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La voce regionale trappeto ‘torchio, frantoio (per le olive)’

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NECROLOGI MARSICA

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Incredibile! Sono numerose le volte che mi ritrovo ad usare quest’esclamazione quando scovo il vero etimo di una parola, diverso da quello ritenuto scontato da tutti o dalla maggioranza dei linguisti: segno che il mio metodo di lavoro, che va abbondantemente controcorrente, scende anche molto più in profondità rispetto agli altri, evidenziando significati molto più generici delle radici, tanto che queste possono riferirsi ad una rosa di termini molto più vasta di quella comunemente contemplata.

Mi pare che tutti i linguisti riconducano il centro-meridionale trappitë al lat. trapet-u(m) risalente al gr. trapēt-ès ‘torchio’, una glossa di Esichio, e alla radice di gr. trapé-ō ‘pigio l’uva’.

Ora, cercando qua e là nel web, ho incontrato dei post che parlano di particolari tappeti della famosa città di Erice nel trapanese, i quali vengono localmente chiamati trapp-ìte, non tapp-eti. Di primo acchito si potrebbe supporre che la voce ericina sia uno storpiamento dialettale dell’it. tappeto, ma così non è. Questi tappeti, usati come scendiletti, sono composti da scampoli variopinti di stoffa cuciti insieme a formare spesso figure geometriche multicolori. Si tratta, insomma, del solito concetto di “connessione, unione, mucchio, coacervo, struttura, ecc.” di cui ho molto parlato nei miei articoli.

Anche un torchio è una struttura composta da vari elementi interconnessi e difatti la parola centro-meridionale trapp-ìtë e simili è usata per indicare non solo il ‘torchio’ ma anche altri strumenti che con esso non hanno nulla a che fare: cfr. gli abr. tràpëlë ‘trappola’, trapël-ónë ‘trappolone, bindolo’, trap-ul-ìnë ‘bindolo’, trapp-ël-ìnë ’palettina’, trapp-iédë ‘treppiede’, trapp-ìtë ‘treppiede’1. Queste ultime due voci fanno pensare, travolgendo la credenza comune, che l’it. treppiede ‘arnese a tre piedi’ non sia stato creato apposta quando il treppiede fu costruito, ma che esso sia una specializzazione di un termine precedente col valore generale di ‘strumento, sedia, ecc.’. Lo stesso ragionamento va fatto per gr. tráp-eza (dor. tráp-esda, beot. trép-edda) ‘tavola, mensa’, il quale non è una forma contratta di un primitivo tetra-peza ‘quattro piedi’ come tutti sostengono ma, a mio parere, appartiene alla serie di trapp-itë precedentemente mostrata. Una mensa è una struttura composta di vari elementi, in genere lignei. Il numero dei piedi è ininfluente per la sua denominazione. La radice si ritrova anche nello sp. trap-iche ‘frantoio’, sp. trap-icheo ‘traffico, intrigo, intrallazzo’ col quale ritorniamo al concetto di “intreccio, confusione”. La radice, quindi, non è necessariamente da ricondurre al greco storico, data la sua presenza in Sicilia, in Ispagna e in Gran Bretagna con significati molto diversi da quello di ‘frantoio’.

Dobbiamo metterci in testa una buona volta che la Lingua non è una entità che sta lì pronta ad inventare le parole appropriate per ogni nuovo referente. Essa sfrutta di norma solo concetti e parole già esistenti ab antiquo nell’economia del linguaggio, ma dal significato più generico, come è naturale, che si restringe e specializza di volta in volta proprio nell’atto di nominazione. Il problema l’ho trattato anche nell’articolo precedente Giochi dei significati delle parole… Il fatto era noto già al Saussure, il quale anzi si lamenta che la maggior parte dei filosofi della lingua lo ignorano, anche se nulla, dal punto di vista filosofico, è più importante.2 E’ vano credere, come generalmente avviene, che la lingua sia un meccanismo formatosi in vista dei concetti da esprimere, i quali sono sempre o quasi il risultato fortuito di una specializzazione di termini dai significati di fondo più generici di quelli a cui danno origine. Si tratta di belle conferme che allargano felicemente lo spirito e non lo restringono.

La stessa radice, ma con la labiale sonora, dà vita ad altri interessanti termini. Il lat. trabe-a(m) ‘toga’ può essere inteso appunto come tessuto, cioè un intreccio di fili. Ma il significato poteva risalire anche al concetto di “coprire”, il quale rientra sempre in quello di “unire, porre insieme, mettere in contatto” di cui ho parlato altrove. Cfr.anche lo sp. trab-ar ‘unire, collegare, bloccare’, sp. trab-uc-ar ‘confondere’, cioè un ‘mescolare insieme’. Stupendo è l’abr. trab-ùcchë ‘tovagliolo’, un panno, un tessuto. C’è anche l’ingl. trapp-ings ‘abito da cerimonia’ oltre all’ingl. trapp-ing ’arazzo, gualdrappa’.

Abbastanza noto è il trabocco o trabucco, una struttura lignea ancorata alla riva per pescare il pesce che si avvicina alla costa, metodo usato in Abruzzo e Puglia. Ora, si dà il caso che anche la rete (un intreccio di fili, dunque) impiegata in questo caso si chiami trab-occo. La struttura viene anche denominata bilancia e in questo senso il termine va forse segmentato in tra-bocco, richiamando il traboccare della bilancia di cui ho trattato in altro articolo. La radice, con la dentale iniziale sonorizzata, riappare nell’it. drapp-o da un tardo lat. drapp-u(m), trap-u(m), forse di origine gallica.

Alla genealogia delle parole capita quello che succede ad ognuno di noi quando disegna il suo albero genealogico. Man mano che risale nel tempo l’albero diventa talmente ramificato che gli antenati di ognuno finiscono con l’essere antenati anche di tante altre persone, fino ad abbracciarle tutte. Siamo in effetti tutti parenti. Anche le parole finiscono per esserlo se le seguiamo a ritroso.

NOTE
1 Cfr. Domenico Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004.
2 Cfr. F. de Saussure Corso di linguistica generale, pp. 103-4, nella traduzione di Tullio De Mauro, editori Laterza, Bari 1976.

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Pietro Maccallini

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