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‘FARE  A  MARKĔ’

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NECROLOGI MARSICA

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 Nell’ordine, più o meno,  con il quale per femminucce e maschietti, promiscuamente, si fa(ceva) la scoperta di: fare  a campana, a mosca cieca, a vriccia ( i cinque sassolini, rotondi al massimo:  gli astragali),   ad acchiapparella, a nascondarella, a erma, a topatòpa  e,  solo per  i maschietti,  a cavallina, a mazzittĕ (a lippa),   a pallone,  a…,  chi più ne sa più ne dica. “In queste e altre locuzioni   fare,   seguito dalla preposizione a  ha il significato di effettuare l’attività indicata dal nome o dalla frase che segue”.

Sono ricorso all’autorità del vocabolario, il Sabatini Coletti,  perché   il titolo dell’articolo sarebbe risultato incomprensibile per via di quel markĕ, scritto per di più  con il cappa,  lettera che fatta eccezione per qualche documento antico, non si usa  nella nostra lingua

Ora almeno è chiaro  che   fare a markĕ   vuol dire  svolgere un’attività e,  dato il contesto, che è un fare ludico,  piacevole quindi. Non pensi il lettore  che nel gioco entri, in qualche maniera, l’evangelista discepolo di Pietro,  il cui nome peraltro era Giovanni ( Marco è il soprannome, cognominatus est Marcus. Atti,XII,12).

Markĕ  è voce  prettamente  semitica;  è accadico malku e vuol dire re.  Nemmeno    si stupisca se il termine  lo troviamo nel vocabolario  di Lecce che, come detto altrove, è oppido risalente al V-IV sec. a.C.; se parliamo di millenni, e diciamo di Lecce,  possiamo prenderci la licenza di considerarlo antico quasi  quanto Roma, pur se tra il solco tracciato da Romolo sul Palatino e  la nascita del nostro borgo  sul pomerio, cioè  su di costa montana, accadico bam(t)u e   accadico ūru città, villaggio,  trascorrono due e passa  secoli.

Nel nostro markĕ  la r-, definita la regina delle consonanti,  ha preso il posto della l-.

Ma  ecco quando, dove, chicome si fa(ceva)  a  markĕ.

Tempo: saltuariamente in  autunno e inverno  quando,  nella comunità agro pastorale,   i lavori  erano terminati;  non c’erano i bar ( ora ce ne sono ben sette a neanche cento metri di distanza l’uno dall’altro) e le  giornate, per gli adolescenti,  interminabili; i pochi adulti rimasti in paese:  alla cantina,  a fare a carte o a morra e, alla sera, padri  padroni, ma non dei fumi del  vino,  a picchiare moglie e figli, “che se non bevevi e non picchiavi la moglie non eri uomo!”; gli altri, la maggior parte, quelli che non erano uomini, lontani da casa, a guadagnarsi il pane per la famiglia.

Luogo:  una  via, uno spiazzo di quartiere.

Partecipanti: ragazzi o giovanetti nel numero ideale  di cinque, sei; in più o in meno,  per dire che l’attività non prevede un numero fisso,  consistendo il gioco nel fare ognuno per sé.

Strumenti: un mattone pieno, una jòca ( un mattone più sottile con gli spigoli arrotondati)  per ciascun giocatore,  monete,  tutte  dello stesso valore.

-Svolgimento:

– alla distanza di una quindicina di passi si colloca il mattone, che da questo momento diventa e viene chiamato il Markĕ ( il Re ),  la faccia  minore  rivolta al cielo;

-su di essa si mettono  tante monete, del valore stabilito in precedenza, quanti sono i

giocatori ( al tempo in cui l’ho praticato, pochissime volte,  chi te li dava soldi?  era il soldo, appunto,   la moneta da cinque centesimi o, al massimo, la nĕchella, i venti centesimi  di nichel,  a costituire la posta ).

-Si stabilisce, facendo a tocco, cioè alla conta, l’ordine  di tirata della joca;  quindi  il primo giocatore la getta facendola strisciare fino a colpire, il meno violentemente possibile, Sua Maestà il Markĕ  ( un colpo violento farebbe schizzare lontano le monete);  tutte quelle che si ritroveranno, misurando dalla  joca, dentro la distanza stabilita in precedenza:  un palmo, o un  furchio ( la distanza tra il pollice e l’indice distesi) o, comunque,  una lunghezza  fissa per tutti, tipo un fuscello, costituiranno la vincita;  il tiratore  le  raccoglie e le intasca.

Poiché non tutte le monete saranno state alla portata del fortunato primo tiratore;  spetta al secondo  avvicinare la   joca  alle monete rimaste  sparse intorno al Re;  le farà  sue con la stessa procedura. Si va avanti così  fino all’ultimo partecipante. Se restano ancora delle monete,  si procede a un nuovo giro, rincominciando dal primo tiratore, fino a che il Malku non veda distribuite tutte le tasse,  ricevute  in precedenza   dai suoi amati sudditi a titolo di donazione.  Generosa Sua Maestà. Con un nuovo tocco si dà inizio a una nuova partita.

Il colpo da maestro è  quello in cui  si fa arrivare la joca con la spinta necessaria solo a far sì che il Markĕ, toccato, rovesci sulla   joca  tutte le monete della posta.

Questo il gioco.  Lo scopo dell’articolo tuttavia è un altro, come avrà ben intuito  quel   lettore curioso che si sia interessato ai precedenti miei articoli, dallo stesso tenore, comparsi sulle pagine di questa testata: dimostrare,  checché  ne pensi lo scettico, che  nella Marsica,  ci sono voci semitiche, accadiche,  provenienti da quel  Vicino Oriente che è stato, per l’Occidente,   culla della civiltà e della scrittura, ‘farmaco della memoria e della sapienza’ ( μνήμης τε γàρ   καì σοφίας φάρμακον.  Platone, Fedro,274e).   E se parole di origine semitica si ritrovano al mio paese…, perché non in Italia e nel resto  dell’Europa?  Basta volerle cercare e… disposti ad ammetterlo! Io trovo, ad esempio, che  il nome  Cechia, Repubblica, tra il mondo slavo e il mondo germanico,  definisce la sua posizione di “terra di confine”: da accadico eku  (‘boundary ditch, plot surrounded by a dike’.);  come Via della Cecòla,  che trovo scritta nel catasto di Lecce del 1736  a p.148, ed è sul crinale a strapiombo, a confine con il Fossato, sotto Porta Caiola ( a ridosso delle mura; Francesco Milani vi possiede un orticino) e, ancora, che trovo scritta  nel catasto del 1754 p.530;    “ Lorenzo di Antonio Borza, pecoraro, di anni trenta, possiede un’Orticino (sic) nel luogo detto la Cecola di puggelli uno giusta li beni di Giovanni di Domenico Borza e di Antonuo Borza”. Cecola, da accadico (ša pron. dim. quella) eku   e accadico elû alto; Caiola sem.: ebr. gaj, valle, terra bassa e accadico elû alto; la porta principale in alto, a strapiombo alla terra bassa, altro che bassa!, del vallone.

Cosa diversa è parlare dell’origine del linguaggio, che lasciamo agli  scienziati, ai neuroscienziati, agli studiosi.

Fare a erma è fare a nasquĕnnarella ( nascondino). Si è fatto a erma, da accadico erēmu, coprire, nascondere ( eremita,  mica è accadico?) a Vallemora di Lecce, vicino a Capranica,  da accadico kapru villaggio, maniero, ‘certo mal definito insediamento rurale’ ( Oppenheim, A.L., l’antica Mesopotamia, ritratto di una civiltà, newton compton editori, dic. 1980, p.108. ) fino agli anni sessanta del secolo scorso; a topatòpa è  ugualmente fare a nascondino con la differenza che mentre a erma  ciascuno  cerca un nascondiglio solo per sé, qui  a topatòpa, giocano due squadre ad una delle quali, raggruppata in un nascondiglio, i componenti dell’altra, danno la caccia; topatòpa  da accadico  tappûtu,  comunità, società (raggruppamento).

Buon Fare a Mar(l),   nell’imminente giorno di festa dei tre Malki: Gaspare,  Melchiorre, e Baldassarre che vanno a Bethlehem… Bethlehem: confronta con accadico bētu, casa e accadico  lā’ium  potente, valente ( forse perché sede di casa reale…), ebr. le’ōm (popolo).

 

 

NOTICINA: Giacché i MALKI me lo suggeriscono, giro il loro  invito a leggere, “LA FREDDA CAPANNA”.

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Berardo Ettorre

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