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Giochi dei significati delle parole. Ancora grecismi nei nostri dialetti

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Sono sicuro che nei nostri dialetti vivono ancora, più o meno camuffate, molte altre parole di origine greca, oltre a quelle numerose già scovate e spiegate qualche anno fa.

 Pagliósa f., pagliùse m. (oppure pajjósa f., pajjùse m.) è un aggettivo che ricorre abbastanza spesso nei nostri dialetti marsicani col significato di ‘pericoloso, rischioso, grave, difficile’ come nel dialetto di Luco dei Marsi[1].  Ricorrente è l’ espressione: me la so vista pagliosa ‘me la sono vista brutta, ho passato un brutto momento’.

Ho pensato subito che la paglia (lat. pale-am) non poteva offrire una spiegazione etimologica e che invece il gr. pēl-ós, dorico pal-ós ‘fango, creta’ potesse farlo.  Una strada fangosa può originare i significati collaterali di ‘difficile (da attraversare), disagevole, pericolosa’. Non per nulla in italiano esistono i verbi procomplementari sfangarla, sfangarsela, basati sull’idea di “fango”, che significano proprio ‘cavarsela, riuscire a superare difficoltà, pericoli’.  Ma non è tutto. Il vocabolario greco del Gemoll, sotto la voce pēl-ós riporta l’espressione oléthrios pēlós ‘rischio, pericolo’ (lett. ‘fango rovinoso’).  E così viene chiarita la stretta collateralità dell’idea di “melma, fango” e quella di “pericolo, rischio”.  Anche questa parola dialettale di origine greca, come la maggior parte di quelle analizzate qualche anno fa, presenta la forma dorica palós: questo fenomeno dovrà pur avere un suo significato. Il dorico è più antico dell’attico-ionico.

Altra voce dialettale caratteristica è calìcchia[2] che ha questi significati, registrati a Trasacco-Aq da Q. Lucarelli: ‘bietta, spinotto, cavicchio, chiodo’. In particolare la parola indicava un paletto di legno o metallo, con un fermo verso la metà, che si infilava nell’apposito buco del timone del carro o dell’aratro e che, a sua volta, era agganciato all’anello del giogo chiamato covéglië, covéjjë, cuvéjjë, cuvélla, ecc. a seconda delle parlate. L’etimo della parola rimanda, a mio parere, alla radice gr. khēl-, dor. khal- col significato di ‘tessere, intrecciare’.  A monte di questi significati bisogna porre quelli più generici di ‘unire, connettere’ indipendentemente da come il collegamento tra due o più oggetti avvenga, con un cavicchio, con uno spago o con un anello.  Ritorno ancora una volta sul ragionamento che una radice può assumere significati diversissimi nel corso della sua lunghissima storia, partendo da quello di ‘forza, spinta, ecc.” che è alla base di tutti.  Pertanto può accadere che una radice che abbia sviluppato il concetto di ‘unione’ e venga impiegata ad indicare un ‘cavicchio’, può aver sviluppato contemporaneamente o successivamente, nella stessa lingua o in lingue consorelle del remoto passato, anche il significato di ‘anello’, il quale può aver dato origine ad un concetto di ‘rotondità’ apparentemente del tutto indipendente da quello di ‘unione’, ma sta di fatto che solitamente un anello fa parte di una serie di altri anelli tutti concatenati insieme e quindi deve avere nascosto nel suo interno ancora l’originario significato di “unione”: non per nulla, ad esempio, anche l’anello in sé, e non una serie di essi, è il simbolo più ricorrente dell’unione e della fede matrimoniale.  Esso da solo basta a simboleggiarle perché la parola, che è antichissima, ed ha una ferrea memoria, ricorda per così dire i suoi significati più antichi, anche se nel frattempo ne ha acquisito altri, apparentemente irrelati.

Così il dialettale coveglië, cuvèlla sopra citato, non è un caso che si ritrovi ad indicare cerchi, anelli e simili che svolgono però anche la funzione di collegamento e unione.  Infatti la cu(v)èlla ad Aielli-Aq, Cerchio-Aq e altrove è una sorta di ciambella ottenuta da rami di salice e olmo attaccata al basto (due per lato) attraverso cui passano cordicelle usate per tenere stretta al basto la soma.  Non è strano che in inglese il termine wheel < *(k)weel (cfr. a.fris. hwēll) indichi la ‘ruota’, sebbene slegata dal concetto di “collegamento”. Nel vocabolario abruzzese del Bielli[3] la voce cuvèllë designa “la parte del giogo che a guisa di collare cinge il collo dei buoi”.  Io che da ragazzo sono vissuto a contatto con due vacche maremmane, Cima e Bellina, dalle ampie corna lunate e ricordo bene la forma del giogo, so che in corrispondenza del collo dei due buoi esso presentava una rientranza ad arco di cerchio perché non piagasse il loro collo, e che una cordicella, scendendo dalle due estremità dell’arco, avvolgeva il collo perché il giogo non subisse eccessivi spostamenti durante l’aratura.  Siamo in presenza del duplice, anzi triplice, concetto di “collegamento, rotondità o cavità” che qui riguarda l’arco del giogo senza dar vita ad un cerchio completo od anello.  Così, nelle varie parlate, una stessa radice può indicare un cerchio, un anello, un arco, un nodo, una sfera o qualsiasi corpo grossolanamente rotondeggiante come in genere le pietre e i sassi. Seguendo il caso e le necessità via via incontrate l’uomo primitivo piega le radici, che hanno un comune significato generale, a designare questo o quel concetto specifico derivato da quello generico di fondo.

L’etimologo che non si rende ben conto di questo gioco, crede che una radice sia nata più o meno con un significato ben determinato fin dall’origine e non potrà, secondo me, darci una visione veritiera circa i significati delle parole: a me nessuno ha mai detto che una parola che indica ad esempio un ‘arco’ aveva tra le sue possibilità quella di indicare un ‘cerchio’ e viceversa, o qualsiasi altra rotondità o cavità: una curva, una palla, un sasso, un mucchio, un monte, la volta del cielo, il cielo stesso, ecc. No è un caso che le radici delle parole poco sopra esaminate col significato fondamentale di ‘connessione, collegamento’ ma anche di ‘rotondità, anello’, sono cav- e cov- che si ritrovano nel lat. cav-u(m) ‘cavo, concavo, (anche) convesso’ e lat. arc. cov-u(m) dallo stesso significato.

L’uomo dei primordi non aveva trovato nella sua caverna un abbecedario che lo guidasse nell’apprendimento delle parole.  Il presunto suo Creatore non lo aveva dotato di un linguaggio primordiale che venne a formarsi man mano solo dopo qualche milione di anni dalla sua supposta creazione, la quale in realtà avvenne nella forma di un lento distacco evolutivo da parte dell’animale che sarebbe stato poi chiamato uomo da ceppi apparentati di scimmie antropomorfe.  Aveva pochi suoni a disposizione (venti/trenta) con cui dar vita a quella che è stata la più fantasmagorica sua creazione rappresentata dalle migliaia di lingue e dialetti morti o ancora viventi. All’inizio dovette sviluppare un solo o pochi concetti collaterali abbinandoli a combinazioni di suoni, diverse le une dalle altre, ma con la sua somma capacità plasmatrice della natura e quindi anche delle parole, dovette accorgersi che quei concetti primordiali (forza,vita, spinta) potevano applicarsi a quasi tutte le forme della realtà. Un albero è una forza, come il vento che muove i rami e le foglie, una polla sorgiva è un’altra forza come un corso d’acqua che si muove verso il basso: tutto rientra in questo concetto, anche una montagna che è animata da una certa forza, quando l’animismo è, diciamo così, l’ideologia dominante come fu per l’uomo primitivo.  Basta indicarla con nomi diversi e, in certo senso, il più del gioco è fatto.

Il nome lat. flu-men ‘fiume’ che originariamente doveva indicare  la forza in generale, passò ad indicare la forza che scorre e poi solo lo scorrere. Insomma il concetto di “scorrere”, che non faceva parte inizialmente del bagaglio lessicale dell’uomo, si è plasmato dal concetto di “forza”: essa infatti può concretizzarsi in un “movimento” sia quando qualcuno o qualcosa viene spinto da qualcos’altro sia quando, all’interno del corpo animale, essa ne mette in azione le membra.   Il lat. fla-men (notare la somiglianza della radice con quella di flu-men: infatti il verbo lat. flu-ere ‘fluire’ poteva essere usato anche nel significato di ‘spirare, soffiare’ proprio del lat. fla-re ‘spirare, soffiare’) dapprima dovette indicare solo la forza in generale o, meglio, l’azione di questa forza, poi quella del soffio del vento che spira e scorre nell’aria e infine anche semplicemente il vento. La parola lat. flat-u(m) ’soffio del vento, respiro, fiato’ passando all’italiano si è specializzata ancor di più indicando essa normalmente solo il respiro di un essere vivente, di un animale: parola quest’ultima che etimologicamente rimanda anch’essa al ‘soffio, respiro’ (cfr. il gr. ánemos ‘vento’): l’animale è l’essere che ‘respira, vive’: non per nulla in logudorese, dialetto sardo, esso viene indicato anche con la voce fiadu, etimologicamente solo ‘fiato’.  Il lat. mont-e(m) che originariamente indicava una forza che sporge passò ugualmente  ad indicare solo la sporgenza e quindi il monte.

Una volta dimenticato il valore originario, la lingua crea l’illusione che ogni parola, diversa dall’altra quanto al significante, cioè il suono esteriore, sia diversa anche per il significato e che essa sia nata ad indicare solo il suo referente e basta. Questa illusione era d’altronde assolutamente necessaria perché avvenisse una vera comunicazione anche se solo apparentemente varia e complessa, con l’uso di concetti in apparenza diversi gli uni dagli altri ma che in realtà, per sembrare tali, avevano dovuto lasciar cadere quel concetto unico uguale per tutti.  Il linguaggio, analizzato sotto questo punto di vista, appare veramente come una meraviglia. L’uomo aveva pochissimi strumenti a disposizione per elaborare un linguaggio decente (qualche concetto e 20/30 suoni diversi), eppure da essi riuscì a trarre come dal cappello di un illusionista la meraviglia di migliaia di lingue e milioni di parole tutte diverse (apparentemente) tra loro.  Questa è grande inventiva e creatività!

Ora, tornando alla radice cav-, cov-, di cui abbiamo parlato più sopra, mi preme citare diversi termini dialettali che la contengono per trarne alcune considerazioni: ca(v)-icchia, cav-icchiale, cav-ola,it. cov-one. Il primo cav-icchia /cav-icchië significa, a seconda dei dialetti, ‘zipolo, tappo’ per chiudere il buco praticato nella botte o anche la cannella inseritavi (a volte indica la sola cannella) oppure il ‘cavicchio, l’asticciola’ che collega l’anello ( cov-éjjë/cov-églië) del giogo al timone dell’aratro.  Come si può osservare, la radice in questione può indicare contemporaneamente un ‘piolo’ o un ‘anello’. Come mai? La domanda non ci spaventa perché più sopra abbiamo spiegato come da una stessa radice che inizialmente indicava magari solo un ‘collegamento’ si potevano sviluppare altri significati. Le due parole infatti qui svolgono la stessa funzione di collegamento o unione.  La voce cav-icchi-alë, ampliamento della precedente, nel vocabolario del Bielli[4] significa ‘foro all’estremità di una trave, per legarla con la fune tirata dai bovi’: nella definizione ricorrono tutti i concetti di cui abbiamo parlato in relazione a questa radice, compreso quello di ‘cavità, buco’. La voce cav-ola indica ugualmente lo ‘zipolo’ sia che lo si intenda come ‘spinotto’ che come ‘cannella’. L’it. cov-one indica un insieme di steli di grano, insomma anche qui  una unione[5].

Non abbiamo finito. Esiste una serie di voci dialettali affini alle precedenti. Esse sono: can-icchia, can-écchië, canà-ula. A Cerchio-Aq la voce can-icchia ha lo stesso valore, visto sopra, del marsicano cal-icchia ‘cavicchio, ecc.’. Sembrerebbe che queste varianti siano state generate da errori di pronuncia del parlante, ma bisogna scartare questa ipotesi perché abbiamo visto che esistono radici con significato affine per ciascuna di queste varianti.  Infatti anche la radice can- ha notevoli agganci con altri termini come l’it. cane, nel senso di ‘piolo, pernetto, martelletto’ che percuote l’innesco di arma da fuoco: fa parte di tutto il congegno che mette in collegamento il dito di chi eventualmente preme il grilletto facendo scattare appunto il cane che spinge il percussore sull’innesco. Oltre a ciò la parola mostra anche altri rivelatori significati come ‘strumento a forma di piastra dentata per tenere fermi i pezzi di legno durante la lavorazione’[6].  E’ utile tenere presente anche il ted. Hahn che significa, oltre a ‘gallo’, anche ‘cane del fucile’ e ‘cannello, rubinetto’.  La voce abruzzese can-écchië conferma il concetto di “collegamento” col significato di ‘piccia di due panetti’, cioè una ‘coppia’ di essi.  Ma anche l’altro suo significato di ‘focaccia di crusca cotta per i cani pastori’ lo ribadisce in quanto ‘impasto di crusca’, cioè insieme dei vari pezzettini di crusca impastati con l’acqua. Il termine rivela di essersi incrociato con altri nel percorso di specializzazione: si è incrociato con cane (animale) e con l’abr. can-ìjjë ’crusca’[7], voce ricorrente anche in altri dialetti meridionali.

Per spiegare l’etimo di can-écchië si pensa erroneamente al lat. cani-cula(m) ‘cagnolino’ da cui sarebbe derivato il verbo nganecchjà ’formare una piccia, accoppiarsi dei cani’. Ma che il cane non c’entra per l’etimo è dimostrato dal verbo del dialetto di Trasacco-Aq ncalicchià che significa ‘accoppiarsi dei cani’ magari rimanendo attaccati per via genitale. Esso formalmente però non rimanda al sostantivo canë ’cane (animale)’ ma alla voce calìcchia ‘cavicchio, ecc.’ sopra analizzata.

Da ultimo la voce caná-ula[8], ricorrente con varianti in molti dialetti settentrionali, significa generalmente ‘collare di legno che si mette attorno al collo delle capre e delle vacche e a cui si attaccano i sonagli’.  Ma non mancano altri significati, tutti legati al concetto di “collegamento” come ‘ pastoie, anello del giogo, parte del giogo’.

NOTE
[1] Cfr. Giovanni Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[2] Cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.
[3] Domenico Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[4] Cfr. D. Bielli, cit.
[5]  Per una trattazione esaustiva della voce “covone” cfr. l’articolo Covone: etimologia presente nel mio blog del marzo 2016: pietromaccallini.blogspot.com
[6] Cfr. Tullio De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Bruno Mondadori edit., Paravia 2000.
[7]Cfr. D. Bielli, cit.
[8] Cfr. M. Cortelazzo- C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998, sub voce canàbura.

 

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Pietro Maccallini

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