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Il terremoto della Marsica. Un racconto, una tragedia… (foto rare, testimonianze, i dati)

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NECROLOGI MARSICA

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“II Messaggero”; “II Giornale d’Italia”; “La Marsica” (due volumi anno 1915 e Anno 1916 numeri unici con interventi dedicati al terremoto da illustri personaggi abruzzesi); “L’Awenire”; “La Torre”; “L’Aquila; “Noi e Il Mondo” (1922) ace. ma, sicuramente, la meno nota “cronaca” del terremoto fra le edite è quella che nel 1930 Giovanni Giurati (1) nel suo libro autobiografica dal titolo “La Vigilia (Gennaio 1913 – Maggio 1915)” di ben 318 pagine, pubblicata presso la casa editrice Mondadori di Milano.
Questi dedica un intero capitolo, l’undicesimo, da pago 206 a pag 222 all’immane tragedia del terremoto descrivendo con immediatezza le paure, la collera, le angosce, le speranze e la fiducia dei marsicani verso i primi soccorritori.
Consapevole che questa “cronaca” possa essere utile agli studiosi si riporta integralmente: ·Capitolo XI/ Avezzano/I. Preparativi per la/partenza.

La mattina del 14 gennaio 1915, alle sei, una suonata a distesa del telefono mi svegliò di sobbalzo. Era Vittorio Fresco. Nella notte eran giunte notizie spaventose.

Un cataclisma aveva sconvolto la regione montana dell’Abruzzo intorno ad Avezzano: la vittime non si contavano; non si contavano e non si misuravano le rovine: urgeva l’opera di soccorso e Fresco proponeva che partissimo subito coi nostri volontari di Mestre. Mi dichiarai d’accordo, non senza però esprimere qualche dubbio intorno alla possibilità di attuare il disegno. Dissi a Fresco di raggiungermi e mi vestii in fretta. Pochi minuti dopo eravamo riuniti nel mio studio. Due erano le difficoltà da superare: ottenere il consenso dell’autorità politica per la partenza della legione e apprestare i mezzi. Ci dividemmo il compito: io assunsi la prima parte e Fresco la se- conda. Convenimmo che occorreva partire quello stesso giorno col treno diretto delle due pomeridiane. Mi recai poco dopo dal colonnello dei Carabinieri Omati al quale esposi il nostro piano pregando lo di aiutarci ad attuarlo. Come, sempre, quando si trattava di manifestazioni e di azioni connesse con la italianità delle Terre irredente, quel prode e degno ufficiale si mise senza esitare un istante a mia intera disposizione.

La sua opera preziosa cominciò da un ottimo consiglio: “Andiamo dall’Ammiraglio Garelli, – disse -: sono certo che si unirà a noi per convincere il prefetto”. Quel primo passo decise del successo. L’Ammiraglio Garelli, allora comandante in capo del Dipartimento di Venezia, ascoltò la mia domanda con benevola attenzione: ascoltò con visibile emozione la perorazione del mio esimo compagno e, anch’egli senza indugiare, ci comunicò la sua adesione: “Vengo con loro dal prefetto”.

Una nuova corsa in motoscafo attraverso il bacino di San Marco e mai terza esposizione del nostro proposito. Qui, a tutta prima, parve che non se ne facesse niente: “Come posso? Non è in mia facoltà; devo interrogare il Governo, eccetera, eccetera.” Ma i miei due patroni, più pratici di me in simili affari, ribatterono abilmente le obiezioni: io sbandierai, come sempre facevo in simili casi, la Sursum Corda. Finalmente, condito di qualche consiglio e, devo ricordarlo con gratitudine, di molte parole cortesi, il consenso venne. Ringraziai i due soldati che mi avevano così valorosamente difeso e, di corsa, mi posi alla ricerca di Fresco.

Questi frattanto aveva operato, in tre ore, cose mirabili. Aveva cominciato dal ricorrere alla generosità di Salvatore Segrè che per fortuna era a Venezia e che, secondo le sue consuetudini, aperse sorridendo i cordoni della borsa; per mezzo d’un corriere aveva inviato a Mestre le disposizioni per la partenza: aiutato dal dotto Nordio, triestino, (che subito aveva dimandato di venire con noi per assisterci come medico) aveva fatto riporre in una vasta cassa i farmaci più necessari e il materiale di medicazione: aveva provveduto al biglietto ferroviario collettivo: aveva, immaginando che le ferrovie fossero interrotte, telegrafato agli amici di Ancona perché tenessero pronti all’arrivo del nostro treno alcuni autocarri: con un abile espediente si era procurato il materiale di scavo e aveva persino riempito di cordiale le borraccie che i legionari avrebbero dovuto portare seco per i soccorsi più urgenti. A mezzogiorno partimmo alla volta di Mestre.

Nella camerata più vasta passai in rivista la Legione che si era accresciuta e decorata di numerosi aggregati. Li enumerai con orgoglio e con profonda riconoscenza: Nazario Sauro, troppo occupato dalla numerosa famiglia per trasferirsi stabilmente a Mestre, non aveva voluto mancare in questa occasione di partecipare ad una manifestazione di solidarietà Italiana; l’ingegnere Juraga si era offerto per dirigere i lavori di salvataggio; il dotto Luise, un medico meridionale esercente a Venezia, con generose e commosse parole aveva reclamato l’onore di prestarci il soccorso della sua scienza; il capitano Manzutto, del quale dovrò narrare in altro capitolo un gesto memorabile; il prof. Palin, letterato e soldato; Fragiacome, Viezzole e infine mio nipote Nino, non ancora ventenne, allora volontario ciclista, che si era presentato a me, quasi piangendo, a supplicarmi di non lasciarlo a casa. Alla stazione vennero da Venezia a salutarci i fedeli della Dante Alighieri, Giovanni Chiggiato e Pietro Marisieh, con parecchi altri amici. Partimmo, com’era stato fissato, col treno diretto delle due. E quando “l’empio mostro” si mosse, Fresco ed io ci guardammo più che soddisfatti, istupiditi.

Allora ci confessammo reciprocamente che la mattina, quando avemmo formato il disegno, nessuno del due aveva creduto che si sarebbe riusciti ad attuarlo.

IL VIAGGIO: I PRIMI ASPETTI DEL DISASTRO
Giungemmo ad Ancona verso la mezzanotte. Gli amici a cui Fresco aveva telegrafato, ci informarono che, essendo state requisite molte macchine delle autorità per i soccorsi, erano riusciti a procurare appena una grossa automobile e un autocarro. Fu pertanto necessario dividere la spedizione in due scaglioni. La seconda squadra (caposquadra Giuseppe Sillani) e la terza (caposquadra Renato Timeus) con Fresco, l’ing. Juraga, il dotto Nordio e mio nipote proseguimmo in ferrovia con me per Castellamare e Sulmona. La prima squadra (caposquadra Giovanni Majer) la quarta (caposquadra Mario Ukmar) la quinta (ca.posquadra Giuseppe MOller) e la sesta (caposquadra Agide Sallustrio) col prof. Falin, il dotto Luise e Nazario Sauro partirono coi mezzi automobilistici, comodamente da Diomene Benco e da Gabriele Foschiatti. Narro ciò che vide lo scaglione che viaggiò con me.

Da Castellamare in poi, la maggiore frequenza dei viaggiatori nelle stazioni, le turbe profughe dalle località distrutte, le domande ansiose e le desolate risposte, la irregolarità della marcia, l’aspetto del convoglio, disordinato e sovraccarico, tutto e tutti davano la sensazione e anche la misura del disastro. A Collarmele, primo comune colpito dalla catastrofe, il treno sostò lungamente. Larghe ondate di rovine invadenti le vie e i campi circostanti: intimità denudate dall’improvviso crollo di pareti: cadaveri insepolti a mucchi: il pestifero lezzo della putrefazione dovunque: e su quella distruzione livellatrice qualche gruppo di superstiti, la testa o gli arti sommariamente bendati; lamenti; invocazioni; e il canto funebre di una donna discinta presso le macerie di quella ch’era stata la sua casa. Mentre il treno sostava, aiutammo una squadra di fanti nell’opera di soccorso. II dottor Nordio curò qualche ferito. Poi un lunghissimo sibilo della vaporiera ci richiamò al treno, che ripartì fra urli, gemiti, proteste.

A Cerchio trovammo la stazione invasa da una folla in tumulto. Donne, uomini, vecchi, bambini, tutti laceri , alcuni pallidi per la fame e per le sofferenze, altri congestionati dalla collera, molti insanguinati, molti fasciati con luridi cenci. Tutti gridavano, vogliono impedire la partenza. Le donne depongono gli infanti sulle rotaie, davanti alla locomotiva sbuffante,. Appena si notano i legionari e si diffonde la voce che son Triestini, il clamore raddoppia: “Ha volete la guerra? Noi l’abbiamo già la guerra? Questa, questa è la guerra!”. Ma l’invettiva non ci trattiene dal compiere il nostro dovere. Senza esitare, scendiamo lungo il marciapiede, coricati su barelli improvvisate, il dottor Nordio si china su di essi e li medica con pietosa prontezza.

La folla guarda, placata. Per qualche tempo i viaggiatori, il personale, del treno, i cento desolati pendono dal gioco sapiente di quelle mani. Quando il medico ebbe prodigato tutte le cure che in quelle condizioni potevano essere prestate, le barelle – undici – furono, con il consenso del capostazione, caricate sul bagagliaio. Poi il sanitario altre piaghe men gravi lavò e ricoperse di nitide bende. E bastarono quei pochi gesti di carità doverosa, perchè il treno, dopo circa un’ora ripartisse senza proteste, ma svoltano fra invocazioni angosciose alle quali dai finestrini voci rotte dai singhiozzi rispondevano con li più fraterne promesse. Il convoglio procedette a passo d’uomo tra sempre maggiori rovine, talvolta prossime alla strada ferrata, talvolta stramazzanti dai cocuzzoli quali stavano appollaiati i borghi e i castelli. La conca maestosa d’Avezzano aveva un aspetto funebre. La neve che in buona parte la vestiva faceva pensare al candido sudario di cui si veste il cadavere. Tutto era orribile. Le voci erano di pianto e il silenzio era di morte.

SOSTA AD AVEZZANO E ARRIVO A CESE
Verso le undici il treno si fermò alla stazione di Avezzano. La capitale della Marsica ci apparve come capitale del disastro. I rottami delle stazione demolita ingombravano i binari, che alcuni soldati, lavorando affannosamente, stavano liberando. Non potrò mai dimenticare il cadavere del capostazione, che si diceva fosse un uomo di alta statura, ridotto alle proporzioni di un gobbo stranamente deforme, che singhiozzava a mezzo muro, sostenendo con le spalle fracassate il grosso trave da cui era stato percosso. Squadre di soccorso guidavano cortei di barelle. Un treno ospedale accoglieva lì presso il suo carico doloso.

Da una tenda della Croce Rossa, piantata a poca distanza giungevano a noi, strazianti come ululati, i lamenti dei feriti. Un generale in piedi fra le rotaie, impartiva,.. calmo e severo, i suoi ordini, prendendo note sopra un libricino che teneva fra mano. Riunii i miei Irredenti sul piazzale esterno della stazione. Poscia mi presentai al generale Guicciardi, lo informai brevemente del nostro viaggio, lo pregai di mandare soccorsi a Cerchio, gli raccomandai i feriti che avevamo portati nel bagaglietto e gli domandai dove potevano essere impiegati, fornendogli ragguagli sul numero degli uomini e sui mezzi dei quali potevamo disporre. Il generale ascoltò, prese qualche appunto, altri ne consultò, poi disse:
“Andranno alle Cese” e mi indicò la località sulla carta topografica. “Avranno molto da fare” soggiunse; “non ho potuto mandare ancora nessuno laggiù”. Esaminai con attenzione la carta per rendermi esatto conto della via da seguire e presi congedo, dopo aver richiesto ed ottenuto un sacco di pane. Col nostro carico di attrezzi, di farmaci e, di prvviste, traversata una via fiancheggiata da due ammassi di ruderi informi, ci incamminammo sopra una aspra salita. Ma dopo la prima mezz’ora di marcia mi accorsi che i miei giovani seguaci, oppressi dal carico, camminavano a stento e non tardai a comprendere la cagione: nessuno di noi aveva preso cibo dalla sera innanzi e il mezzogiorno era suonata da un pezzo. Ordinai una breve sosta e distribuii una mezza razione di pane e un pò di cioccolato.

Nelle ore di angoscia l’alimento non dà gioia. Si mangia per vivere, quasi con la vergogna di ubbidire a un precetto animale, quasi col rimorso di sottrarre il vitto a qualche nostro simile in più estremo bisogno. Quel sommario tributo da noi pagato alla natura in cospetto di tanta miseria non spianò una fronte, non ci distrasse dalla nostra costernazione muta. Ma ridonò lena ai nostri muscoli. Riprendemmo subito a salire il colle che separa la conca di Avezzano dalla con valle delle Cese. Verso le due raggiungemmo le dorsale, su cui dovetti concedere un secondo breve riposo ai portatori. Da un lato si stendeva ai nostri piedi il vastissimo letto del Fucino prosciugato, che le alte vette del Sirente e del Velino sembravano vigilare, come sentinelle ammantate di candore. Dall’altro, in fondo a una valle sepolta nella neve, un lago di macerie fra le quali si aggiravano gruppi di superstiti: dalle rovine delle Cese salivano a noi acute strida e lamenti che stranamente somigliavano ai laterali di un branco di cani sperduti. Da quanto tempo quelle voci invocavano così, inutilmente, il soccorso? Quali, quante vite in travaglio potevano essere salvate dal nostro intervento? Il pensiero che ogni minuto poteva aumentare, inasprire la catastrofe dette ali ai nostri gravetti. I più liberi dal peso presero con me la corsa. In pochi minuti arrivammo al villaggio distrutto.

PRIMI SOCCORSI ALLA BORGATA E IL PRIMO DISSEPPELLIMENTO
Le condizioni delle Cese sono scolpite in questa annotazione del diario di Diomede Benco: “Giunti sul posto, constatammo che nessuna casa si era salvata, che il sindaco e quindici dei sedici consiglieri comunali erano periti, che su 1300 abitanti solo 230 erano sopravvissuti, che nessuna autorità civile o militare era presente”. Quando si pensi che più di due giorni erano già trascorsi dalla scossa fatale, facilmente si immagina lo stato di esasperazione dei superstiti. Al limitare della borgata ci venne incontro una flotta di feriti, capeggiata da un fronte piangente. E le prime parole rivolteci furono di protesta e di rimbrotto, come se nostra fosse stata la colpa se fino a quel momento nessun essere umano aveva potuto soccorrere quello squallore, curare le piaghe che il rigore della stagione e il sudiciume avevano esasperate.

Pregai il frate di interporre la sua autorità per esortare quegli infelici e tacere e ad attendere che il medico predisponesse gli strumenti e i materiali per le medicazione. Allora si vide la bontà e la robustezza del temperamento abruzzese. Bastò la notizia che un medico era tra noi per far tacere ogni voce. Mentre il dotto Nordio, coi suoi due aiutanti, Ercole Miani e Bruno Tommasini  rapidissimamente improvvisava un posto di medicazione, e i feriti si allinearono senza più un gemito. Nessuna gara per arrivar primi al soccorso: più d’uno cedette il posto al vicino: “vai tu che stai peggio “, Il dotto Nordio iniziò senza indugio la sua nobilissima opera: una a una i feriti protesero le membra dilaniate. Ma la pietà spietata del chirurgo non riuscì a strappare un grido: qualche lagrima fu vista rotolare sulle guance abbronzate, qualche contrazione spasmodica del volto, però il silenzio non fu più rotto e l’ordine fu sempre ammirabile. A questa forza d’animo del popolo fu dovuto, se in quella sola serata si poterono curare più di cento persone. Frattanto noi percorremmo rapidamente in tutti i sensi quello che era stato un villaggio per determinare quali fossero le necessità più urgenti. I pochi abitanti rimasti perfettamente illesi ci guidarono. Giunti ad uno spiazzo, essi ci indicarono una voragine e ci dissero che colà sorgeva la chiesa delle Cese, era l’ora della messa quando avvenne la catastrofe: più di trecento persone erano raccolte a pregare e nessuna ha trovato scampo.

Ci additarono poi un mucchio di rovine dal quale si udiva distintamente il lamento di una voce infantile: ordinai all’ingegnere Juraga e alla squadra Sillani di iniziare le operazioni di disseppellimento. Proseguimmo. Sopra un altro spiazzo stavano allineati alcuni cadaveri in putrefazione, orribilmente deformati . Più in là, una donna senza età e senza più sguardo, con un braccio fasciato vegliava la salma di una giovinetta, composta accuratamente e coperta di gran velo candido: senza muoversi, senza accorgersi della nostra presenza, la donna cantava non si sa quale canzone monotona, come per cullare quel sonno sempiterno.
Non era tempo di piangere e passammo oltre. Le incomposte voci di un litigio avevano richiamato la nostra attenzione: due gruppi di contadini disputavano, presso una piccola fattoria completamente devastata, una questione ereditaria. Nei cervelli semplici il diritto supera il dolore? Fresco, per sedare la contesa, ebbe l’idea di rivelare che io ero avvocato: i due gruppi si rivolsero a me tentando di spiegarmi le ragioni della contesa e pregandomi di deciderla.
Promisi che sarei tornato a fungere da arbitro a notte inoltrata purché nel frattempo avessero smesso di urlare e di discutere. A breve distanza mi si disse che qualche ora prima si era udito la voce di uno degli assessori comunali sotto la sua casa diroccata: lasciai la squadra Timeus a tentare il dissotterramento e me ne tornai presso all’ingegnere Juraga.

Questi dirigeva l’opera di sgombro con meravigliosa calma, calcolando con colpo d’occhio sicuro le resistenze in modo da evitare ogni crollo ulteriore, impartendo ai suoi intelligenti manovali ordini precisi, sistematicamente procedendo nella eliminazione delle travi e di materiali sconvolti. Intorno a quei valorosi, che affrontavano tranquillamente il pericolo di sparire in un baratro, si era raccolta una cinquantina di scampati, pallidi e malconci. S
eguivano essi ogni spostamento, ogni gesto, ogni comando con attenzione ansiosa, ammirando: nei loro occhi intelligenti si leggeva la riconoscenza per quei fratelli che sapevano venuti d’oltremare a dar prova dalla loro capacità patriottica. Man mano che il legname, le tavole, gli informi rottami erano rimossi, il lamento del sepolto sembrava avvicinarsi. A un tratto una piccola mano fu vista sbucare e muoversi. “Eccolo! eccolo!” L’ansia raddoppia in tutti i cuori. Raddoppia nei lavoratori la tensione dello sforzo e la volontà di vincere. E finalmente il piccolo corpo è liberato: un ragazzino di sei anni, vivo, salvo, è fra le nostre braccia, tempestato di baci, tutto ancora intontito e piangente.
Allora da quei forti petti abruzzesi partì un grido unanime, un grido che tante volte avevano udito sulle piazze d’Italia, ma che non mi aveva mai commosso come in quell’ora, in cui esso si parve suggellare, santificare il patto nazionale: “Viva Trento e Trieste”.

IL BIVACCO: ARRIVO DI ALTRE SQUADRE DI IRRIDENTI
La notte intanto era discesa, gelata, oscurissima, su quelle miserie. Poiché non avevamo mezzi di illuminazione, fu giocoforza sospendere il lavoro. Ci riunimmo per la cena alla prima casa (a quelle che erano state le prime case!) del villaggio. La nostra colazione era stata composta di pane e cioccolata: la cena fu di solo pane, il poco rimasto dalle distribuzioni fatte ai più affamati. Ma come ci sembrò saporito e dolce l’alimento essenziale, dopo quella giornata nostra così piena di vicissitudini, di angosce, di non inutile pietà e di febbrile fatica!

Accendemmo poi un gran fuoco per il bivacco. Provvidi la legna per tutta la notte, comandai le guardie alla fiamma e ci sedemmo intorno a quel lieto bagliore che rompeva ad un tempo le tenebre e il freddo del crudelissimo inverno. I superstiti avevano trovato non so dove, non so come, un pò di reliquie: dalla borgata distrutta giungeva al nostro orecchio, sola voce imperturbabile, la nenia della madre accanto alla salma della figlia giovinetta. A tratti, una scossa di terremoto: me ne accorgevo dall’oscillazione del baule semi-vuoto in cui avevamo portato il materiale sanitario e sul quale tenevo appoggiate le spalle. Il breve parossismo provocava qualche crollo ancora: si udivano qui e là imprecazioni e preghiere. Poi il profondo silenzio notturno.

Nessuno di noi poteva dormire. Raccontavo ai miei figlioli di elezioni storiche di altri bivacchi da me vissute alcuni anni. prima, “durante la grandi manovre. lo ero Il solo anziano” della vita nomade della vita campale. Ma ciascuno di noi, in volontariamente, pensava che quel villaggio ad Avezzano costituiva per noi anche utile preparazione alla guerra, che quel bivacco era forse il campione di una infinita serie di nottate all’aperto. E ci tornava alla mente il grido della folla a Cerchio: “Noi l’abbiamo già la guerra! Questa, questa è la guerra!” verso la mezzanotte udiamo sulla strada che scendeva dalla collina uno scalpiccio di passi e poi il suono di qualche voce. Tendemmo l’orecchio, nella speranza che facessero i nostri compagni dai quali c’eravamo separati in Ancona. Quando le voci si avvicinarono, credemmo che ogni dubbio fosse superato: parlavano Veneto: eran Veneti: eran loro! Corremmo incontro agli arrivati salutando con gride festose. Ma non erano i legionari di Mestre. Erano Triestini e Trentini residenti a Roma che, non appena si era sparsa la notizia della nostra partenza da Mestre, avevan deciso di raggiungerci, che ci avevan cercato durante la giornata a traverso la regione tragica e che finalmente erano riusciti a trovarci e venivano ad unire i loro sforzi ai nostri. Furono accolti con entusiasmo. E per il resto della notte l’incrociarsi delle domande e delle risposte, lo scambio delle impressioni e delle notizie, la narrazione reciproca della vita intorno all’altissima fiamma confortatrice.

MIA PARTENZA DALLA MARSICA
L’indomani mattina ai primi albori riprendemmo il lavoro. I feriti più leggeri che il dottor Nordio non aveva potuto visitare il giorno prima, ebbero tutti sollecite cure. Le squadre dei dissitterratori, rinforzate dal compagni giunti da Roma, ripresero le pericolose ricerche. Poco dopo, verso le sette, arrivarono alcuni legionieri da Ancona con provviste ed attrezzi. Questa cara avanguardia era composta da Benco, Foschiatti, Palin, Luise, Traviani e Nani. Le squadre che costituivano il secondo scaglione, per la maggior lentezza dell’autocarro e per l’ingombro delle strade, non sarebbero arrivate che più tardi.

Frattanto, chiamato da urgentissimi impegni (la Trento-Trieste attraversava un momento difficilissimo, per non dir critico) io dovetti ripartire per Venezia. Mi congedai dagli amici intrepidi che già avevo tratto in salvo da un ammasso di rottami una seconda creaturina, morente. Lasciai il comando a Vittorio Fresco, con cui presi tutti gli accordi per provvedere alle necessità più urgenti: liberazione delle vite umane tutt’ora in pericolo, cura dei feri1i e degli ammalati, vettovagliamento, costruzione di tende e baracche per i superstiti, polizia mortuaria.
E poiché la forza di cui disponevamo era troppo esigua per servire rapidamente questi compiti, stabilimmo di chiedere il soccorso dell’Esercito, eterno e fraterno soccorritore di ogni sventura nazionale. Ad Avezzano riferii al generale Guicciardi sulle condizioni delle Cese: egli subito dispose perché una compagnia di Fanti del 60° Reggimento fosse dislocata nel comunello distrutto e perché fossero inviati colà i materiali e le vettovaglie di cui era sentito urgente il bisogno. Salito sull’automobile che doveva tornare per Castellamare ad Ancona, traversai le montagne sepolte nella neve, percorse da branchi di lupi che urlavano lugubremente.

L’ULTERIORE OPERA DELLA LEGIONE: LE ALTRE BARACCHE: VIVA TRENTO E TRIESTE!
Anche senza di me, la legione rimasta alla Cese compì il suo dovere in modo esemplare. Parecchi i dissepolti: parecchi salvati dal pronto intervento dei sanitari lentissimi: Infiniti i cadaveri che ebbero sepoltura pietosa. In brevi giorni l’odore di cadavere cessò di ammorbar l’aria: l’alimentazione dei superstiti divenne presto normale. Nazario Sauro, dopo essersi prodigato nel salvamento dei pericolanti, volle dirigere quest’ultima parte delle operazioni. Cuoco improvvisato, egli fu visto, munito di un largo grembiule, mescolare imperterrito la pasta asciutta e vigolare le pentole enormi in cui bolliva il lesso.

Tre grandi baracche, costruite in fraterna collaborazione dei Fanti e dei Legionari, offrirono finalmente ai sopravvissuti riparo dalla inclementissima stagione. Le tre baracche ebbero nomi che esprimevano grandezza, dolore, fede, speranza: Trieste, Trento, Isteria. Sul tetto di ciascuna furono issate le bandiere che quei nomi consacravano, le bandiere che avevamo portate, coperte di gramaglia, in cento manifestazioni pubbliche, che per venti anni dalla nostra vita politica avevamo viste segno e bersaglio delle ire poliziesche. Ma i tempi erano mutati. Gli ufficiali che comandavano i Fanti del 60° (sono dolente di non poterne ricordare se non i cognomi: Ferretti e Pioppa) ordinarono la compagnia in parata di presentare le armi. I legionari piangevano. I superstiti delle Cese, raccolti all’incontro, si scoprirono reverenti, ubbidendo a un generoso istinto, e con voce unanime ripetendo il grido: Viva Trento e Trieste! Così, in cospetto di quel dolore, in premio del semplice gesto di solidarietà patria compiuto da volontari irridenti, per la prima volta l’Italia ufficiale e l’Esercito, superata l’annosa viltà dei Governi, salutavano nei tre simboli augusti le nuove provincie d’Italia.

MIO ENCOMIO ALLA RELIGIONE: A QUARTO GABRIELE D’ANNUNZIO CITA ALL’ORDINE DEL GIORNO GLI IRREDENTI ACCORSI AD AVEZZANO
Dopo una breve sosta a Roma, i Legionari rientravano a Mestre il 22 gennaio. In camerata trovarono affisso ques’ordine del giorno firmato da Fresco a da me: “Degnamente accolta dalle autorità, destinata ad un posto d’onore, dopo un viaggio disastroso e attraverso fatiche, sacrifici e pericoli, la Legione ha compiuto sui luoghi colpiti dal terremoto abruzzese un’opera altamente encomiabile di solidarietà nazionale. Ciascun volontario si è comportato in modo esemplare, lavorando con entusiasmo e con abnegazione e si è meritato la gratitudine della popolazione contristata e gli elogi dell’Autorità militare. “Noi siamo fieri di constatare come questo contegno abbia permesso ai Triestini e agli Istriani di offrire in un’ora di grave lutto, una prova miserabile del loro attaccamento alla Patria; e lieti di tributare un solenne encomio a tutti i volontari indistintamente e in modo particolare a Diomede Benco, a Gabriele Foschiatti, a Nazario Sauro, a Giacomo Juraga e ai capisquadra che sostennero le maggiori fatiche, le maggiori responsabilità e riuscirono a mantenere intatta, in condizioni difficilissime, la efficienza della Legione”.

Alla quale doveva toccare una ricompensa molto più alta della mia parola modesta, che non farà mai passare ai posteri nessuno. Mi sia permesso di citare con orgoglio il seguente testo: “E venne un altro segno. Un’ira occulta percosse e ruinò una regione tra le nobili, quella dove Toro Sabellino lottò contro la Lupa Romana, dove gli otto si giurarono fede, si votarono al fato fremento e la loro città forte nomarono Italica. Quivi la virtù del dolore da tutte le contrade convocò i fratelli. Il lutto fu fermo come un patto. Legni non s’udirono, lacrime non si videro. I superstiti, esciti dalle macerie, offerirono all’opera le braccia contuse. Nella polvere lugubre le volontà si moltiplicarono, prima fra tutte quella sovrana.
Una spirituale città fraterna sembrò fondata sulle rovine, pel concorso di tutti i sangui; e, meglio che quella del giuro, poteva chiamarsi Italica. I fuorusciti di Trieste e dell’lstria, gli esuli dell’Adriatico e dell’Alpe di Trento, i più fieri allo sforzo i più candidi, diedero alle capanne costruite i nomi delle terre asservite, come augurare ed annunziare il riscatto. Il fratello guardava, talvolta, per leggere nel fondo degli occhi le certa risposta alla muta domanda.
Allora lo spirito di sacrificio entrò nella nazione riscossa, percorse la primavera d’Italia”. Così Gabriele d’Annunzio, l’Animatore, nella orazione per la Sagra dei Mille che fu la diana della nostra epopea, volle annovare la nostra spedizione fra i segni annunciatori del miracolo nazionale. A tanto premio nessuno di noi, che avevamo istintivamente ubbidito al cenno della Patria in travaglio, osava certamente aspirare. E però, quando leggemmo le parole del Maestro, sentimmo che esse rivelarono a noi stessi la verità che tanto ci sublima.

a cura di Fiorenzo Amiconi

Note
1) Giovanni Giuriati, uomo politico fascista, nacque a Venezia il 4 Agosto 1876. Intervenista e volontario nella prima Guerra Mondiale, fu capogabinetto di Gabriele D’Annunzio nella impresa di Fiume e comandò le squadre d’azione venete nella marcia su Roma. Deputato dal 1921 al 1934, fu Ministro delle terre liberate (1923) e dei Lavori Pubblici (1925-29), presidente della Camera dei Deputati (1929-1934), Segretario del Partito Fascista (19301931).
Nel 1934 fu creato senatore. Nella seduta del Gran Consiglio del 24.7.1943 votò l’ordine del giorno Grandi e fu condannato a morte in contumacia. Nel 1947 fu processato per atti rilevanti a favore del Fascismo, ma venne assolto. Altre sue opere sono: “La navigazione aerea e il pericolo criminale, 1910”; “Delitti contro la proprietà”, 2° Edizione, 1013; “La crociera Italiana nell’America Latina”, 1925; “Parole pronunciate al IV Congresso Idrografico Nazionale”, 1928; “Vittorio Emanuele Il”:Discorso pronunciato il 4 novembre 1928 al Teatro Regio di Torino”.

 


   I giornali dell’epoca

Avezzano è rasa al suolo e così pure i paesi limitrofi. Gli edifici pubblici sono tutti distrutti. Si calcola che appena ottocento persone siano salve. La maggior parte di esse e ferita. (Stefani). I primi particolari, così come furono diffusi dalla stampa. Si noti come nessuna delle prime notizie provenga direttamente da Avezzano: per buona parte della giornata del 13 gennaio Avezzano fu strappata al resto del mondo: non dava ne riceveva notizie. «Io ero ad Avezzano ed aspettavo il treno proveniente da Celano che doveva portarmi a Tagliacozzo e  poi a Roma.

Erano le 7,25 precise. Alcuni minuti dopo si e inteso un rombo terribile come un grande tonfo, lontano dapprima e che poi, via via, si avvicinava. Intanto la terra ha cominciato a tremare. Non era più possibile stare in pie di. Io mi sono lanciato fuori dalla tettoia in mezzo alla linea e in quel breve tratto ho camminato come un ubriaco. Appena sono stato fuori dalla tettoia, questa è rovinata. Sono salvo per miracolo. Questo crollo è sembrato il segnale della rovina di tutti i fabbricati dentro e fuori la stazione. Della stazione non sono rimasti in piedi che il casotto della ritirata e il rifornitore dell’acqua. E non quello nuovo in cemento armato, ma quello vecchio, che pareva dovesse cadere ad ogni istante. Se dentro Avezzano e avvenuta la stessa cosa che alla stazione, Avezzano non deve essere più che un’immane rovina».
       La Tribuna, 13-1-1915

«Non mi resi conto esatto, pel momento, di ciò che era avvenuto; ritenni dapprima che si trattasse del crollo improvviso dello stabilimento dove ero occupato, catastrofe forse avvenuta per lo scoppio di qualche macchina. Non potevo prevenire quale orribile immane catastrofe si fosse abbattuta sulla ridente Avezzano, così tranquilla e piena di vita. La gamba sinistra mi doleva abbastanza, ma ciò non mi impedì di trascinarmi fino all’aperto. Ma appena fuori, all’aperto, i miei orecchi furono straziati da mille lamenti. Guardai Avezzano e credetti ancora di essere vittima di un orrendo sogno. Il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dall’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso, Avezzano era scomparsa ed al suo.posto non si scorgevano che pochi muri».
    «Il Mattino», 14-1-1915

Stamane a Tivoli, dalla linea dell’Abruzzo, sono pervenute le prime gravi notizie sulla stazione di Avezzano. Aveva fatto impressione la mancanza di informazioni sul treno numero 611 che doveva giungere alle ore 8,19. Alle ore 7,30 il capostazione aveva ricevuto ad Avezzano un dispaccio nel quale veniva segnalato per quell’ora un ritardo di sessanta minuti; ma il treno non era ancqra giunto a quella sta-zione. Da allora non si era saputo più nulla. più tardi e giunta la notizia che la stazione di Avezzano era crollata. Poi le notizie si sono fatte sempre più gravi, finchè sui treni di soccorso inviati sulla linea, sono giunti i primi feriti che sono stati trasportati all’Ospedale. Fra essi vi era anche Pietro Rosati, di anni 32, guardia merci alla stazione di Avezzano. Egli ha detto che mentre era in ufficio è stato sorpreso dalla scossa; mentre cercava di fuggire venne colpito alla testa da una trave. Poco dopo tutto il fabbricato della stazione e crollato. Un altro ferito che si trovava vicino al Rosati ha esclamato: «Avezzano è tutta spianata».
    «Corriere della Sera», 14-1-1915

Il treno che mi porta nella regione dell’antico lago Fucino, ora prosciugato e ridotto ad agro ubertosissimo, reca con se, avviandosi ai luoghi del dolore, anch’esso i suoi dolori. Figli, genitori, spose di persone che abitavano i luoghi della sventura gremiscono, ansiosi per la sorte dei loro cari, tutte le vetture. E quando il treno interrompe il suo cammino, reso lento dalle condizioni precarie della linea ferroviaria, e dopo aver percorso a passo d’uomo gallerie e ponti che, danneggiati anch’essi dalla tremenda scossa, possono rovinare da un momento all’altro, sosta più lungamente nelle piccole stazioni dei paesetti abruzzesi, e un propendersi ansioso di volti dai finestrini delle vetture e un chiedersi conciato: E ad Avezzano? Ma la risposta attesa non giunge a consolare il dolore di tanti cuori; da Avezzano nessuna notizia, o peggio: Avezzano e distrutta. così a Monte Celio – la prima stazione dopo Roma – dove si incontra il primo treno proveniente da Tagliacozzo, così a Tivoli, così a Mandela. Il Palazzo Torlonia – dicono – (il palazzo più grande e forte di Avezzano) e crollato. Vi sono moltissime vittime. Il quartiere dei soldati (un ex-convento che era occupato da una compagnia del 13’ fanteria), e anch’esso crollato, e quasi tutti i soldati sono periti sotto le macerie. Carsoli, Colli, piccoli paesi della linea di Avezzano, sono immersi nell’oscurità. La popolazione si è riversata nella stazione e accampata nei vagoni ferroviari, timorosa del ripetersi delle scosse.

  I treni dei feriti

Ad Arsoli incrociamo un treno di feriti, amorosamente curati dalle suore di San Vincenzo, dimoranti in Arsoli. Sono un centinaio. I feriti giacciono sui sedili delle vettureviaggiatori o a terra nei carri, sdraiati sulla paglia. Sono per la maggior parte feriti non gravemente, alle gambe o alla testa. Intanto qualcuno di coloro che viaggiavano verso Avezzano, nell’ansia di riabbracciare i propri cari ancora vivi, vede svanire le sue speranze. Un vecchio che era partito da Roma con un suo figlio giovanetto, ansioso sulla sorte d’un altro figlio frenatore ad Avezzano, ora apprende che suo figlio – certo Antinori, il quale, nominato solo da alcuni giorni, era partito ieri da Roma e oggi doveva prestar per la prima volta il suo servizio – giace sotto le macerie. Alla stazione di Tagliacozzo, dove ci fermiamo in attesa di un altro treno di feriti, apprendiamo che sono completamente distrutte Massa D’Albe, Magliano, Cappelle e Avezzano. Giunge il treno dei feriti e degli scampati: sono tutti inebetiti dallo spavento, sebbene siano ormai passate sedici ore dal disastro. Non fanno che ripetere che Avezzano e distrutta e che a migliaia vi si contano i morti. L’opera di disseppellimento, iniziata soltanto nel pomeriggio, fu dovuta interrompere per la sopraggiunta oscurità.

Autorità fra le vittime

Ad Avezzano constatiamo che il disastro supera qualsiasi immaginazione. Della stazione non restano che mucchi di macerie, sotto cui sembra giacciano alcuni impiegati. Il capostazione Antonio Fiorentino ha perduto la moglie ed egli stesso e rimasto ferito. Sono morte le principali autorità della città: il sottoprefetto De Terzi e sua moglie, il sindaco Giffi. Il capitano dei carabinieri cav. Natale Pevelli, di Milano, e morto con undici carabinieri e il maresciallo comandante la stazione. Un solo carabiniere si e salvato. Sono invece salve la signora del capitano e la signora del maresciallo. Del distaccamento del 13’ fanteria, composto di 85 soldati, 25 sono morti. Particolarmente notevole e stata l’opera di salvataggio del padovano caporale Tamburo e del soldato Zanone, merce l’opera dei quali furono salvi il tenente Agostino Serrauto e il tenente Lauro De Sanctis. Ambedue questi ufficiali sono pero feriti sebbene non gravemente. E morto anche il delegato Di Salvo. Da Aquila l’amministrazione provinciale ha provveduto a inviare sui luoghi il maggiore dei carabinieri Parenti, il medico provinciale Briccia e altri due medici. I feriti che vennero raccolti dalle macerie sono curati in un carro ferroviario di soccorso, e man mano che hanno ricevuto le prime cure, vengono avviati verso Roma.
    A. ROSSINI «Corriere della Sera»; 14-1-1915

Ristabilito il servizio telegrafico con Avezzano, il deputato Sipari ha telegrafato al Messaggero in questi termini: «Il disastro e immane. Avezzano e totalmente rasa al suolo. Celano, Pescina, Luco dei Marsi, Trasacco si dicono seriamente danneggiati. Occorrono subito 25.000 uomini, pane, acqua, medici, barelle, legname per baracche. Il disastro supera quello di Messina per la violenza e per proporzione delle percentuali di feriti». Il Messaggero dice che dall’insieme delle ultime notizie raccolte dai feriti e fuggiaschi i paesi distrutti nella Marsica sarebbero: Avezzano, Cappelle, Magliano dei Marsi, Massa d’Albe, Collarmele, Cerchio, Celano, Ajelli, Paterno, San Pelino, Gioia dei Marsi, Scurcola Marsicana, Capistrello, Antrosano, Castronuovo. I paesi gravemente danneggiati e con morti e feriti sarebbero: Pescina, Ortona dei Marsi, San Benedetto dei Marsi, Ortucchio, Cocullo, Bisegna, Balsorano, Canistro, Civitella Roveto, Civita d’Antino, Castellafiume, Pagliara e Sorbo. Altri paesi danneggiati e pure con morti e feriti sarebbero: Tagliacozzo, Ovindoli, Cappadocia, Sante Marie, Poggio Filippo, San Donato, Santo Stefano, Roccacerro, Carsoli, Pereto, Luco e Trasacco.
«Corriere della Sera», 14-1-1915

Stanotte sono arrivati i militi della Croce Rossa, i quali hanno subito cominciato a curare i feriti. I militi si sono subiti recati nel paese e alla luce delle torce hanno cominciato l’opera dei disseppellimento. Ma sono pochi e manca il materiale necessario per il salvataggio. Alcune squadre di volenterosi sono venute dai paesi vicini ed hanno cominciato l’opera umanitaria, ma hanno dovuto smettere subito, per mancanza dei mezzi indispensabili. Occorrono anche viveri per coloro che si prestano a questa generosa impresa. Episodi commoventissimi si verificano dovunque. Una bambina ha messo fuori una manina dalle macerie. Si sono avvicinati subito dei soldati ed hanno tentato di salvarla; ma per mancanza di mezzi hanno dovuto sospendere l’opera loro per paura di veder morire la piccina da un momento all’altro e quando hanno potuto ritentare l’opera si sono accorti che la povera creatura era già morta e accanto a lei si trovava il cadavere della madre. L’opera dei soldati procede sempre in modo mirabile. Ma i mezzi di cui dispongono sono inferiori ai bisogni. Urge assolutamente provvedere. In questo senso hanno chiesto provvedimento al ministero gli on. Sipari, Torlonia e Guglielmi che sono presenti sul luogo.
    «Il Mattino», 15-1-1915

La tragica notte Avezzano tra macerie e i sepolti

Torno adesso da una rapida corsa attraverso la città. Si può dire che di Avezzano non sia rimasta letteralmente pietra su pietra. I pochi superstiti che si trascinano tra le macerie cercando i loro cari, non riconoscono più le strade. Il terremoto, rovesciando al suolo tutte le case, ha trasformato la ridente cittadina abruzzese in un cumulo di sassi. Qua e 1h, in qualche spazio rimasto libero, intorno a un fuoco improvvisato con rami di alberi, sono accoccolati o sdraiati su coperte alcuni feriti. Durante la notte si sono continuati i salvataggi. Una squadra di elettricisti romani ha estratto dalle macerie la figlia di un impiegato ferroviario, certa Ester Dominioni, di anni 18. Il padre, che era in servizio, ha fatto una trentina di chilometri a piedi per recar soccorso alla famiglia. Egli ha trovato la figlia ancora viva e dalle macerie e stata pure estratta viva la moglie, Luisa Dominioni. Un bambino e il vecchio padre sono stati trovati morti. Con l’aiuto di un distaccamento di soldati giunti da Aquila, i due feriti vengono trasportati su barelle improvvisate alla stazione e curati nei vagoni-ambulanza. Mentre seguiamo il triste drappello ci giungono dalle macerie fievoli richiami di sepolti. Di sotto un cumulo immenso di sassi una voce d’uomo, nel caratteristico dialetto abruzzese, lancia un supremo appello: Aiutateme! Aiutateme! Il lamento del sepolto non fa che accrescere in noi il dolore della nostra impotenza.
A.R. «Corriere della Sera», 14-1-1915

Avezzano, sepolcro di un popolo. perché la città è crollata. (Dall’inviato speciale del corriere della sera, 14 gennaio), Ho già detto le ragioni della proporzione assolutamente spaventosa dei morti in rispetto dell’importanza delle cittaduzze colpite. Prima di esse la virulenza della scossa che sconvolse di colpo tutta la regione. Tutti quelli che erano ad Avezzano, tutti quelli che erano in tutte le cittadine della Marsica furono sepolti senza scampo e senza remissione. Ed i superstiti sono di due categorie: quelli che per una ragione qualunque non erano nelle case al momento della catastrofe, e quelli che riuscirono in una maniera qualunque a sfuggire pressoché incolumi alla stretta delle macerie. Altra ragione dell’immane strage e il materiale ed il modo in cui era costruita Avezzano che col prosciugamento del Lago di Fucino, aveva visto rinnovata tutta la sua architettura. Case nuove quindi, molto alte, pesanti, costruite in una pietra pesante ma molto molle e tenute assieme da una calce in cui non entra pozzolana.

Data una scossa capace di scardinare dal suolo delle case così pesanti, si comprende quale massacro abbiano provocato i massi, spessissimi, che due uomini non riescono a sollevare e si comprende anche quanto minore percentuale di uomini vivi si potranno cavare dalle macerie. Poiché per colmo di sventura, la calce, quando non è mescolata di pozzolana diventa friabilissima e si polverizza. Il risultato e stato che questa polvere ha livellato e chiuso tutti gli orifizi, tappato tutti i buchi, otturato tutte le fessure levando l’aria completamente anche a coloro cui un caso fortunato aveva risparmiato lo stroncamento delle reni. Una gran parte dei cadaveri che i superstiti estraggono a gran furia dalle rovine portano i segni evidentissimi della morte per soffocazione.

  La tomba di dodicimila cadaveri

Per la circostanza che a prima vista poteva parere inesplicabile, della presenza cioè di tante persone nelle case – circa il novantasette e mezzo per cento –, a quell’ora tardissima per una popolazione rurale, la spiegazione e data da tutti: le nebbie del Fucino che fanno ritardare di questa stagione le opere fino ad oltre le nove, il freddo acuto che incatena in queste asprissime mattine vecchi e giovani al focolare in cui tiepide ancora sono le ceneri e lo spirito di questo popolo che ama più la sua casa che il suo campo. Il terremoto ha sorpreso tutti all’ora del caffè e quanti ne ha trovati, tanti ne ha uccisi. Quindici minuti più tardi avrebbe fatto la meta se non un terzo delle vittime. Questo per Avezzano. Per gli altri paesi poi, che erano costruiti su quello che fu il letto del Lago di Fucino, la sorte e stata subito decisa. Le loro fondamenta eran gettate su un acquitrino; il primo soffio di vento le avrebbe abbattute come un giuoco di carte. Il terremoto le ha spiantate. Tale e stata la sorte di Trasacco, di Luco, di Ortucchio, isolotto una volta perduto in mezzo al Lago. Ma per questo o per altre più peregrine ragioni un fatto e indiscutibile: tutta la terra dei Marsi e morta per sempre con la sua gente fiera e nobile. Avezzano e una tomba suggellata sul capo di undici o dodicimila cadaveri e così tutto il circondario.

  Avezzano risorgerà

La nuova stazione e sorta oggi accanto all’antica diroccata dal terremoto. Costruito in legno, con tutte le comodità suggerite dalla scienza e consentite dal materiale, il nuovo edificio inizia quasi il passaggio dallo stato transitorio allo stato definitivo, dall’accampamento primordiale delle tende e dei vagoni, alla comoda, stabile casa, non importa poi se di legno piuttosto che di pietra e mattoni. Ma già accanto alla stazione sta sorgendo anche, ad opera del segretario capo del Comune, signor Michelangelo Colaneri, la sede del Municipio: un comodo edificio in legno con armatura di ferro, offerto da Roma alla città sorella. Esso ospita sin da oggi l’archivio comunale, che prima era vigilato tra le macerie da due sentinelle. Risorgera dunque, con la sua stazione e il suo Municipio, Avezzano? Questa ora e la convinzione anche di chi nei primissimi giorni del disastro, di fronte a un così terrificante spettacolo di desolazione e di morte, aveva pensato che, morti i cinque sesti dei suoi abitanti, la citth dovesse considerarsi anch’essa perita.

Ed e soprattutto l’ardente fede dei superstiti, che, sinora dispersi, già si accingono a raccogliersi, a condensarsi per ricercare le vie della nuova vita. D’altronde la sua speciale posizione, la sua condizione di sbocco unico e naturale di diecine di Comuni, la sua qualità di nodo ferroviario dell’Abruzzo centrale, avevano fatto di Avezzano, il centro necessario della plaga del Fucino. E perciò, mentre essa nel 1871, non era nulla più di una grossa borgata di 5.000 abitanti, crebbe poi così da annoverarne al 13 gennaio 1914 ben 13.000 e da essere la terza città per popolazione della provincia dopo Aquila e Sulmona, mentre era forse la prima per importanza di industrie e commerci. Qui erano la sotto prefettura, il tribunale, l’ufficio del registro, un fiorente ginnasio e una fiorentissima scuola normale femminile.

Le entrate del Comune salivano a oltre 300.000 lire, il che permetteva all’amministrazione di svolgere un ampio programma di lavori per oltre un milione e mezzo, e dotare la città di un’abbondante acqua, di una perfetta rete di fognatura, di un completo servizio di illuminazione. Per dare poi una prova delle condizioni economiche della città, basterà dire che ad Avezzano, Comune aperto di quarta classe, la ditta appaltatrice del dazio pagava al Comune 100.000 lire di canone. Il terremoto ha distrutto molte ricchezze, ma non può averne inaridita la fonte che traeva alimento specialmente dai floridi prodotti agricoli dei sedicimila ettari che i Torlonia hanno redento dalle acque prosciugando l’antico lago. Nell’immenso latifondo lavorano migliaia di coloni. L’Amministrazione Torlonia ha già fatto comprendere che manterrà la sua sede ad Avezzano. Gih 150 operai lavorano a sgomberare le macerie dell’antico palazzo principesco con l’aiuto di una ferrovia Decauville. E già nella valle sta sorgendo la baracca dove l’amministrazione avrà i suoi nuovi edifici.
 Il Corriere della sera

Le case non ebbero più il loro nome: divennero un confuso ammasso di macerie su cui s’alzava un denso polverone giallastro di calcinacci, sotto cui si spegnevano tante umane esistenze. Invano i genitori attesero i propri figli al caldo ’abbraccio, invano i figli attesero il sorriso dei loro cari, avvolti nel silenzio profondo della morte.

Le sue rovine non appaiono al soccorritore se non quando si e dentro al paese; solo allora ci si avvede della vasta distesa di detriti e calcinacci… abbattutisi come una fiumana. Una sola casa e rimasta illesa, una, per ironia della sorte, questa non era, a quel momento, abitata da nessuno. Le strade di accesso al paese risultano interrotte da vaste fenditure apertisi nel terreno. Un superstite che tentava di raggiungere il paese ha visto improvvisamente la strada sprofondare per oltre un metro.

 


Il terremoto in versi

Màmma Mé

Mamma dicétte: “Arrìzzete ch’è óra,
léste, se fa tàrde pé’ lla scòla”
ì’, sènza famme dì’ più `na paròla,
me vestìtte, ma… me recòrde ancora,

m’èva date `ne mùcciche de pàne
ch’ì’ me stév’a magnà’ sènz’appetìte,
`ché me sentìv’ancóra `nzunnulìte,
quànte sentèmme, cómme da lontane,

`ne rumóre che ppó’ fu spaventùse
e che fice trettecà’ la casa:
màmma capìtt’e più che persuàsa,
fice `ne strìlle pròpia turmentùse.

“Je tarramùte, cùrre, fijie béjie!”
me fice la bonàrma benedétta;
ma né’ mme vìnn’a ttémbe. La casétta
crullétte, ch’èva pròpia `ne fraggéjie.

Ì ne’ mme fice gnènde, màmma; tu
te lamentìve sótt’àlla macèra,
me respunnìve, ma…vérze la séra,
dicìste: “Oddìe!” e ne’ parlìste più!

 Antonio Pitoni


Gallery

I DATI 

Numero dei Morti nelle località interessate dal sisma

Località Abitanti Vittime Percentuale %
       
Avezzano
Massa D’Albe
Pescina
Ortucchio
San Benedetto Dei M.
Cappelle dei Marsi
Magliano dei Marsi
Paterno
Collarmele
Cerchio
Gioia Dei Marsi
San Pelino
Aielli
Corona
Canistro
Santa Natolia
Lecce Nei Marsi
Venere
Scurcola Marsicana
Pescosolido
Antrosano
Trasacco
Civita D’Antino
Sora
Celano
Luco Dei Marsi
Scanno
Castelliri
Villalago
Tarre Cajetani
Isola Del Liri
Arpino
Monte S. G. in Sab.
Barrea 
Subiaco
L’Aquila
Villetta Barrea
Villa Latina
Fontana Liri
Anversa Degli Abruzzi
Musellaro
Pentina
Belmonte In Sabina
Raiano
Monteleone Sabino
Valle Rotonda
Campoli
Veroli
Popoli
Lettomanoppello
Monterotondo
Trevi
San Valentino
San Donato
11279
602
5552
2534
4245
857
2611
1595
2026
2582
3413
1338
2422
401
1348
637
2088
552
2611
1278
690
3772
519
7385
9055
5010
3337
2224
1792
753
2034
2817
1414
2038
7659
16206
1547
1259
1326
1434
782
3170
954
3807
1171
2529
1511
3961
7988
2385
5016
2337
4473
7079
10700
500
4000
1800
3000
600
1800
1000
1200
1300
1600
600
1000
150
450
100
500
430
405
124
60
300
41
500
600
300
200
60
25
8
20
16
7
9
30
40
3
2
2
2
1
4
1
4
1
2
1
2
4
1
2
1
1
1
94.86
83.06
72.44
71.33
70.67
70.01
69.94
62.70
59.23
50.35
46.88
44.84
41.29
37.41
33.38
27.25
23.95
23.55
15.61
9.70
8.70
7.95
7.91
6.77
6.63
5.99
5.99
2.70
1.39
1.06
0.98
0.57
0.49
0.44
0.39
0.25
0.19
0.16
0.15
0.14
0.13
0.13
0.10
0.10
0.09
0.08
0.07
0.07
0.05
0.04
0.04
0.04
0.02
0.01

Percentuale delle Abitazioni distrutte in alcuni Comuni delle Marsica

Comune Percentuale%
   
Avezzano
Celano
Cerchio
Collelongo
Gioia dei Marsi
Lecce Nei Marsi
Luco
Ortucchio
Pescina
Trasacco
Villavallelonga
100
80
80
15
100
100
100
100
90
70
100


Per quanto riguarda i paesi non direttamente aderenti alla conca fucense e assumendo come punto di riferimento il Fucino, lungo la direttrice Est-Ovest il terremoto distruggerà completamente Magliano dei Marsi, Cappelle e Scurcola. Oltre Scurcola, in direzione Nord-Ovest le onde sismiche non troveranno difficolta a propagarsi, attraverso i Piani Palentini, per la valle del Salto facendo danni in particolare a Borgocollefegato, Fiamignano e Petrella Salto.

Da Scurcola verso Ovest le onde invece lasceranno contenute tracce del loro passaggio nella contigua Tagliacozzo arroccata com’e questa sulla montagna. Tagliacozzo rimarrà cosi poco disastrata che il capotreno del convoglio che stava lasciando Avezzano quando il sisma si è scatenato, e potè osservare inorridito la distruzione della città, accelererà la marcia per poter dare tempestivo allarme, che partirà proprio dalla stazione ferroviaria di Tagliacozzo, trovata praticamente indenne. Oltre Tagliacozzo rimarranno pochissimo danneggiati i successivi distretti di Carsoli ed Arsoli. Gli effetti del sisma si rifaranno invece sentire lungo la valle dell’Aniene; risalendo la valle si registreranno rovine ad Agosta e Subiaco e quindi ancora a Janne, Trevi nel Lazio e Filettino.

Discendendo invece verso la media valle dell’Aniene risulteranno danneggiati Roviano e Cineto Romano sulla destra del fiume, Anticoli Corrado sulla sinistra e via via altri centri fino a Tivoli il sisma passerà oltre Tivoli. Saltando il ciglio montagnoso il terremoto si farà sentire a Roma; volgendo invece a Nord Ovest oltrepasserà i monti Corniculani per riapparire ancora e far tremare Monterotondo, interessando quindi la valle del Tevere e, attraverso di questa, le varie località di cui abbiamo già fatto cenno. Dal nodo di Tivoli le onde sismiche si spingeranno anche al di la dei monti Prenestini per far sentire ancora sommotimenti nel distretto di Palestrina.

Al meridione del Fucino il sisma si diffonderà preferenzialmente per la valle del Liri, danneggerà fortemente ed apporterà lutti a Balsorano ed agli altri centri della valle, imperversando duramente fino alla conca di Sora. Nella direzione Sud Est il terremoto raggiungerà Sulmona e la sua conca, vi seminera dappertutto distruzioni e morti, fino all’estremo centro della gola, Popoli, donde passera verso la bassa valle della Pescara. Proseguendo la corsa a Sud Est il sisma risalirà per l’antico percorso Numicio ed arrechera lutti e distruzioni a Rocca Cinquemiglia, Roccaraso, Castel di Sangro. Ma saranno malridotte anche le zone dell’attuale Parco Nazionale d’Abruzzo, in particolare Pescasseroli e Villetta Barrea; oltre il monte Argatone altri centri, Scanno, Villalago e Frattura, riceveranno danni. In direzione Est il terremoto raggiungerà i centri lungo la Pescara infliggendo danni in particolare a San Valentino in Abruzzo Citeriore, Caramanico, Manoppello e, in misura inferiore, Chieti.

A settentrione del Fucino le onde sismiche perverranno, al di la della montagna di Ocre, nella conca Aquilana, terra che ha già dimostrato abbondantemente un’accentuata risonanza sismica con il bacino Fucense. L’Aquila riceverà non pochi danni e con essa numerosi centri della conca e soprattutto Barisciano, Paganica, Poggio Picenze, Sassa e Tornimparte. In sintesi il grande sisma della Marsica avra toccato e danneggiato, fra grandi e piccoli, oltre centocinquanta centri abitati.

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