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Il “covone” ed altro tra linguistica ed antropologia

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Continuando le mie ricerche ho fermato l’attenzione sull’uso, registrato ad Avezzano, di volgere verso oriente le spighe dell’ultimo covone chiamato cavàje che copriva il cavallìtte o mundìne, mucchio di 13, 17 o 21 covoni[1].  Questo pur breve accenno all’orientamento dell’ultimo covone, a mio avviso deve essere l’estrema reliquia di qualche rito preistorico che probabilmente accompagnava tutta la mietitura, operazione importantissima e vitale per la sopravvivenza degli uomini. L’addomesticamento del frumento cominciò 8-10mila anni orsono nel Medio Oriente per poi propagarsi anche in Europa. So che in Siria soprattutto si venerava un dio del Sole chiamato El Gabal ‘dio Gabal’ il cui culto arrivò anche a Roma tramite l’imperatore Ela-gabalo o Elio-gabalo (218-222), il quale era stato educato come suo sacerdote ad Emesa in Siria[2].

Ora, non è assolutamente da scartare l’ipotesi che quest’usanza dell’orientamento ad est del covone chiamato cavaje risalga al tempo in cui i coltivatori mediorientali cominciarono ad addomesticare il frumento e magari si rivolgevano a questa divinità solare per ringraziarla dei suoi doni. La somiglianza dei due nomi cavajë/Gabal mi sembra perfetta, richiamando ambedue la voce cavallo < lat. caball-u(m).  Non credo che l’usanza si sia potuta originare nel breve periodo in cui rimase al potere a Roma l’imperatore Eliogabalo (finito trucidato, per intrighi di corte, dai pretoriani), anche perché l’esatto significato dei termini di raffronto non poteva essere noto ai contadini marsi di quell’epoca. In effetti il termine cav-aje alle origini doveva significare ‘cov-one’ di cui è a mio avviso una variante, come dimostra l’abr. cav-all-éttë ’covone’[3], voce che normalmente nella Marsica indicava il ‘gruppo di covoni’, come ho già detto all’inizio, insieme all’altro termine mundine, il quale però ad Aielli ed altrove veniva riferito ad un ‘mucchio’ di fieno, non di covoni.  Mi sto soffermando su questi concetti perché una parola semitica che gli studiosi pongono alla base del nome del dio Gabal significa proprio ‘monte’, concetto che andrebbe bene sia per esprimere l’altro di “mucchio” di covoni, sia quello del “covone” stesso, essendo quest’ultimo un insieme di steli o di mannelli. In toponomastica i molti Monti Cavallo non traggono il nome dall’animale, secondo me, ma proprio da questa parola semitica[4].

Ne Il ramo d’oro di James Frazer (1854-1941)[5], cap. 48, si osserva che in tutta la Svevia, regione della Germania, l’ultimo covone sul campo veniva chiamato la vacca.  Ora, se in lingua tedesca il termine per vacca è Kuh (ingl. cow) forte è la tentazione di vedere sotto di esso la radice di it. cov-one, emiliano co, cov ‘covone’, lomb. coeva, coeuf ‘covone’. Cosa sarà successo? una magia? A mio avviso più semplicemente e realisticamente , ad un certo punto dello sviluppo della lingua, il termine *cov ‘covone’ divenne nell’a.a.ted. kufo e poi houf, hufo  (oggi ted. Haufen ‘mucchio’) con la normale spirantizzazione della occlusiva  /k/, e al suo posto subentrò il termine in questione ted. Kuh ‘vacca’ o qualche allotropo più simile all’ingl. cow ‘vacca’, tutti provenienti da forme con velare sonora iniziale come nel sscr. gou ‘vacca’: insomma, un giochetto a rimpiattino che gli stanchi mietitori rallegrati dalla birra o da altra bevanda alcolica accettarono di buon grado e poi tramandarono di generazione in generazione facendo nascere l’idea, in un contesto incline alla interpretazione mitologica, che era lo spirito del grano ad assumere la forma della vacca.  Del resto non è da credere che queste trasformazioni nella pronuncia di alcune lettere siano avvenute improvvisamente e contemporaneamente in tutte le parlate, ma ci saranno stati periodi più o meno lunghi in alcune di esse in cui le due forme avranno magari convissuto e combattuto tra loro prestandosi al gioco suddetto. Tuttavia lo scozzese cow ‘erica, spazzola, ramazza’, apparentemente non raggiunto dalla spirantizzazione della occlusiva iniziale o salvatosi anch’esso proprio per l’intervento provvidenziale di cow ’mucca’ che però ha ceduto il suo significato a favore dell’altro, richiama direttamente l’idea di ‘mazzo, insieme di rametti, covone’.

E’ sempre Frazer nel suo Il ramo d’oro, cap. 48, ad informarci che a Lille in Francia il primo covone veniva chiamato “croce del cavallo” ( in fr. croix du cheval) e veniva posto su una croce di legno di bosso nel granaio e fatto calpestare dal puledro più giovane.  Di chi trebbiava l’ultimo covone si diceva che “batteva il cavallo”.  Si ripresenta qui, a mio parere, il termine cavallo ad indicare, come ad Avezzano, il “covone”.  Si tenga presente anche il termine fr. javelle ‘covone, mannello, fastello‘ simile a fr. cheval: quest’ultimo proviene, come è noto, dal lat. caball-u(m) mentre il primo deriva dal gallico gabali ‘bracciata’[6]. Aguzzando bene la vista ci si accorge che anche il “legno di bosso” (fr. bois de buis), di cui si parla, sta lì non per caso ma perché i due termini assonanti (bois ‘legno’ e buis ‘bosso’), ad un certo stadio della lingua e delle sue varie parlate, avevano indicato evidentemente il ‘covone’.  Infatti bois, che significa anche ‘bosco’, presenta la stessa base di fr. bouqu-et ‘mazzo’(la traduzione etimologica in italiano corrisponderebbe a ‘boschetto’) e di ingl. bush ‘cespuglio, boscaglia’. La radice di lat. bux-u(m) ‘bosso’ poteva facilmente alternare, per metatesi, con quella di lat. medv. busc-u(m) risalente forse al germanico, e dare appunto il fr. buis ’bosso’ .

E’ un vero peccato che né i linguisti né gli antropologi si siano mai accorti almeno della possibilità di spiegare in questo modo i racconti del mito, indipendentemente dal fatto di considerarlo valido o meno. A dire il vero ci fu nell’Ottocento un grande studioso, filologo e storico delle religioni, il tedesco Max Müller (1823-1900)[7], che aveva capito qualcosa (o molto) sulla pletora di significati che può avere una parola e la possibilità della nascita dei miti attraverso l’incrocio di termini assonanti, ma evidentemente la sua idea non ebbe abbastanza seguito, visto che già il Frazer, più giovane di lui di oltre un quarto di secolo, non si pone affatto il problema degli incroci di termini nella spiegazione delle parole costituenti storielle e racconti tradizionali che, se non sono miti, hanno comunque alcunché di magico e irrazionale. Egli si accontenta di notare che, in una mentalità magica e animistica, è lo spirito del grano a produrre simili metamorfosi ed incarnazioni animalesche.  Mi sembra impeccabile la spiegazione data dal Müller del mito di Deucalione e Pirra (i ripopolatori della terra dopo il diluvio universale mandato da Zeus, che gettavano alle loro spalle pietre trasformantisi in uomini), tramite l’assonanza delle parole greche lãas ‘pietra’ e láos ‘gente, popolo, esercito’.

Interessante è il riferimento alla croce nell’espressione francese precedente croix du cheval: anch’essa a mio avviso ruota nell’ambito del concetto di fondo di “covone”, che è quello di “unione, raggruppamento, connessione”, degli steli del grano da un lato, e dei bracci di una croce dall’altro. Per fare un esempio chiarificatore circa il numero faccio notare che il lat. convent-u(m) poteva indicare contemporaneamente l’incontro di due soli uomini oppure di molti (assemblea, folla, ecc.).  Quindi il lat. cruc-e(m) ‘croce’, come del resto le altre parole, sfruttava solo uno dei molti significati che esso poteva avere, come ‘covone, forcella, crocchio, cavallo dei pantaloni (come vedremo subito), ecc.’. In effetti l’espressione italiana “cavallo dei pantaloni” ci riporta nell’ambito del concetto di “collegamento, connessione”, perché essa designa la linea di sutura delle due gambe che forma una sorta di biforcazione. Non per nulla la parte del corpo corrispondente è chiamata in italiano inforcatura, in ingl. crotch, termine che significa anche ‘forcella’ e che richiama formalmente la parola croce (lat. cruc-em) dell’espressione francese croix du cheval. Rientra nell’ambito del significato di questo termine anche l’it. gruccia, ingl. crutch ’gruccia’[8] essendo lo strumento di deambulazione per malati formato da un’asta verticale più due traversine orizzontali per l’appoggio dell’ascella e della mano. Meraviglioso è l’abr. cròcchë ‘specie di forchetta che si mette sul collo della pecora per tenerla ferma mentre viene munta’[9]. Il termine è a mio avviso anche alla base di it. crocchia e it. crocchio (voci dall’etimo piuttosto incerto), raggruppamento di trecce e capelli l’una e raggruppamento di persone l’altro[10]. E’ straordinario che anche in tedesco compaia un Gabel (simile formalmente  a cavallo) che significa appunto ‘forchetta’[11].  Questa fitta rete di corrispondenze fra parole italiane, dialettali, francesi, tedesche non si può spiegare come prodotto del caso, ma ci fa capire semmai quanto le parole che usiamo siano antiche, tanto da travalicare abbondantemente i limiti delle rispettive lingue attuali. Io direi che le radici delle parole sono certamente più vecchie delle piramidi d’Egitto.

A mio avviso tutte le espressioni ricollegabili a concezioni animistiche o mitiche della realtà non si sono sviluppate solo grazie a questa tendenza o situazione spirituale in cui si è trovato l’uomo primitivo del passato, ma hanno ricevuto lo spunto proprio da questi numerosi giochi linguistici intervenuti nel corso dei millenni.

L’espressione it. essere a cavallo ‘trovarsi in una buona condizione, in vista magari di un felice completamento di quello che si sta facendo’ non si spiega tanto facilmente.  E’ curioso che l’espressione si riferisca all’animale cavallo e non ad altri animali e che, per l’asino o il mulo, ad esempio, si usi l’espressione essere a cavallo dell’asino o del mulo.  Queste incongruenze si possono spiegare pensando che l’espressione all’origine indicasse il modo di stare seduto sulla schiena di questi animali, con una gamba da un lato e l’altra dall’altro, quasi inforcando l’animale come si inforca una bici.  Quindi l’animale cavallo non c’entra affatto nella sua formazione .  Tuttavia ciò non spiega l’espressione essere a cavallo ’essere a buon punto’.  Secondo me qui bisogna far appello al termine ingl. gable ’timpano’[12] , struttura triangolare sulla sommità di una parete.  Il termine è messo in rapporto col gr. kephalē ’testa’, sicchè l‘espressione essere a cavallo verrebbe a significare ‘essere in cima, sopra’ dopo che si sono superate le maggiori difficoltà.  Il significato verrebbe a corrispondere a quello dell’espressione ingl. to be on top of a situation ‘avere il controllo di una situazione, averla in pugno’, ma letteralmente ‘essere in cima ad una situazione’.  Il valore di ‘testa, cima’ potrebbe spiegare, però, anche l’essere a cavallo precedente nel senso di ‘essere in cima, sopra, in groppa’, senza riferimento alle gambe aperte a cavalcioni sulla schiena di questi quadrupedi.

L’espressione a cavallo dei due secoli o tra i due secoli si spiega dando a cavallo il significato di ‘incrocio, incontro, punto di contatto’ riscontrato più sopra.

NOTE

[1] Cfr. U. Buzzelli – G. Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, Avezzano-Aq, 2002.

[2]  L’imperatore Eliogabalo fece costruire un tempio a questa divinità sul pendio orientale del Palatino. Mi dicono che l’uso di rivolgere le spighe dell’ultimo covone verso oriente era diffuso anche ad Aielli, il mio paese.

[3] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[4] Cfr. arabo jebel, jabal ‘monte’. Ma molto probabilmente il significato d’origine di gabal doveva corrispondere a quello di aramaico e accadico gibil ‘fuoco’, più adatto per un dio del sole. Cfr. anche le voci sarde cadd-ada ‘cavalcata’ < *cavall-ata ma anche ‘fiammata’, caaddi-gghina ‘scintilla’, ecc.

[5] Cfr. J. Frazer, Il ramo d’oro. Uno studio di magia e religione, Newton Compton, 2009.

[6] Cfr. sito web: www.revolvy.com/main/index.php?s…item_type=topic

[7] Cfr. Max Müller, Essais sur la mytologie comparée , traduz. in francese di G. Perrot, Parigi 1873.  Di Müller ebbi notizia dopo aver scoperto la gran parte dei principi che a mio avviso regolano i rapporti e gli incroci  tra le parole.

[8] Cfr. m. ingl. crucche, a.a. ted. krucka, norv. dial. krykkia, tutti col significato di ‘gruccia’.

[9] Cfr. D. Bielli, cit. Questa voce abr. cròcchë ’forca’ esclude, a mio avviso, la possibilità di far derivare l’it. gruccia da un germanico *krukkia come suppongono alcuni. Il termine circolava su suolo italico da tempo immemorabile.

[10] Cfr. anche l’it. centromeridionale accrocco ‘macchina, dispositivo assemblato alla meglio con pezzi instabili’.  A mio avviso la parola è composta dalla prepos. prostetica ad- premessa al termine –crocco, variante di croce, di cui si parla, col valore di ‘unione, assemblaggio, connessione’.  Entrano in gioco anche i termini corradicali fr. croc ‘gancio’, ingl. crook ‘gancio’, che ribadiscono l’dea di “connessione”.  Un covone potrebbe benissimo essere indicato da una simile parola come del resto è avvenuto, a mio parere, nella espressione francese croix du cheval sopra analizzata.

[11] Cfr. anche lat. gabal-u(m) ‘forca, patibolo’ forse di origine celtica.

[12] Cfr. a.a.ted. gibil ‘sommità della casa, timpano’.

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Pietro Maccallini

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