando vidi le sedie che ballavano, i tavoli ondeggiavano, le frasche vicino al camino sembravano esseri viventi. Avevo dieci anni e ricordo tutto, io mi salvai mentre un fratello ed un cugino morirono sotto le travi.
Con i miei occhi ho visto un pezzo di ferrovia venire alla luce, come pure ho visto la vecchia strada consolare Tiburtina Valeria che prima era ricoperta di terra. Fu una cosa spaventosa! Che Dio ce ne liberi! Faceva un freddo cane, tremavo e battevo i denti. Mi misero vicino al fuoco per riscaldarmi, ma la fiamma mi brucio i pantaloni, mi buttarono un secchio d’acqua addosso per spegnere il fuoco. Una zia si denudò per coprirmi, si tolse anche la sottana per proteggermi. Che disperazione! I cani randagi per la fame sbranavano i cadaveri. Alcuni carrettieri caricavano i morti e li scaricavano in una fossa comune del cimitero; i bambini morti li sistemavano, invece, nei cassetti del comò per evitare sempre la fame dei cani randagi. Avevo sempre una grande fame, i soldati preparavano da mangiare in un grosso calderone, c’era la cucina da campo. Il cibo che mi davano non mi bastava ed allora stavo sempre intorno alla mensa con la speranza di ricevere qualche piatto caldo oppure qualche pezzo di pane.
I soldati non riuscivano ad allontanarmi. Un giorno uno di essi mi fece arrivare uno schiaffone che per poco non mi faceva rotolare per terra. Avevo preso di nascosto un po’ di pane, forse era destinato ad altri disperati, forse era un pane razionato, forse dovevano rendere conto delle razioni distribuite; dovevano sfamare altre bocche, giustamente. Ero piccolo e non mi rendevo conto, pensavo alla mia fame e basta. Fu una vera disgrazia che non auguro a nessuno, dico a nessuno».
Rosa Del Rosso in Riccidi Avezzano
«Ricordo che ancora dormivo nel letto con i genitori e con due sorelle. Ci svegliammo di soprassalto e ci ritrovammo sotto le travi ed i calcinacci che ci seppellirono. Che spavento! che dolore! quante lacrime! Come se non bastasse poi venne pure la guerra. Già da alcuni giorni le vacche nella stalla davano segni di nervosismo e nella notte precedente al terremoto sembravano indemoniate, ruppero le catene della mangiatoia e scapparono via. Avevano avvertito che qualcosa di grave stava per accadere. Ho conosciuto un bravo prete di nome Don Luigi Orione, era venuto ad Avezzano e nella Marsica per prendere gli orfani, spesso veniva nel forno di mio padre a chiedere un po’ di pane per gli orfani che portava con se.
Questo prete era ben voluto dai pochi rimasti; ricordo che andava per i paesi a chiedere pane, farina, salsicce ed altri viveri per gli orfanelli. La disperazione era tanta e Don Orione, ricordo, ci diceva sempre coraggio! coraggio! la Divina Provvidenza non abbandona nessuno. Tra di noi vi fu una gara di solidarietà eccezionale, quel poco che si era salvato era di tutti. Questo prete faceva tanti viaggi di andata e ritorno Avezzano-Roma, sistemava nei collegi o negli ospedali i ragazzi e poi tornava, non si stancava mai, era sempre fresco di energie, era un bravo sacerdote e sapeva quel che voleva, era deciso in tutto. Vicino casa ritrovarono dopo otto giorni Isterina Gatti sotto alcune travi che l’avevano protetta. Sotto le macerie partorì una bambina che si chiamo Fortunata, proprio perché si salvo dal sisma. Isterina nell’atto di partorire si strappò una ciocca di capelli legandoli intorno all’ombelico della figlia. Si alimentò con gocce d’acqua che si scioglieva dalla neve. L’atto eroico fece tanta impressione che la Gatti ebbe un ambito premio».
Pompeio Micocci di Luco dei Marsi
«Quel brutto giorno mi trovavo a lavorare allo zuccherificio di Avezzano quando sentimmo un forte boato, era caduta la facciata dello stabilimento e precisamente la parte che da verso est, ovvero verso Fucino. Anche gli operai scapparono fuori dalla fabbrica. A Luco vi furono 152 morti, diversi feriti, cadde parte della torre campanaria, diverse abitazioni crollarono e molte rimasero lesionate, la parte di sotto del paese rimase quasi illesa. Noi eravamo carrettieri e a Luco c’era un impresario Paolo Ciocci che aveva l’incarico di rimuovere le macerie ed a sera dovevamo riportare i viveri per sfamare i terremotati di Luco. Dal mio paese partivano, ogni mattina, quaranta carretti, ogni mezzo era tirato da tre cavalli, un soldato doveva essere portato con noi per far
da scorta ai viveri che dovevamo riportare in paese, per strada, qualcosa poteva scomparire.
Era la fame che caccia i lupi dal bosco. A vedere quel cumulo di macerie faceva impressione, ma quel che mi spaventò fu il numero di cadaveri, non mi vergogno di riferire che spesso le ruote dei carretti passavano sopra i morti, senza pietà. Ricordo che era una crudeltà, mi veniva la pelle d’oca, i primi giorni provavo difficoltà, ma bisognava pur lavorare. Erano tanti che non sapevamo, in alcuni giorni, come evitarli. Ho partecipato alla rimozione del cumulo di pietre della Scuola Normale (oggi Istituto Magistrale), si trovava di fronte al Municipio, sotto quei sassi trovammo sepolte ragazze di 17/18 anni, belle giovinette, ben vestite, ben pettinate, ordinate, diverse già erano sui banchi con i libri aperti, forse stavano ripassando la lezione.
Quanto erano belle anche da morte! Dopo alcuni giorni passammo a sgomberare i magazzini ed il palazzo del principe Torlonia. Nel magazzino trovammo tante botti piene di vino, ma non assaggiammo neanche un bicchiere. Notai che i cerchi delle botti e gli zipoli erano di ottone, una cosa che non ho più visto in vita mia. Lavoro ce ne era tanto. Vennero altri impresari sia dal Sud che dal Nord Italia, molti di essi sono rimasti in città. Infatti Avezzano e tuttora ”Poliglotta” ».
Immacolata Trabucco di anni 89 Ortucchio
«Se non fosse stato per Don Luigi Orione forse la mia vita sarebbe stata diversa, ovvero in peggio. A distanza di anni Immacolata Trabucco di 89 anni ancora ricorda bene il prete che assieme ad altre sette orfanelle fu ricoverata all’Istituto delle Suore del Sacro Cuore, in via Cavour, di Roma. Dice Immacolata che stava piangendo la madre morta quando fu avvicinata dal sacerdote e fatta salire su una bella macchina, presa di forza al Re Vittorio Emanuele III in visita tra i terremotati della Marsica. Nell’istituto romano la Trabucco rimase per circa dieci anni. Tornata ad Ortucchio si sposo ed ebbe dieci figli». Le testimonianze sono state raccolte e trascritte da Luca Salvi.
Nonna Concettina di Avezzano
Mio padre, Antonio Pascale, frequento la scuola delle belle arti a Roma e si diplomo da intagliatore su legno e, poiche era un bravo flautista, faceva anche parte della banda musicale «Città di Avezzano», diretta dal maestro Edoardo Castrucci. Avendo già l’atto di richiamo per l’America, dopo i 15 giorni di festeggiamenti per l’inaugurazione della fontana di villa Torlonia, parti per l’America del nord spinto da un sogno di fanciullo: far rimettere i denti d’oro alla madre Concettina. Arrivato negli Stati Uniti d’America, iniziò a lavorare in una fabbrica di tagliole per i topi e fece l’atto di richiamo per il padre Giacomo e per i due fratelli, Leopoldo ed Enrico.
Poiché seppe che in Pensilvania i minatori avevano una ricompensa superiore a quella che guadagnava nella fabbrica, partì come minatore per la miniera di carbon fossile. Riusciva a mandare, alla madre, i dollari d’oro nascosti dentro le confezioni metalliche di caffè e di cacao. Nonna Concettina ebbe i suoi denti d’oro, ma mio padre non li vide mai, poiché il 13 gennaio del 1915, Avezzano fu distrutta dal terribile terremoto e si salvarono 300 persone circa. Da quella nuvola di polvere rimase in piedi una sola casa, fabbricata in cemento armato dal cementista Palazzi: detta casa e ancora in buono stato in via Garibaldi n. 56, però ebbe uno spostamento rotatorio di un metro, dalle scosse telluriche, ondulatorie e sussultorie. Mio padre saputo del disastro (tutti i giornali d’America pubblicizzarono la notizia) ritornò ad Avezzano, anche se i due fratelli e il padre fecero del tutto per non farlo tornare anche per il pericolo della guerra del 1915-1918. Mio padre non vide i denti d’oro, ne la madre sepolta. Vagò per le macerie, cercava anche il fratellino Checchino e la sorellina Adelina.
Dormì sui vagoni ferroviari, fu confortato e ospitato nel Convento del Salviano dall’amico Padre Fedele, Superiore del Santuario. Quando il Re Vittorio Emanuele III venne ad Avezzano con la Regina Elena, l’On. Corradini, il Prefetto Mormini e il Delegato Baldi (allora vi erano le guardie Regie e non la P.S.), provvide a mandare a Roma i bambini orfani, i feriti gravi e le donne in procinto di partorire. Arrivarono bersaglieri, alpini, soldati del genio, soldati del 13’ fanteria e la grande Opera di umanità di un giovane sacerdote (Don Orione). Mio padre, per otto mesi, vago per Roma con un permesso speciale rilasciato personalmente dal Re, visito collegi, istituti, ospedali con la speranza di ritrovare i suoi cari. Un giorno, passando vicino al cancello di un collegio, vide un gruppo di bambini e senti una voce chiamare Nini (diminutivo di Antonio): era la voce della sorellina di 8 anni Adelina che lo chiamava. Gli si butto in braccio e per la grande commozione non riuscivano a parlare; poi la sorellina disse «portami da mamma non mi lasciare».
Mio padre fece ritornare il padre dall’America, ma a mio padre tocco di essere mobilitato ed inviato al fronte, perché l’Italia era in guerra contro l’Impero Austro-ungarico.
Il giovane segretario Comunale, Michelangelo Colaneri, gli negò qualche giorno di proroga alla partenza, proroga che serviva per sistemare il padre e la sorellina Adele. Non seppe mai la fine della madre e del fratellino Checchino. Dopo la guerra zia Adelina morì a causa dell’epidemia (la spagnola) e mio padre non si rassegnava alla perdita dei suoi cari; il dolore lo accompagno fino alla morte. Mio padre mon a 72 anni e in punto di morte rifiuto i sacramenti, e chiedeva dove fosse la madre morta e spiro. Mia madre, Busico Maria, perse il padre, Luigi Busico, Capoguardia delle carceri: lo ritrovarono sotto una parete della stazione ferroviaria, dove ogni mattina andava a prendere il giornale e poi andava in servizio. Il fratello di mia madre Domenico Busico, Corazziere, che si trovava in Avezzano in occasione della festa della fontana, lo ritrovarono morto sotto le macerie, con il dito tagliato, quello dove portava l’anello con il sigillo reale, tipico dei corazzieri a servizio della Regina. Mia cugina Busico Amelia fu ritrovata dentro la madia del pane, dopo 5 giorni, con la madre Caterina morta accanto alla madia. Mia cugina Amelia, orfana di padre e di madre, aveva tre anni e fu portata in un Istituto di suore, ove si laureo in medicina e chirurgia e prese il posto da dottore, al sanatorio di Sondrio. Poiche era rimasta scioccata dal disastro, volle fare la caposala e non il dottore, perché non voleva prendersi la responsabilità delle diagnosi.
Un altro caso doloroso fu quello di Francesco Pantano, che dopo 50 anni di ricerche, ritrovo la propria figlia Anella, scomparsa all’eta di 6 anni, in un convento di suore a Roma, ma ella aveva perso la memoria e quando il padre la riporto ad Avezzano all’eta di 56 anni, la figlia Anella, dopo pochi giorni, volle ritornare al suo Convento delle suore a Roma. Vi sono stati altri tristi casi come quello di due giovani, che dopo aver formato la famiglia, vennero a sapere che erano fratelli carnali.
Il racconto d’un ferroviere
La Tribuna pubblica anche un colloquio col sorvegliante ferroviario Marioni che si trovava questa mattina ad Avezzano. Egli ha detto: ”Io ero ad Avezzano ed aspettavo il treno proveniente da Celano che doveva portarmi a Tagliacozzo e poi a Roma. Erano allora le 7.25 precise. Alcuni minuti dopo si e inteso un rombo terribile come un grande boato, lontano dapprima e che poi via via, si avvicinava. Intanto la terra ha cominciato a tremare. Non era più possibile stare in piedi. Io mi sono lanciato fuori dalla tettoia in mezzo alla linea e in quel breve tratto ho camminato come un ubriaco. Appena sono stato fuori da1la tettoia, questa e rovinata. Sono salvo per miracolo. Questo crollo e sembrato il segnale della rovina di tutti fabbricati dentro e fuori la stazione. Della stazione non sono rimasti in piedi che il casotto della ritirata e il rifornitore dell’acqua. E non quello nuovo in cemento armato, ma quello vecchio, che pareva dovesse cadere ad ogni istante. Se dentro Avezzano e avvenuta la stesa cosa che alla stazione, Avezzano non deve essere più che un’immane rovina. Intorno alla stazione c’erano una ventina tra fabbriche e botteghe: non ce n’e più una in piedi. I palazzi degli Stangolini, tutti abitati, sono egualmente crollati e certamente ci devono essere parecchie vittime. Quelle che ho vedute io stesso sono la moglie del capostazione di Avezzano, che e stata estratta morta dalle macerie, una parente di lei, che e stata trasportata a Tivoli in gravissime condizioni, e il casellante del chilometro 100, morto insieme a sua moglie. ”
Una Visione spaventosa
Un redattore del Giornale d’Italia ha avuto occasione di avvicinare un ragazzo certo .Vicolino Berardi, di anni 13, da Avezzano cola dimorante con la madre, il quale era scampato miracolosamente all’immane disastro e, raggiunta la stazione, con molti altri era salito sul treno giungendo a Roma poco dopo le 12. Il Berardi esercitava il mestiere di vetturale e stamane si era recato nella scuderia, essendo stato accaparrato da un viaggiatore per condurlo a Massa d’Albe. ”Verso le 7 – egli ha detto siamo partiti da Avezzano. Eravamo appena usciti dalla città quando all’improvviso il cavallo, che prima si era arrestato, rampando insolitamente il terreno, si e di nuovo rifiutato di proseguire. Nello stesso tempo si e inteso come un forte rombo. II viaggiatore ha creduto fosse il rumore del treno: ma uno spettacolo di terrore ci si presentava alla vista. Nella località dove ci eravamo arrestati vi sono, a destra e a sinistra della via, delle cave di breccia e pozzolana che, come mosse da un invisibile, enorme piccone, hanno cominciato a franare.
Un istante dopo giungeva fino a noi l’enorme fragore prodotto dalla rovina di numerosi edifici che erano come avvolti in una grande nube. Un bambino di circa cinque anni, nudo, correndoci incontro piangente e spaventato ci ha supplicato di recarci ad aiutare il padre a scavare fra le rovine di una casetta li prossima, dove erano sepolti alcuni della famiglia sorpresi dal disastro mentre stavano alzandosi dal letto. ”Noi siamo accorsi, ma mentre stavamo per prestare l’opera nostra, e avvenuta una seconda scossa che ci ha messi in fuga. Un uomo ci avvertiva di non proseguire oltre perché il villaggio di Cappelle, poco distante e che noi dovevamo traversare, era quasi tutto distrutto. ”Mi sono allora recato, sempre insieme col mio compagno, verso la stazione di Avezzano il cui edificio non esisteva più
Testi di Francesco Pascale
I giornali dell’epoca
Avezzano è rasa al suolo e così pure i paesi limitrofi. Gli edifici pubblici sono tutti distrutti. Si calcola che appena ottocento persone siano salve. La maggior parte di esse e ferita. (Stefani). I primi particolari, così come furono diffusi dalla stampa. Si noti come nessuna delle prime notizie provenga direttamente da Avezzano: per buona parte della giornata del 13 gennaio Avezzano fu strappata al resto del mondo: non dava ne riceveva notizie. «Io ero ad Avezzano ed aspettavo il treno proveniente da Celano che doveva portarmi a Tagliacozzo e poi a Roma.
Erano le 7,25 precise. Alcuni minuti dopo si e inteso un rombo terribile come un grande tonfo, lontano dapprima e che poi, via via, si avvicinava. Intanto la terra ha cominciato a tremare. Non era più possibile stare in pie di. Io mi sono lanciato fuori dalla tettoia in mezzo alla linea e in quel breve tratto ho camminato come un ubriaco. Appena sono stato fuori dalla tettoia, questa è rovinata. Sono salvo per miracolo. Questo crollo è sembrato il segnale della rovina di tutti i fabbricati dentro e fuori la stazione. Della stazione non sono rimasti in piedi che il casotto della ritirata e il rifornitore dell’acqua. E non quello nuovo in cemento armato, ma quello vecchio, che pareva dovesse cadere ad ogni istante. Se dentro Avezzano e avvenuta la stessa cosa che alla stazione, Avezzano non deve essere più che un’immane rovina».
La Tribuna, 13-1-1915
«Non mi resi conto esatto, pel momento, di ciò che era avvenuto; ritenni dapprima che si trattasse del crollo improvviso dello stabilimento dove ero occupato, catastrofe forse avvenuta per lo scoppio di qualche macchina. Non potevo prevenire quale orribile immane catastrofe si fosse abbattuta sulla ridente Avezzano, così tranquilla e piena di vita. La gamba sinistra mi doleva abbastanza, ma ciò non mi impedì di trascinarmi fino all’aperto. Ma appena fuori, all’aperto, i miei orecchi furono straziati da mille lamenti. Guardai Avezzano e credetti ancora di essere vittima di un orrendo sogno. Il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dall’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso, Avezzano era scomparsa ed al suo.posto non si scorgevano che pochi muri».
«Il Mattino», 14-1-1915
Stamane a Tivoli, dalla linea dell’Abruzzo, sono pervenute le prime gravi notizie sulla stazione di Avezzano. Aveva fatto impressione la mancanza di informazioni sul treno numero 611 che doveva giungere alle ore 8,19. Alle ore 7,30 il capostazione aveva ricevuto ad Avezzano un dispaccio nel quale veniva segnalato per quell’ora un ritardo di sessanta minuti; ma il treno non era ancqra giunto a quella sta-zione. Da allora non si era saputo più nulla. più tardi e giunta la notizia che la stazione di Avezzano era crollata. Poi le notizie si sono fatte sempre più gravi, finchè sui treni di soccorso inviati sulla linea, sono giunti i primi feriti che sono stati trasportati all’Ospedale. Fra essi vi era anche Pietro Rosati, di anni 32, guardia merci alla stazione di Avezzano. Egli ha detto che mentre era in ufficio è stato sorpreso dalla scossa; mentre cercava di fuggire venne colpito alla testa da una trave. Poco dopo tutto il fabbricato della stazione e crollato. Un altro ferito che si trovava vicino al Rosati ha esclamato: «Avezzano è tutta spianata».
«Corriere della Sera», 14-1-1915
Il treno che mi porta nella regione dell’antico lago Fucino, ora prosciugato e ridotto ad agro ubertosissimo, reca con se, avviandosi ai luoghi del dolore, anch’esso i suoi dolori. Figli, genitori, spose di persone che abitavano i luoghi della sventura gremiscono, ansiosi per la sorte dei loro cari, tutte le vetture. E quando il treno interrompe il suo cammino, reso lento dalle condizioni precarie della linea ferroviaria, e dopo aver percorso a passo d’uomo gallerie e ponti che, danneggiati anch’essi dalla tremenda scossa, possono rovinare da un momento all’altro, sosta più lungamente nelle piccole stazioni dei paesetti abruzzesi, e un propendersi ansioso di volti dai finestrini delle vetture e un chiedersi conciato: E ad Avezzano? Ma la risposta attesa non giunge a consolare il dolore di tanti cuori; da Avezzano nessuna notizia, o peggio: Avezzano e distrutta. così a Monte Celio – la prima stazione dopo Roma – dove si incontra il primo treno proveniente da Tagliacozzo, così a Tivoli, così a Mandela. Il Palazzo Torlonia – dicono – (il palazzo più grande e forte di Avezzano) e crollato. Vi sono moltissime vittime. Il quartiere dei soldati (un ex-convento che era occupato da una compagnia del 13’ fanteria), e anch’esso crollato, e quasi tutti i soldati sono periti sotto le macerie. Carsoli, Colli, piccoli paesi della linea di Avezzano, sono immersi nell’oscurità. La popolazione si è riversata nella stazione e accampata nei vagoni ferroviari, timorosa del ripetersi delle scosse.
I treni dei feriti
Ad Arsoli incrociamo un treno di feriti, amorosamente curati dalle suore di San Vincenzo, dimoranti in Arsoli. Sono un centinaio. I feriti giacciono sui sedili delle vettureviaggiatori o a terra nei carri, sdraiati sulla paglia. Sono per la maggior parte feriti non gravemente, alle gambe o alla testa. Intanto qualcuno di coloro che viaggiavano verso Avezzano, nell’ansia di riabbracciare i propri cari ancora vivi, vede svanire le sue speranze. Un vecchio che era partito da Roma con un suo figlio giovanetto, ansioso sulla sorte d’un altro figlio frenatore ad Avezzano, ora apprende che suo figlio – certo Antinori, il quale, nominato solo da alcuni giorni, era partito ieri da Roma e oggi doveva prestar per la prima volta il suo servizio – giace sotto le macerie. Alla stazione di Tagliacozzo, dove ci fermiamo in attesa di un altro treno di feriti, apprendiamo che sono completamente distrutte Massa D’Albe, Magliano, Cappelle e Avezzano. Giunge il treno dei feriti e degli scampati: sono tutti inebetiti dallo spavento, sebbene siano ormai passate sedici ore dal disastro. Non fanno che ripetere che Avezzano e distrutta e che a migliaia vi si contano i morti. L’opera di disseppellimento, iniziata soltanto nel pomeriggio, fu dovuta interrompere per la sopraggiunta oscurità.
Autorità fra le vittime
Ad Avezzano constatiamo che il disastro supera qualsiasi immaginazione. Della stazione non restano che mucchi di macerie, sotto cui sembra giacciano alcuni impiegati. Il capostazione Antonio Fiorentino ha perduto la moglie ed egli stesso e rimasto ferito. Sono morte le principali autorità della città: il sottoprefetto De Terzi e sua moglie, il sindaco Giffi. Il capitano dei carabinieri cav. Natale Pevelli, di Milano, e morto con undici carabinieri e il maresciallo comandante la stazione. Un solo carabiniere si e salvato. Sono invece salve la signora del capitano e la signora del maresciallo. Del distaccamento del 13’ fanteria, composto di 85 soldati, 25 sono morti. Particolarmente notevole e stata l’opera di salvataggio del padovano caporale Tamburo e del soldato Zanone, merce l’opera dei quali furono salvi il tenente Agostino Serrauto e il tenente Lauro De Sanctis. Ambedue questi ufficiali sono pero feriti sebbene non gravemente. E morto anche il delegato Di Salvo. Da Aquila l’amministrazione provinciale ha provveduto a inviare sui luoghi il maggiore dei carabinieri Parenti, il medico provinciale Briccia e altri due medici. I feriti che vennero raccolti dalle macerie sono curati in un carro ferroviario di soccorso, e man mano che hanno ricevuto le prime cure, vengono avviati verso Roma.
A. ROSSINI «Corriere della Sera»; 14-1-1915
Ristabilito il servizio telegrafico con Avezzano, il deputato Sipari ha telegrafato al Messaggero in questi termini: «Il disastro e immane. Avezzano e totalmente rasa al suolo. Celano, Pescina, Luco dei Marsi, Trasacco si dicono seriamente danneggiati. Occorrono subito 25.000 uomini, pane, acqua, medici, barelle, legname per baracche. Il disastro supera quello di Messina per la violenza e per proporzione delle percentuali di feriti». Il Messaggero dice che dall’insieme delle ultime notizie raccolte dai feriti e fuggiaschi i paesi distrutti nella Marsica sarebbero: Avezzano, Cappelle, Magliano dei Marsi, Massa d’Albe, Collarmele, Cerchio, Celano, Ajelli, Paterno, San Pelino, Gioia dei Marsi, Scurcola Marsicana, Capistrello, Antrosano, Castronuovo. I paesi gravemente danneggiati e con morti e feriti sarebbero: Pescina, Ortona dei Marsi, San Benedetto dei Marsi, Ortucchio, Cocullo, Bisegna, Balsorano, Canistro, Civitella Roveto, Civita d’Antino, Castellafiume, Pagliara e Sorbo. Altri paesi danneggiati e pure con morti e feriti sarebbero: Tagliacozzo, Ovindoli, Cappadocia, Sante Marie, Poggio Filippo, San Donato, Santo Stefano, Roccacerro, Carsoli, Pereto, Luco e Trasacco.
«Corriere della Sera», 14-1-1915
Stanotte sono arrivati i militi della Croce Rossa, i quali hanno subito cominciato a curare i feriti. I militi si sono subiti recati nel paese e alla luce delle torce hanno cominciato l’opera dei disseppellimento. Ma sono pochi e manca il materiale necessario per il salvataggio. Alcune squadre di volenterosi sono venute dai paesi vicini ed hanno cominciato l’opera umanitaria, ma hanno dovuto smettere subito, per mancanza dei mezzi indispensabili. Occorrono anche viveri per coloro che si prestano a questa generosa impresa. Episodi commoventissimi si verificano dovunque. Una bambina ha messo fuori una manina dalle macerie. Si sono avvicinati subito dei soldati ed hanno tentato di salvarla; ma per mancanza di mezzi hanno dovuto sospendere l’opera loro per paura di veder morire la piccina da un momento all’altro e quando hanno potuto ritentare l’opera si sono accorti che la povera creatura era già morta e accanto a lei si trovava il cadavere della madre. L’opera dei soldati procede sempre in modo mirabile. Ma i mezzi di cui dispongono sono inferiori ai bisogni. Urge assolutamente provvedere. In questo senso hanno chiesto provvedimento al ministero gli on. Sipari, Torlonia e Guglielmi che sono presenti sul luogo.
«Il Mattino», 15-1-1915
La tragica notte Avezzano tra macerie e i sepolti
Torno adesso da una rapida corsa attraverso la città. Si può dire che di Avezzano non sia rimasta letteralmente pietra su pietra. I pochi superstiti che si trascinano tra le macerie cercando i loro cari, non riconoscono più le strade. Il terremoto, rovesciando al suolo tutte le case, ha trasformato la ridente cittadina abruzzese in un cumulo di sassi. Qua e 1h, in qualche spazio rimasto libero, intorno a un fuoco improvvisato con rami di alberi, sono accoccolati o sdraiati su coperte alcuni feriti. Durante la notte si sono continuati i salvataggi. Una squadra di elettricisti romani ha estratto dalle macerie la figlia di un impiegato ferroviario, certa Ester Dominioni, di anni 18. Il padre, che era in servizio, ha fatto una trentina di chilometri a piedi per recar soccorso alla famiglia. Egli ha trovato la figlia ancora viva e dalle macerie e stata pure estratta viva la moglie, Luisa Dominioni. Un bambino e il vecchio padre sono stati trovati morti. Con l’aiuto di un distaccamento di soldati giunti da Aquila, i due feriti vengono trasportati su barelle improvvisate alla stazione e curati nei vagoni-ambulanza. Mentre seguiamo il triste drappello ci giungono dalle macerie fievoli richiami di sepolti. Di sotto un cumulo immenso di sassi una voce d’uomo, nel caratteristico dialetto abruzzese, lancia un supremo appello: Aiutateme! Aiutateme! Il lamento del sepolto non fa che accrescere in noi il dolore della nostra impotenza.
A.R. «Corriere della Sera», 14-1-1915
Avezzano, sepolcro di un popolo. perché la città è crollata. (Dall’inviato speciale del corriere della sera, 14 gennaio), Ho già detto le ragioni della proporzione assolutamente spaventosa dei morti in rispetto dell’importanza delle cittaduzze colpite. Prima di esse la virulenza della scossa che sconvolse di colpo tutta la regione. Tutti quelli che erano ad Avezzano, tutti quelli che erano in tutte le cittadine della Marsica furono sepolti senza scampo e senza remissione. Ed i superstiti sono di due categorie: quelli che per una ragione qualunque non erano nelle case al momento della catastrofe, e quelli che riuscirono in una maniera qualunque a sfuggire pressoché incolumi alla stretta delle macerie. Altra ragione dell’immane strage e il materiale ed il modo in cui era costruita Avezzano che col prosciugamento del Lago di Fucino, aveva visto rinnovata tutta la sua architettura. Case nuove quindi, molto alte, pesanti, costruite in una pietra pesante ma molto molle e tenute assieme da una calce in cui non entra pozzolana.
Data una scossa capace di scardinare dal suolo delle case così pesanti, si comprende quale massacro abbiano provocato i massi, spessissimi, che due uomini non riescono a sollevare e si comprende anche quanto minore percentuale di uomini vivi si potranno cavare dalle macerie. Poiché per colmo di sventura, la calce, quando non è mescolata di pozzolana diventa friabilissima e si polverizza. Il risultato e stato che questa polvere ha livellato e chiuso tutti gli orifizi, tappato tutti i buchi, otturato tutte le fessure levando l’aria completamente anche a coloro cui un caso fortunato aveva risparmiato lo stroncamento delle reni. Una gran parte dei cadaveri che i superstiti estraggono a gran furia dalle rovine portano i segni evidentissimi della morte per soffocazione.
La tomba di dodicimila cadaveri
Per la circostanza che a prima vista poteva parere inesplicabile, della presenza cioè di tante persone nelle case – circa il novantasette e mezzo per cento –, a quell’ora tardissima per una popolazione rurale, la spiegazione e data da tutti: le nebbie del Fucino che fanno ritardare di questa stagione le opere fino ad oltre le nove, il freddo acuto che incatena in queste asprissime mattine vecchi e giovani al focolare in cui tiepide ancora sono le ceneri e lo spirito di questo popolo che ama più la sua casa che il suo campo. Il terremoto ha sorpreso tutti all’ora del caffè e quanti ne ha trovati, tanti ne ha uccisi. Quindici minuti più tardi avrebbe fatto la meta se non un terzo delle vittime. Questo per Avezzano. Per gli altri paesi poi, che erano costruiti su quello che fu il letto del Lago di Fucino, la sorte e stata subito decisa. Le loro fondamenta eran gettate su un acquitrino; il primo soffio di vento le avrebbe abbattute come un giuoco di carte. Il terremoto le ha spiantate. Tale e stata la sorte di Trasacco, di Luco, di Ortucchio, isolotto una volta perduto in mezzo al Lago. Ma per questo o per altre più peregrine ragioni un fatto e indiscutibile: tutta la terra dei Marsi e morta per sempre con la sua gente fiera e nobile. Avezzano e una tomba suggellata sul capo di undici o dodicimila cadaveri e così tutto il circondario.
Avezzano risorgerà
La nuova stazione e sorta oggi accanto all’antica diroccata dal terremoto. Costruito in legno, con tutte le comodità suggerite dalla scienza e consentite dal materiale, il nuovo edificio inizia quasi il passaggio dallo stato transitorio allo stato definitivo, dall’accampamento primordiale delle tende e dei vagoni, alla comoda, stabile casa, non importa poi se di legno piuttosto che di pietra e mattoni. Ma già accanto alla stazione sta sorgendo anche, ad opera del segretario capo del Comune, signor Michelangelo Colaneri, la sede del Municipio: un comodo edificio in legno con armatura di ferro, offerto da Roma alla città sorella. Esso ospita sin da oggi l’archivio comunale, che prima era vigilato tra le macerie da due sentinelle. Risorgera dunque, con la sua stazione e il suo Municipio, Avezzano? Questa ora e la convinzione anche di chi nei primissimi giorni del disastro, di fronte a un così terrificante spettacolo di desolazione e di morte, aveva pensato che, morti i cinque sesti dei suoi abitanti, la citth dovesse considerarsi anch’essa perita.
Ed e soprattutto l’ardente fede dei superstiti, che, sinora dispersi, già si accingono a raccogliersi, a condensarsi per ricercare le vie della nuova vita. D’altronde la sua speciale posizione, la sua condizione di sbocco unico e naturale di diecine di Comuni, la sua qualità di nodo ferroviario dell’Abruzzo centrale, avevano fatto di Avezzano, il centro necessario della plaga del Fucino. E perciò, mentre essa nel 1871, non era nulla più di una grossa borgata di 5.000 abitanti, crebbe poi così da annoverarne al 13 gennaio 1914 ben 13.000 e da essere la terza città per popolazione della provincia dopo Aquila e Sulmona, mentre era forse la prima per importanza di industrie e commerci. Qui erano la sotto prefettura, il tribunale, l’ufficio del registro, un fiorente ginnasio e una fiorentissima scuola normale femminile.
Le entrate del Comune salivano a oltre 300.000 lire, il che permetteva all’amministrazione di svolgere un ampio programma di lavori per oltre un milione e mezzo, e dotare la città di un’abbondante acqua, di una perfetta rete di fognatura, di un completo servizio di illuminazione. Per dare poi una prova delle condizioni economiche della città, basterà dire che ad Avezzano, Comune aperto di quarta classe, la ditta appaltatrice del dazio pagava al Comune 100.000 lire di canone. Il terremoto ha distrutto molte ricchezze, ma non può averne inaridita la fonte che traeva alimento specialmente dai floridi prodotti agricoli dei sedicimila ettari che i Torlonia hanno redento dalle acque prosciugando l’antico lago. Nell’immenso latifondo lavorano migliaia di coloni. L’Amministrazione Torlonia ha già fatto comprendere che manterrà la sua sede ad Avezzano. Gih 150 operai lavorano a sgomberare le macerie dell’antico palazzo principesco con l’aiuto di una ferrovia Decauville. E già nella valle sta sorgendo la baracca dove l’amministrazione avrà i suoi nuovi edifici.
Il Corriere della sera
Le case non ebbero più il loro nome: divennero un confuso ammasso di macerie su cui s’alzava un denso polverone giallastro di calcinacci, sotto cui si spegnevano tante umane esistenze. Invano i genitori attesero i propri figli al caldo ’abbraccio, invano i figli attesero il sorriso dei loro cari, avvolti nel silenzio profondo della morte.
Le sue rovine non appaiono al soccorritore se non quando si e dentro al paese; solo allora ci si avvede della vasta distesa di detriti e calcinacci… abbattutisi come una fiumana. Una sola casa e rimasta illesa, una, per ironia della sorte, questa non era, a quel momento, abitata da nessuno. Le strade di accesso al paese risultano interrotte da vaste fenditure apertisi nel terreno. Un superstite che tentava di raggiungere il paese ha visto improvvisamente la strada sprofondare per oltre un metro.
Il terremoto in versi
“Màmma Mé“
Mamma dicétte: “Arrìzzete ch’è óra,
léste, se fa tàrde pé’ lla scòla”
ì’, sènza famme dì’ più `na paròla,
me vestìtte, ma… me recòrde ancora,
m’èva date `ne mùcciche de pàne
ch’ì’ me stév’a magnà’ sènz’appetìte,
`ché me sentìv’ancóra `nzunnulìte,
quànte sentèmme, cómme da lontane,
`ne rumóre che ppó’ fu spaventùse
e che fice trettecà’ la casa:
màmma capìtt’e più che persuàsa,
fice `ne strìlle pròpia turmentùse.
“Je tarramùte, cùrre, fijie béjie!”
me fice la bonàrma benedétta;
ma né’ mme vìnn’a ttémbe. La casétta
crullétte, ch’èva pròpia `ne fraggéjie.
Ì ne’ mme fice gnènde, màmma; tu
te lamentìve sótt’àlla macèra,
me respunnìve, ma…vérze la séra,
dicìste: “Oddìe!” e ne’ parlìste più!
Antonio Pitoni
Gallery
I DATI
Numero dei Morti nelle località interessate dal sisma |
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Percentuale delle Abitazioni distrutte in alcuni Comuni delle Marsica |
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Da Scurcola verso Ovest le onde invece lasceranno contenute tracce del loro passaggio nella contigua Tagliacozzo arroccata com’e questa sulla montagna. Tagliacozzo rimarrà cosi poco disastrata che il capotreno del convoglio che stava lasciando Avezzano quando il sisma si è scatenato, e potè osservare inorridito la distruzione della città, accelererà la marcia per poter dare tempestivo allarme, che partirà proprio dalla stazione ferroviaria di Tagliacozzo, trovata praticamente indenne. Oltre Tagliacozzo rimarranno pochissimo danneggiati i successivi distretti di Carsoli ed Arsoli. Gli effetti del sisma si rifaranno invece sentire lungo la valle dell’Aniene; risalendo la valle si registreranno rovine ad Agosta e Subiaco e quindi ancora a Janne, Trevi nel Lazio e Filettino. Discendendo invece verso la media valle dell’Aniene risulteranno danneggiati Roviano e Cineto Romano sulla destra del fiume, Anticoli Corrado sulla sinistra e via via altri centri fino a Tivoli il sisma passerà oltre Tivoli. Saltando il ciglio montagnoso il terremoto si farà sentire a Roma; volgendo invece a Nord Ovest oltrepasserà i monti Corniculani per riapparire ancora e far tremare Monterotondo, interessando quindi la valle del Tevere e, attraverso di questa, le varie località di cui abbiamo già fatto cenno. Dal nodo di Tivoli le onde sismiche si spingeranno anche al di la dei monti Prenestini per far sentire ancora sommotimenti nel distretto di Palestrina. Al meridione del Fucino il sisma si diffonderà preferenzialmente per la valle del Liri, danneggerà fortemente ed apporterà lutti a Balsorano ed agli altri centri della valle, imperversando duramente fino alla conca di Sora. Nella direzione Sud Est il terremoto raggiungerà Sulmona e la sua conca, vi seminera dappertutto distruzioni e morti, fino all’estremo centro della gola, Popoli, donde passera verso la bassa valle della Pescara. Proseguendo la corsa a Sud Est il sisma risalirà per l’antico percorso Numicio ed arrechera lutti e distruzioni a Rocca Cinquemiglia, Roccaraso, Castel di Sangro. Ma saranno malridotte anche le zone dell’attuale Parco Nazionale d’Abruzzo, in particolare Pescasseroli e Villetta Barrea; oltre il monte Argatone altri centri, Scanno, Villalago e Frattura, riceveranno danni. In direzione Est il terremoto raggiungerà i centri lungo la Pescara infliggendo danni in particolare a San Valentino in Abruzzo Citeriore, Caramanico, Manoppello e, in misura inferiore, Chieti. A settentrione del Fucino le onde sismiche perverranno, al di la della montagna di Ocre, nella conca Aquilana, terra che ha già dimostrato abbondantemente un’accentuata risonanza sismica con il bacino Fucense. L’Aquila riceverà non pochi danni e con essa numerosi centri della conca e soprattutto Barisciano, Paganica, Poggio Picenze, Sassa e Tornimparte. In sintesi il grande sisma della Marsica avra toccato e danneggiato, fra grandi e piccoli, oltre centocinquanta centri abitati. |